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L’Idra dalle molte teste: le folle nel sapere di polizia

 

FONTE:il lavoro culturale

 

Conoscere le soggettività sociali con cui si trova quotidianamente a interagire è un’attività strategica per la polizia.

 

Il sapere di polizia si basa sulla descrizione e sulla categorizzazione di individui e gruppi. I manuali per la formazione del personale forniscono esempi interessanti a riguardo, proponendo discorsi professionali che, seppur indirettamente, possono condizionare l’agire degli operatori attraverso la produzione di vere e proprie cornici di significato. Queste cornici, o frames, favoriscono sostanzialmente la costruzione di una rappresentazione univoca e semplificata delle soggettività con cui la polizia si relaziona, precludendo letture alternative della realtà sociale e, dunque, restringendo i margini di azione possibili.

Il sapere sulle folle contenuto nei testi qui analizzati è ricavato principalmente da studi risalenti alla fine del XIX secolo o agli inizi del XX: le teorie di Le Bon e di Sighele, nello specifico, sono ritenute una base di partenza imprescindibile nello studio dei comportamenti collettivi[1]. Per contro, sono praticamente assenti riferimenti a studi di ambito socio-politico sui movimenti sociali.

Alla luce di queste concezioni psicologizzanti e vetero-criminologiche, le masse sono considerate irrazionali e deresponsabilizzanti. La folla, infatti, darebbe forma a «un’anima collettiva che riduce la personalità cosciente degli individui, tanto che questi sono incapaci di essere guidati dalla propria volontà[2]». È dipinta come un’entità i cui comportamenti sono dettati da fattori puramente emozionali: un organismo guidato dai propri «umori», come tali variabili e capaci di mutare in maniera repentina[3]. La «suggestionabilità» ne è il tratto caratterizzante[4]: una massa di individui «non è influenzabile con i ragionamenti, perché pensa per immagini ed è colpita solo dalle immagini[5]».

Secondo la polizia, dunque, la folla deresponsabilizza: al suo interno, il singolo «si sente come libero di abbandonarsi ai comportamenti più disparati[6]», dato che «è l’organismo sociale che agisce, sceglie ed opera per lui[7]». Inoltre, fornisce un senso di identificazione collettiva a persone in condizioni di vulnerabilità sociale o afflitte da problemi esistenziali e familiari, a «ragazzi che conducendo una vita vuota e noiosa, possono sentirsi spinti a considerare la violenza di piazza come un qualcosa che rompe la monotonia[8]».

Nel rappresentare le folle come irrazionali e deresponsabilizzanti, i manuali impiegano dispositivi discorsivi come la generalizzazione, che pongono i manifestanti sullo stesso piano di altre categorie comunemente oggetto di attenzione da parte delle forze dell’ordine e li fanno oggetto di etichette dispregiative («facinorosi», «scalmanati», «provocatori»).

Un altro dispositivo è quello dell’estremizzazione. Coloro che scendono in piazza sono indistintamente indicati con l’appellativo di «sovversivi», e sono classificati all’interno di elenchi eterogenei quanto surreali, che includono contemporaneamente i medical e legal team – colpevoli di fornire «coperture» e «appoggi esterni» – e gli studenti: questi «da sempre dimostrano propensione per la violenza rivoluzionaria, hanno tempo da impiegare a favore della causa e sono fisicamente idonei allo scontro-e-fuga». Così come sono incluse professionalità quali i chimici e gli operai metallurgici, particolarmente utili «per la preparazione degli artifizi esplosivi o per l’attività di scasso o fabbricazione in casa di armi (di solito si organizzano specifici corsi)» e i vari gruppi che, a Genova, hanno animato le proteste contro il G8 del 2001 [9].

