NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

LA GENESI DELLA REPRESSIONE

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Udine: prove tecniche di repressione

 

Non hanno ancora i poteri che gli conferirebbe la Tessera del Tifoso, ma già ti mettono i piedi in testa come gli pare e piace. Le chiamano forze dell'ordine. Ma al di la del nome, della storia e della divisa, c'è una realtà ben poco gloriosa, ben poco popolare, sociale e patriottica.
Arriviamo ad Udine, ansiosi d'assistere alla prima del Parma, felici d'essere tornati in A, desiderosi di cantare per il nostro Parma. Ma poi arrivano loro. Ordine e giustizia li hanno lasciati a casa, c'è voglia di mostrare i muscoli, di farti capire chi comanda. "Via le cinture" è l'ordine sprezzante dell'agente. «La cintura potrei anche togliermela, ma non potete trattarci così. Umiliandoci come se fossimo delle bestie», gli risponde un nostro ragazzo. Ma loro non sentono ragioni. Ti rispondono che devono fare rispettare la legge. Quando gli fai presente che non c'è nessuna legge che vieti ad un uomo di sorreggere i pantaloni con la cintura, loro rispondono che non importa «Devi fare quello che diciamo noi». Qualcuno non ci sta, non è abituato a questo clima da dittatura militare sudamericana (o sud europea?) e decide di rimanere fuori.
Le nostre bandiere e i nostri stendardi entrano tutti. Non ci fanno storie ma ci dicono una cosa che non comprendiamo: «Potete far entrare tutto, non siamo ancora a regime.» Cosa significa? C'è un "regime" per le bandiere? Sicuramente sì.
Un nostro ragazzo aspetta un suo amico dagli ingressi. Un poliziotto lo richiama e lo redarguisce, intimandogli di entrare subito. Il ragazzo gli spiega pacatamente la situazione ma la persecuzione è immediata: «Vieni qui e mostraci i documenti che ti diamo subito un Daspo». E solo un agente semplice, ma con gli ultras può permettersi di fare il ducetto. Dopotutto chi li tutela i tifosi?
Alcuni tifosi del Parma, di fuori provincia, vengono spediti insieme ai tifosi dell'Udinese. Chiediamo agli agenti di lasciarli venire con noi, per evitare inutili tensioni, ma loro rispondono picche. Li invitiamo ad avere buonsenso e loro rifiutano. «Non possiamo avere buonsenso, dobbiamo far rispettare la legge, giusta o sbagliata che sia». La ragione, evidentemente, l'hanno lasciata nello spogliatoio, dal momento che hanno indossato l'uniforme.
Finita la partita i pullman partono. Quando tocca al nostro uscire dallo stadio lo bloccano improvvisamente e chiudono i cancelli. Subito dopo arrivano poliziotti e carabinieri. Temendo il peggio allertiamo i ragazzi con le telecamere, affinché possa rimanere una prova degli eventuali abusi. Ma i paladini della videosorveglianza se ne accorgono e non gradiscono. «Spegnete tutto, è un'operazione di polizia», gridano gli uomini con la divisa. Le prove video vanno bene, ma a senso unico. Forse funzionava così anche in Argentina e in Cile. Chiediamo spiegazioni ma non ce le danno. Potrebbero anche ammazzarci e chissenefrega. Dopotutto siamo ultras, una giustificazione la troverebbero. Mica sei un politico corrotto o un mafioso. Un loro collega ha ammazzato Sandri e l'ha fatta franca, nonostante i testimoni. Ripensiamo alla Diaz e ad Aldrovandi. Colpirne uno per educarne cento. Succederà anche a noi? Ci mettono in fila, e ci riprendono uno a uno. E' come in un lager: loro gli aguzzini, tu la vittima. Alla fine ti lasciano andare. Che bello, siamo ancora vivi. Per ora.