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FUGA DAGLI STADI ITALIANI, IN UN ANNO -46MILA TIFOSI

 

FONTE:La Stampa

 

Interessante approfondimento de “La Stampa” sui numeri negli stadi italiani, in netta controtendenza rispetto al resto dell’Europa. C’è un gap da colmare, anche per rendere più “vendibile” il prodotto calcio, a cui non bastano più vacui slogan nostalgici. E a pensar male, immediatamente la mente scivola alle ultime fantomatiche riforme volte – si dice – ad eliminare la tessera del tifoso.

 

Qualche anno fa il presidente della federcalcio australiana, il miliardario Frank Lowy, è allo stadio «Franchi» per Fiorentina-Lecce quando inizia a diluviare. Si guarda intorno, la tribuna di fronte e le curve, tra chi apre gli ombrelli e chi scappa via, poi si volta verso il direttore generale della Figc, Michele Uva: «Scusi, ma quando aprono il tetto?». Da film di Woody Allen o da pessima realtà: sul calcio italiano piove a dirotto, in senso letterale e figurato. «Ma come fa una famiglia ad andare allo stadio?», si chiede ancor oggi Uva, tra le maglie dei suoi ex club appese alla parete, dal volley al calcio, e una montagna di libri (alcuni anche scritti) sull’impiantistica sportiva: «Una mia passione e fissazione». Non ha dubbi: «Gli stadi sono il primo fattore su cui intervenire per far tornare il pubblico».
Da tempo, in Italia sta calando: nell’ultima stagione, sul conto totale della serie A ci sono stati 45.912 spettatori in meno (-0,5 per cento). Tranne la Francia, che però è in fase di sorpasso, gli altri grandi campionati fanno tutti meglio. A parte la casa dei top player, Liga e Premier, va alla grande la Bundesliga, dove hanno pensato prima alla casa, cioè agli stadi: anche nella stagione scorsa il campionato tedesco, per media di pubblico a partita, è stato l’evento sportivo più seguito al mondo, dopo il football americano della Nfl. Una miscela di edilizia (gli impianti) e furbizia (il marketing). Tutte cose che – Juve, Udinese e Sassuolo a parte – in Italia non sono mai state fatte.
Senza tetto e biglietti
Da anni, si dice che sul calo di spettatori (e di ricavi) del calcio italiano girino molti luoghi comuni: basta controllare i dati e ci si accorge che, al massimo, sono luoghi pieni (di verità) e vuoti (di persone). «Ci sono tante ragioni – spiega Marco Brunelli, direttore generale della Lega calcio e docente del dipartimento di Economia e Tecnologia dell’università di San Marino – ma non c’è dubbio che la qualità delle infrastrutture sia il primo punto. Stadi più comodi e accessibili si riempiono più facilmente». Sarebbe già una conquista restare all’asciutto, come succede quasi sempre in Europa: dei 95 stadi utilizzati nell’ultima stagione nei cinque maggiori campionati, 71 hanno una copertura totale, il 75 per cento. Accade in tutta la Premier, metre in Bundesliga solo il Merck-Stadion am Böllenfalltor di Darmstadt fa eccezione (quella che conferma la regola). Dai noi piove dentro, appunto: dei 17 stadi della serie A 2016/17 solo 8 sono totalmente coperti, il 47 per cento, peggior dato continentale. Va di moda il cabriolet anche in Spagna, che fa comunque meglio di noi: 10 su 20. Le previsioni per il futuro sono peggio del meteo, senza grandi miglioramenti: «Guardando alla stagione 2017/18, i nuovi stadi di Roma e Fiorentina sono ancora lontani», sottolinea l’ultimo report di Kpmg Football benchmark. Farà invece meglio la Germania, visto che sono appena state promosse in Bundesliga Stoccarda (stadio da 60.000 posti) e Hannover (49.000). Ma il grande problema italiano non sarebbe neppure la capienza media (41.000), secondo dato europeo, ma l’essenza, e l’esistenza, degli stadi. In fondo, come diceva Dostoevskij, «la bellezza salverà il mondo».
