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LA CITTÀ DI ROMA DOVREBBE CHIEDERE SCUSA ALLA FAMIGLIA ALDROVANDI

 

FONTE:Sport People

 

È triste trovarsi a commentare Roma-Spal, un anno dopo, e dover usare lo stesso filo conduttore. È avvilente e pompa rabbia nelle vene sapere che il volto di un ragazzo morto ammazzato non solo continua a essere indesiderato, ma per qualcuno rappresenta un vero e proprio spauracchio da eliminare. Magari con il vano intento di cancellarne il significato. Un obiettivo vano, per l’appunto. Federico Aldrovandi rappresenta, per la mia generazione e quelle successive, uno dei simboli latenti dell’ingiustizia che viene dall’alto. Quella che non solo ti uccide a calci e pugni, ma poi vuole anche avere ragione continuando a insultarti, provocarti e vietarti ogni civile espressione di ricordo e commemorazione.

È triste avere negli occhi lo sguardo affranto di papà Lino. Leggere i suoi post, vedere le sue foto. Un comportamento sempre austero, mai eccessivo. Un papà che parla del proprio figlio e lo rivede sventolare domenica dopo domenica su un pezzo di stoffa agitato nella Curva Ovest. Il cuore del tifo della Ferrara calcistica. Quella Ferrara così ordinata, signorile ed educata. Ma anche così ostinata nel non voler lasciar svanire il ricordo di uno dei suoi figli tolti da questo mondo senza nessun motivo.

Roma come Genova. Chissà perché. Chissà con quale intima cattiveria si decida che no, quella faccia non deve proprio entrare. Senza una ragione valida, pare ovvio. Esattamente come quella notte del 25 settembre di tredici anni fa: senza nessun motivo si cancellò una vita umana. Giusto per divertirsi, per ammazzare la calura emiliana che nelle notti di settembre spesso ancora entra nelle case e nelle macchine appiccicandosi alla pelle.

Come facciamo a dire ai nostri figli che le istituzioni e le forze dell’ordine sono entità da rispettare perché a nostro servizio, se poi per accedere in un luogo pubblico rischio di rimanere svestito e mi viene negato di far entrare una pacifica bandiera commemorativa? Eh sì, perché la Questura di Roma si è spinta oltre quest’anno. Ha fatto le cose in grande. Ha obbligato buona parte dei ragazzi a togliersi le maglie che riportavano scritte per i diffidati o, per l’appunto, in memoria di Federico Aldrovandi. Un po’ di clemenza invece con le ragazze: loro hanno potuto “soltanto” capovolgerla!

La “paura cieca” che qualcuno ostentasse il ricordo si è ovviamente propagata anche in Sud, dove a distanza di diverso tempo i controlli sono tornati a essere serrati: perquisizioni minuziose e scarpe tolte. Hai visto mai che qualcuno tenesse, tra il calzino e l’alluce, uno striscione per Stefano Cucchi (perché diciamocelo, ieri qualcuno aveva paura anche di questo!).

In questi anni ho usato la parola “vergogna” in tante occasioni. Confrontandomi con situazioni paradossali, abusi lapalissiani nella gestione dell’ordine pubblico e, nella fattispecie romana, creazione di un vero e proprio sistema iper repressivo per l’afflusso, lo stazionamento e il deflusso degli spettatori allo stadio Olimpico. Contestualmente ho visto la mia città cambiare. In peggio. Militarizzarsi in ogni suo centimetro, con l’obiettivo di allontanare molti romani dal cuore della propria Urbe. Ho percepito – e percepisco tutt’oggi – quel clima ostile verso chi si pone delle domande e non si allinea a questa ricerca forsennata e perversa della sicurezza. Anche laddove ciò significa ghettizzazione, repressione e azzeramento dei più basilari diritti civili.