Altrettanto centrale, poi, è l’espediente retorico della drammatizzazione. Favorito dall’uso frequente di alcuni termini, come quello di «raptus»[10], caratterizza negativamente in senso psicologico le azioni della folla. Emerge anche l’uso di metafore “naturalistiche” e “scientifiche” atte a stabilire un parallelismo tra dinamiche di gruppo e fenomeni naturali pericolosi e potenzialmente ingestibili. Ad esempio, nel caso di disordini, la modalità di intervento «preventiva» è descritta come utile in quanto serve a «evitare che piccoli focolai possono tradursi, per colpevole omissione, in un incendio di grosse proporzioni, che in qualche caso potrebbe essere difficilmente estinguibile (ndr.: incapacità di controllo delle masse)[11]», e deve essere «condotta agendo sui centri di forza della folla, neutralizzando cioè i capi ed i nuclei a comportamento direttivo, che operano a guisa di conduttori elettrici, attraverso i quali la folla può scaricare la tensione[12]».

Espedienti e metafore di questo genere, peraltro, non caratterizzano soltanto il sapere di polizia contenuto nei manuali. Sono presenti anche nella pratica del lavoro poliziesco e in linguaggi professionali contigui, come quello della magistratura. Tra i vari esempi possibili, basti ricordare il nome “tecnico” attribuito all’operazione della Procura e della Digos di Trento che, nel 2012, ha portato all’arresto degli anarchici Massimo Passamani e Daniela Battisti: Ixodidae. La traduzione è “zecche dure”, che evoca il termine dispregiativo “zecca” comunemente impiegato negli ambienti dell’estrema destra (ma evidentemente anche in quelli istituzionali) per denotare i militanti di sinistra.

Oltre a rappresentare le folle come irrazionali, i dispositivi discorsivi qui esemplificati, in determinati casi, svolgono un’altra funzione, apparentemente contrapposta ma in realtà complementare alla prima. Attribuiscono cioè un carattere iper razionale e pianificatore ad alcuni soggetti che partecipano alle mobilitazioni. I manuali, più in dettaglio, si soffermano a lungo su alcune figure – il capo e il guerrigliero – che, per le loro attitudini, sarebbero in grado di orientare le masse.

I capi sono «quelle persone che, attraverso una lunga esperienza, maturata anche attraverso corsi di studio, hanno acquisito e perfezionato nozioni ed affinato intuizioni che possono senz’altro farli considerare dei veri e propri tecnici della folla[13]». Nei loro confronti i testi per la formazione del personale mettono in atto un processo di criminalizzazione istituendo un nesso tra razionalità e natura deviante. Secondo i manuali il «criminale» è logicamente portato a rivestire il ruolo di leader in quanto è un individuo che già «ha superato il confine che divide il lecito dall’illecito, e trova proprio nelle occasioni di tumulto la possibilità di dare sfogo all’odio contro i suoi eterni antagonisti: i tutori dell’ordine costituito». Inoltre «ha spesso l’esperienza del capo, avendo diretto l’azione di bande»; per questa ragione, «in caso di tumulto […] spera di poterne trovare vantaggio partecipando a probabili saccheggi[14]».

Non diversamente, i guerriglieri si ritengono autorizzati «moralmente a: espropriare, come forma presunta e anticipata di difesa del bene comune (anche se di altri!); creare e alimentare il disordine sociale; danneggiare ovvero distruggere; pretendere la solidarietà per la propria causa, giudicata come l’unica meritevole di attenzione e sacrifici [15]», alimentando un conflitto che viene rappresentato come politico ma che, in realtà, è soltanto «espressione di devianza[16]».

Anche questi discorsi, al pari di quelli analizzati in precedenza, non caratterizzano soltanto i manuali, ma sono presenti anche in altri contesti e ambienti, e in particolare nel campo giornalistico. A riguardo, un articolo pubblicato da Repubblica a ridosso degli scontri del 15 Ottobre del 2011 – firmato da Carlo Bonini e Giuliano Foschini– è emblematico di una lettura iper-criminalizzante delle folle.
I manuali di polizia, in sostanza, nel connotare le masse mettono in campo due strategie gemelle, la de-razionalizzazione e la criminalizzazione, entrambe volte a svuotare il comportamento dei manifestanti di un contenuto genuinamente politico. Come evidenziato in altri contributi, la de-politicizzazione delle folle è funzionale alla delegittimazione del dissenso. Inoltre, favorisce la diffusione di una visione patologica della contestazione sociale: il conflitto, quando supera una certa soglia e viene letto come una minaccia per l’ordine pubblico, è ridotto a cause strumentali o emotive e mai a ragioni veramente politiche.