Chissà se anche il calcio e i suoi conti. Perché poi, negli ultimi cinque anni la serie A ha perso ricavi per 527 milioni di euro, come certifica l’ultimo rapporto di Deloitte. Pure qui, cupe proiezioni: per la stagione che sta iniziando la Premier avrà ricavi per 5,1 miliardi; la Bundesliga 3,2 miliardi; la Liga 3 miliardi, la serie A 2 e la Ligue 1 per 1,75. Non a caso, all’estero si continuano a fabbricare impianti: sì, fabbricare, perché il ritmo è da catena di montaggio. La scorsa settimana la Juve ha sfidato il Tottenham, a Wembley, domicilio affittato per quest’anno: per gli Spurs, giusto il tempo di costruirsi la nuova casa, dopo la demolizione del glorioso White Hart Lane. Avranno un impianto deluxe con capienza raddoppiata entro l’inizio della stagione 2018/19, mentre a Roma e Firenze si starà ancora discutendo di progetti e cubature.
Non dev’essere poi un caso che dove le cose hanno un inizio e una fine, si trovino pure finanziamenti. Come quelli che Goldman Sachs e Bank of America Merrill Lynch hanno concesso al Tottenham, per un progetto da oltre 400 milioni di sterline, sui 455 milioni di euro: ovvero, un piano con emissione di azioni e obbligazioni, vendita dei diritti sul nome e cartolarizzazione dei futuri introiti dalla vendita di biglietti e diritti televisivi. Questione di soldi, tanti. Del resto, da quando l’Arsenal s’è fatto l’Emirates Stadium ha avuto un’impennata dei ricavi da gare: 134 milioni di euro, oltre il doppio del Tottenham. Morale: un impianto accogliente infila quattrini nelle casse e ri-porta i tifosi. Perché alla fine, non è neppure questione di prezzo: «Si dice che in Italia abbiamo tra i biglietti più cari d’Europa: balle», racconta ancora Uva. Per dimostrarlo ha studiato un indicatore, «indexuva»: sostanzialmente, confronta il costo dei tagliandi dei vari campionati europei in relazione al salario medio. L’impressione non è che sia una questione di cifra assoluta, ma di quanto ogni club offre per un determinato biglietto: «Il fatto – osserva Brunelli – è che l’offerta televisiva è migliorata e gli stadi sono rimasti quelli». In Italia. Perché poi la concorrenza della tv c’è ovunque e quindi non è certo un fattore determinante sulla fuga di spettatori.
Marketing e scouting
Sfidando gli stereotipi, la Bundesliga ha davvero dimostrato efficienza tedesca. «Hanno fatto una politica particolare sul prezzo del biglietto – dice ancora Uva – partendo da cifre molto basse, ma studiando un modello a 360 gradi per la fruibilità dello stadio. Da un biglietto che costa pochissimo, con posto in piedi, fino all’offerta per la grande azienda. Sono stati più bravi degli altri». Completa il pensiero Brunelli: «In Italia i club non hanno quasi mai usato in maniera creativa la leva del prezzo, come strumento di marketing, anche se adesso qualcosa si inizia a vedere». Dunque, guardare la Bundeliga e prendere appunti, suggerisce il professor Nicola Tomesani, che insegna alla Bologna Business School ed è docente di Sport marketing nel Master internazionale in strategia e pianificazione degli eventi e degli impianti sportivi dell’università di San Marino e Parma: «L’esempio è la Germania, perché Inghilterra e Spagna hanno spese folli per i giocatori. In Bundesliga si coniuga l’incertezza del risultato, stadi pieni e conti in ordine».
Altro particolare: «Non si svenano per comprare Neymar, ma costruiscono giocatori, sul lungo periodo». Da Lewandovski, pescato in Polonia a 4,5 milioni a Ousmane Dembélé, soffiato al Rennes per 15 milioni e ora trattato con il Barcellona a dieci volte tanto. Il marketing è un parente stretto delle sponsorizzazioni, dove pure l’Itala fa fatica: la serie A si ferma a introiti commerciali per 523 milioni contro i 700 della Liga e gli 1,2 miliardi della Bundesliga. Dopodiché, ci si potrebbe chiedere: cosa c’entra con la fuga degli spettatori dagli stadi? «Nel calcio è un po’ un circolo vizioso», concordano Uva e Brunelli. Detto brutalmente: meno ricavi, meno soldi da investire, stadi vecchi, meno pubblico. Un circolo vizioso che ha un inizio, soprattutto per i conti delle società, precisa il