NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

LA GENESI DELLA REPRESSIONE

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DAVIDE LIBERO











QUANDO CI FAREMO UN ESAME DI COSCIENZA SARÀ TROPPO TARDI(?)

 

FONTE: Sport People

 

Sono stato uno dei “ragazzi di curva” cresciuti sullo strascico di quel tristemente celebre 29 gennaio 1995. L’omicidio di Vincenzo Spagnolo ai margini di Genoa-Milan. È uno dei primi episodi di violenza legati al calcio che ricordo, così come ricordo tutte le sue conseguenze all’interno del movimento ultras.
Una levata di scudi da parte della maggior parte delle curve che aveva come obiettivo quello di una comune presa di coscienza. Il voler “crescere” e comprendere la gravità – e anche la gratuità – di determinate azioni. Nonché il grande assist che con esse si dava a chi voleva dissolvere gli ultras, ingabbiandoli nei loro limiti e utilizzandoli a proprio piacimento per la sperimentazione di leggi liberticide.
Sono passati quasi ventiquattro anni e ieri mattina, per certi versi, ci siamo scoperti di nuovo al punto di partenza. Di nuovo a piangere un ragazzo ucciso. Di nuovo a porci gli stessi interrogativi. Di nuovo a doverci sorbire i sermoni di giornalisti tanto bravi a condannare o parlare a vanvera, ma un po’ meno ad offrire analisi e approfondimenti logici e argomentati. Che probabilmente richiederebbero uno sforzo abnorme per gente così distante dalla società civile.
Di nuovo si è dato l’assist al mondo della politica per stra-parlare e proporre le sue soluzioni. Ancora una volta improntate alla limitazione della libertà, all’allargamento dei divieti e delle restrizioni. Reazioni tanto programmabili da sembrare legate a un copione che esce fuori ogni volta che questa situazione si ripropone.
Ma oggi non penso sia importante concentrarci sulla stoltezza di politici e giornalisti, quanto su quella di un movimento che non ha saputo evolvere, non ha saputo comprendere i propri errori e, peggio ancora, è tornato prepotentemente a compierli dopo averne pianto amaramente le conseguenze.
Abbiamo giustamente opposto resistenza (spesso strenua) alle tante politiche repressive occorse nei confronti dei tifosi. Abbiamo stigmatizzato Daspo arbitrari, barriere in curva, vere e proprie persecuzioni giudiziarie, ma non abbiamo mai davvero detto basta a talune esagerazioni. Forse si è creduto di poter rimanere sempre negli anni ottanta o novanta, mentre la società cambiava inesorabilmente. In peggio, è vero. Ma anche fisiologicamente. E fisiologicamente, al pari dei tanti soloni moralisti, è anche comprensibile che la violenza da stadio non possa esser accettata da chi le gradinate neanche le frequenta.
Il cittadino medio è dozzinale e giustizialista, si sa. Assetato della parola “carcere” e schiavo di quella “sicurezza”. Ma come si può snocciolare un discorso in difesa del movimento se di tanto in tanto ci troviamo a dover far i conti con un morto o con palesi incongruenze tra la volontà di crescita e un pesante ancoraggio a “modus operandi” non proprio ortodossi? Come si può uscire definitivamente dallo stereotipo cui i ragazzi delle curve sono investiti da ormai mezzo secolo?
Questa è una risposta che solo le curve possono dare. A cui solo i direttivi, con un lavoro di regolamentazione interna, possono assolvere. Una risposta che tutti si dovrebbero preoccupare di dare da Nord a Sud. Almeno coloro i quali hanno a cuore la propria tifoseria e cinquant’anni di tifo organizzato.
Oggi, come nel 1995, qualcuno si domanda se sia giusto andare avanti così. Oggi, come nel 1995, ci si chiede come questo movimento può preservare sé stesso e i tanti ragazzi che lo frequentano credendo in sani ideali e anteponendo la vita di curva alla propria. Oggi, come nel 1995, rischiamo di ascoltare solo tante parole e ritrovarci – tra qualche tempo – di nuovo daccapo.
Credo che il mondo ultras debba riuscire ad abbassare radicalmente i toni se vuole quantomeno salvaguardare sé stesso. Difficile ancora sposare appieno un’aria da Carboneria del 2018: un boomerang incredibile. Un muro che ha impedito per troppi anni un dialogo sereno tra tutte le sue componenti interne e ha facilitato chi su questo movimento d’aggregazione giovanile ha costruito la propria carriera. E se io posso comprendere che determinate tifoserie non vogliano sedersi allo stesso tavolo divento meno comprensivo quando le ragioni diventano esclusivamente “elitariste”.
È l’essere un blocco unito e coerente rimane l’unica strada percorribile. L’unica via con cui poter avere sempre e comunque voce in capitolo e saper rispondere agli attacchi beceri e congiunti che arrivano in momenti come questi.
Il mondo del giornalismo “da grandi firme” aspetta episodi come quello di San Siro per speculare, sciacallare sui morti e utilizzare i protagonisti per ottenere qualche like in più o vendere dieci misere copie. È un ambiente di miseri approfittatori, lo vediamo in queste ore. Tutti pronti a scrivere il proprio pezzo biografico sul ragazzo che non c’è più, andandone a sottolineare gli aspetti che maggiormente possono impressionare la massaia di Voghera e continuare ad ingigantire l’esistenza dello “spauracchio” ultras.
A costoro sarebbe da replicare con fermezza ed argomentazioni che le curve avrebbero a iosa. Questi figuri – assieme ai loro corrispettivi che sovente siedono nelle aule parlamentari – amano regalarci le loro perle di moralismo. Si dicono democratici e rispettosi, ma sono i primi infami forcaioli d’Italia. Vorrebbero un mondo a propria immagine e piacimento, dove ogni realtà leggermente distorta dal proprio punto di vista andrebbe chiusa in carcere al primo errore.
Ecco: chi ha ancora voglia di sentirli parlare o – peggio ancora – veder muovere vere e proprie spinte per la creazione di decreti anti costituzionali e leggi restrittive nei confronti dei tifosi? Sono gli stessi che inizialmente hanno descritto la tessera del tifoso come la panacea di tutti i mali. Lo hanno fatto anche e soprattutto perché di fronte hanno trovato, sì, una contrapposizione delle curve, ma hanno fatto leva sulla sua poca omogeneità, sul suo essere frammentaria e labile. Paradossalmente troppo poco interessata a difendere i propri diritti e i propri spazi.
“Non si può morire” allo stadio sarà anche un frase demagogica e banale. Ma è così. Non si può morire “tra noi”. E se c’è chi lo giustifica, o addirittura lo apprezza, personalmente mi sento sconfitto in partenza. Sento di aver buttato tempo e pazienza a difendere, a volte, l’indifendibile o argomentare le ragioni di ragazzi che spesso hanno la sola colpa di indossare una sciarpa e andare in trasferta.
Ma l’epoca dei vittimismi dev’essere assolutamente finita. Che il movimento ultras abbia rispetto di sé stesso e prenda coscienza dei propri limiti. Perché la brutta serata di Milano può essere davvero l’ultima chiamata a disposizione.

 

Simone Meloni