La polizia, dunque, manifesta nei confronti delle folle un atteggiamento improntato al controllo e alla diffidenza ma, al contempo, segnato dal timore e dalla repulsione. Le masse, in quanto polimorfiche e difficili da “gestire”, assumono agli occhi delle istituzioni poliziesche tratti quasi “mostruosi”. Il che non è affatto sorprendente. Il mostro infatti – come sostenuto efficacemente da Mark Neocleous in Il mostro e la morte. Funzione politica della mostruosità (DeriveApprodi, 2008) – è una figura «fondamentale per la costruzione politica della paura e dell’insicurezza, due dei meccanismi basilari per la costituzione e il mantenimento dell’ordine all’interno della società borghese» (p. 13). Le masse proletarie, del resto, fin dal loro emergere sulla scena della politica, hanno rappresentato un “oggetto” spaventoso e a tratti incomprensibile e, parallelamente, hanno costituito una risorsa strategica per governare attraverso la paura. La figura mostruosa forse più adatta a dare conto della lettura delle folle che, nel corso del tempo, è stata data dalle istituzioni – e dunque anche dai manuali di polizia qui analizzati – è quella dell’Idra: l’essere capace di rigenerare le teste che volta a volta gli vengono amputate. Come evidenziato da Peter Linebaugh e Markus Rediker in I ribelli dell’Atlantico. Storia perduta di un’utopia libertaria (Feltrinelli, 2004), l’“Idra dalle molte teste”, sin dall’espansione coloniale inglese dei primi del seicento e poi dall’industrializzazione metropolitana di inizio ottocento, è «il simbolo antitetico idoneo a rappresentare il disordine e la resistenza, una potente minaccia all’edificazione dell’impero, dello stato e del capitalismo» (pp. 10-11).

In passato, accomunati dal rappresentare un ostacolo all’imposizione dell’ordine sulla forza lavoro, erano commoners, marinai, servi, schiavi, eretici e altri gruppi sociali ad assumere, agli occhi della corona inglese e delle élite economiche, le vesti del mostro. Oggi, sono studenti, lavoratori, avvocati, immigrati e attivisti politici (no global, no border, no tav) a essere etichettati come sovversivi e facinorosi e a costituire, dal punto di vista della polizia, le diverse teste di un’unica creatura mostruosa.

 

Note
[1] A. Girella e F. Girella, L’ordine pubblico di polizia, Laurus Robuffo, 2008.
[2] A. Gianni, L’ordine pubblico di polizia. Orientamento alla gestione dell’ordine pubblico ed ai relativi servizi di polizia, Laurus Robuffo, 2000, p. 52.
[3] Girella e Girella 2000, p. 120.
[4] Gianni 2000, p. 52.
[5] Girella e Girella 2008, p. 45.
[6] Girella e Girella 2008, p. 45.
[7] Gianni 2000, p. 49.
[8] F. D’Ambrosi e Francesco Barresi, Folla, Follia, Tumulti. Psicodinamica dell’individuo nella massa, Iris4, 2004, p. 115.
[9] Girella e Girella 2008, p. 65.
[10] F. D’Ambrosi e A. Adornato, L’uso legittimo degli strumenti di coazione fisica nei servizi a tutela dell’ordine pubblico, Edizioni Italia Press, 2006, p. 54.
[11] Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale per gli affari generali della polizia di stato (a cura di Valerio Donnini), Concetti tecnico-tattici di impiego delle Unità Organiche a vario livello nei servizi di Op, Roma, 2001, p. 30.
[12] Gianni 2000, p. 47.
[13] Gianni 2000, p. 41.
[14] Girella e Girella 2000, p. 43.
[15] Girella e Girella 2000, p. 62.
[16] Girella e Girella 2000, p. 63.

 

Enrico Gargiulo