professor Umberto Lago, docente di Economia e Gestione delle imprese all’università di Bologna e per otto anni membro dell’organo di controllo finanziario sui bilanci dei club della Uefa: «Lo stadio è importante per due motivi: uno patrimoniale, perché generalmente i club non hanno immobili; e poi perché con i nuovi format del calcio l’impianto ha la stessa valenza dei flag store. E’ un luogo in cui l’esperienza dev’essere coinvolgente. E, come si dice, generatore di brand identity». Cioè, essere identificato con il proprio marchio, logo, squadra. Anche se la nostra occasione l’avevamo avuta, con i Mondiali del 1990: sprecata, facendo impianti già datati ancor prima di aprirli. Altrove, l’evento è stato un formidabile volano: i Mondiali 2006 in Germania, gli ultimi Europei in Francia.
Detto ciò, spesso non siamo neppure tanto bravi a difendere ciò che abbiamo. «Il Manchester United – aggiunge Tomesani – spende sui 5 milioni di sterline l’anno per azioni di tutela del marchio, perseguendo i falsari». O gli abusivi, per esempio, che da sempre vengono spacciati per fenomeno squisitamente italiano: «Non è che all’estero sono più onesti, le bancarelle abusive ci sarebbero anche a Manchester, solo che loro non lo permettono. E’ marketing anche questo». Per dire, la Juve, «che sotto questo aspetto in Italia è la migliore», spende per azioni simili circa un decimo. I bianconeri restano comunque un modello da seguire: «Non sono tifoso juventino – sorride Tomesani – ma questa è una società che ha una struttura dedicata al marketing, con uno staff di persone, assunte e dedicate al compito. Ci sono squadre di A con uffici marketing di due-tre persone».
«Più spendi, più vendi»
Dunque, basta rifare gli stadi? Non proprio. Perché se le condizioni degli impianti, deprimenti, sono forse la causa principale del calo di pubblico in serie A, ci sono anche altri fattori. Come in tutte le ricerche, si procede per gradi e ipotesi, e il professor Tomesani ne fa una che rispolvera i fantastici anni Ottanta del campionato italiano: «Ovviamente bisognerebbe intervenire sugli stadi, ma il fenomeno più importante è la qualità dello spettacolo, dal punto di vista tecnico: la presenza dei campioni. Così si riempiono gli stadi». Dove per identificare un campione si usa un criterio semplice: «Si prende in esame il costo del cartellino e lo stipendio. Alla fine, come si dice, più spendi e più vendi». Ci sarebbe anche l’indice Hicb (Hirschman-Herfindahl for Competitive Balance), quello che valuta l’equilibrio competitivo di un campionato in base alla distribuzione dei punti in rapporto alle squadre partecipanti: «Ma pare invece che ci sia zero correlazione tra questo indice e il load factor», cioè la percentuale di riempimento degli stadi. Che da noi è attorno al 50%, e in Germania ben oltre il 90.
Basta prendere la Ekstraklasa polacca, uno dei tornei più incerti, con indice Hicb di 104 (100 è l’equilibrio perfetto): gli stadi hanno la seconda affluenza più bassa d’Europa. Ma per tornare a fare shopping di campioni servono soldi, e qui si torna al circolo vizioso. «Eccetto la Juve, che già ebbe l’idea con Giraudo, il fatto è che le società non hanno mai investito sullo stadio, non capendo l’importanza di avere un impianto». Che ora è rimpianto. Come non dovrà esserlo la tessera del tifoso, dice con ironia il professor Lago: «Famigerata: come se io andassi a comprare qualcosa in un negozio e dovessi fornire le mie generalità e quelle di chi mi accompagna. Mentre chi faceva casino continuava a farlo: una cosa ridicola, cui fortunatamente hanno messo mano». Scrutando il futuro, c’è un altro aspetto positivo, chiude Brunelli: «Adesso non ci sono più alibi per non investire in infrastrutture, e c’è chi lo sta già facendo: ci sono nuovi strumenti normativi e poi dal 2021 chi non avrà lo stadio con standard europeo non potrà iscriversi alla serie A». Basterà essere di parola.

 

MASSIMILIANO NEROZZI