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Aree riservate del regime di tortura del 41 bis: Effetto Lucifero

 

FONTE:www.carmelomusumeci.com

 

Il carcere non è un luogo, ma un buco nero che ti mangia l’anima, il cuore e a volte anche l’amore che abbiamo dentro. (Dialogo tratto dal libro “La Belva della cella 154” di Carmelo Musumeci, distribuito da Amazon)

 

L’articolo di Damiano Aliprandi, pubblicato dal quotidiano “Il Dubbio” il 24 gennaio 2018, sulle “aree riservate”, dove vengono ulteriormente isolati i detenuti già sottoposti al regime di tortura del 41 bis, mi ha fatto pensare all’esperimento svolto nel 1971 in un’università statunitense, diretto dal professore Philip Zimbardo.

Per quell’esperienza furono scelti ventiquattro studenti maschi, che dovevano partecipare ad una simulazione di vita carceraria. Alcuni presero i ruoli di prigionieri, altri di guardie. I risultati di questo esperimento ebbero dei risvolti così drammatici da indurre ben presto gli autori dello studio a sospenderlo, perché sia le guardie che i prigionieri si erano identificati in maniera forte e ossessiva al proprio ruolo. Un po’ com’è accaduto realmente nella prigione di Abu Ghraib in Iraq, quando i “buoni” soldati americani, in nome della lotta al terrorismo e contro il male, iniziarono a torturare i cattivi prigionieri iracheni.

La lettura dell’articolo di Aliprandi mi ha ricordato anche quanto è capitato a me.

 

 

Era l’anno 1992. Ero appena stato sottoposto al regime di tortura del 41 bis, nel carcere di Pisa, subito dopo fui trasferito nel carcere di Cuneo e dopo alcuni giorni deportato all’isola dell’Asinara, nella famigerata sezione “Fornelli”. Appena scesi dall’elicottero vidi un centinaio di guardie, in tuta mimetica, che circondarono me e altri prigionieri già atterrati in un campo. Subito si scatenò la loro furia. E la paura dei detenuti. Molti furono immediatamente inghiottiti dalla marea di guardie che avanzava implacabile. Io e altri detenuti tentammo di metterci con le spalle al muro. Fu un grande errore, perché le guardie pensarono che volessimo resistere. E si accanirono ancora di più contro di noi. Mentre cercavo in tutti i modi di ripararmi dalle botte, vidi con la coda dell’occhio un compagno accanto a me prendere una manganellata sui denti e crollare faccia a terra davanti ai miei piedi. Mi sforzai di rimanere calmo, ma non era per niente facile. Strinsi i denti per farmi coraggio. Sentii il sudore calarmi sulla schiena. Subito dopo le manganellate mi arrivarono da tutte le parti. Mi mancava il respiro. Caddi molte volte per terra. Ogni volta che mi rimettevo in piedi, prendevo sempre più colpi. Decisi di rinunciare a rialzarmi. E mi rannicchiai per terra proteggendomi la testa con le braccia, ma i colpi di manganello mi arrivarono lo stesso da ogni lato. Il sangue mi colava dalla bocca. E ne avvertivo il sapore aspro. All’improvviso mi arrivò un calcione in un orecchio. E vidi le stelle a portata di mano. Mi toccai i capelli imbrattati di sangue. E per la prima volta nella vita ebbi paura di morire. Poi uno strano silenzio mi piombò in testa. Sentii le forze abbandonarmi. E dopo non vidi più nulla. Come se all’improvviso fosse calata la notte. Caddi in un vortice nero. Mi sembrò di scendere nelle viscere dell’inferno. E non capii più se ero vivo o morto. Mi sembrò di sognare che mi trascinavano per un lungo corridoio, per poi gettarmi come un sacco di patate. L’indomani mi svegliai dentro una lurida cella con una minuscola finestra in alto. E un grosso blindato dall’altro lato. La cella era buia, angusta e umida. Sul soffitto c’era una piccola lampadina rotta, incastonata in una minuscola grata. E non c’era nessun tipo di arredamento. La chiamavano la cella liscia. Sembrava una piccola tomba. Mi tennero senza curarmi per mesi e mesi, sempre in quella cella di punizione. I giorni e le notti non ebbero più confini per me. Le guardie mi ingiuriavano e mi maltrattavano tutti i giorni. In seguito, un giorno sì e uno no. Io non gridavo. Non mi lamentavo. Non urlavo, tanto nessuno mi avrebbe ascoltato.

Riuscii, però, a trovare una grande pace interiore, perché pensavo che i miei carcerieri non erano migliori di me e sperai di non diventare mai così cattivo come i buoni quando sono convinti di lottare contro il male.

 

Carmelo Musumeci