Ieri sera ho letto un commento su Facebook. Diceva: “Chi deve assicurarci giustizia ci uccide i figli, e poi non ci permette neanche di ricordarli”. Non do quasi mai credito ai commenti sui social, ma questo mi è rimasto impresso. Mi ha fatto un effetto particolare. Togliendomi quasi ogni parola e ogni ulteriore riflessione.

Perché questo è ciò che succede. Lo stiamo vedendo con il caso Cucchi. Sono giorni in cui la verità è messa nero su bianco. Giorni in cui un Paese civile si assumerebbe le proprie colpe e proverebbe a cambiare qualcosa nel suo sistema. E invece no. Tra un perdono chiesto a denti stretti e con malavoglia e un volo pindarico di qualche simpatico ministro della Repubblica, ci sono quelli che si affrettano a giustificare l’ingiustificabile. A dire che Cucchi era un “venditore di morte” o a fare la corsa sulla sorella, “l’avvoltoio” pronto a sfruttare la morte del fratello.

Non ci pensate mai che state facendo il gioco di chi l’ha ucciso? Il gioco dei Giovanardi o dei Salvini. Sì, proprio quelli. Costoro, per anni e ancora oggi hanno asserito di difendere sempre e comunque le forze dell’ordine. Concetto già di sé fallace per uno che è Ministro dell’Interno e, dunque, dovrebbe augurarsi che il proprio dicastero funzioni bene, con personaggi capaci di lavorare. E non di utilizzare i propri strumenti per compiere “macellerie messicane” (ve la ricordate questa citazione, vero?).

Oh mi raccomando, leggete bene e fate una bella analisi logica se vi serve. Non è una presa di posizione politica. Io detesto la politica. La ritengo la madre di tutte queste ingiustizie. Perché è in primis lei a foraggiarle, difenderle e infangarle quando servono. Quindi per il sottoscritto un Salvini vale un Minniti. È l’esaltazione dell’uno o dell’altro anche in ambienti che quotidianamente subiscono l’onda repressiva a preoccuparmi.

Dunque ieri i ragazzi della Ovest hanno riposto pezze e bandiere, riprendendo la via di casa. Dopo aver provato a interloquire con chi stava compiendo un palese e inutile atto di forza. Se ne sono tornati a Ferrara perché sì, la dignità vale più di ogni partita di calcio. Anche di quella che la Spal rivincerà dopo 65 anni all’Olimpico. La loro festa era stata già ampiamente rovinata. Per l’ennesima volta si è evidenziata l’esistenza di due mondi paralleli: quello di chi fa ordine pubblico e quello di chi lo subisce passivamente e spesso con gravi conseguenze non suffragate da fatti o reati.

Nel primo mondo esistono telecamere da puntare in faccia anche durante una disquisizione civile e minacce di Daspo e denunce. Per una bandiera. Per una maglia. Per la faccia di Federico Aldrovandi. Questo articolo sarà soltanto l’ennesimo ad entrare nel calderone delle “parole inutili”. Non ci illudiamo. Lo furono le decine di pezzi usciti lo scorso anno dopo gli analoghi fatti, lo saranno anche quelli pubblicati in questi giorni.

Il delirio di onnipotenza, la presunzione e l’insensibilità di certi ambienti, a cui basta la divisa per tutelare ogni gesto compiuto, non sono purtroppo mutabili. E se l’Italia continua a essere un laboratorio sociale all’interno degli stadi, Roma si erge – senza alcuna vergogna – a paladina di tutto ciò. Io che sono fiero di esser nato qui desidererei una città capace di chiedere scusa alla famiglia Aldrovandi, capace di dimostrare un minimo di umanità e condannare simili, vigliacchi, gesti.

Ma non accadrà. Allora invito i tifosi della Spal a non venire più qua. A lasciar vuoto il settore ospiti nelle prossime gare con Roma e Lazio. Mentre ai solerti “capoccioni” autori di questa ennesima vergogna – che oggi sicuramente se la rideranno di gran lunga nel leggere commenti e articoli di sdegno per le loro scelte barbare – dico che vietare il volto di Federico non fa sì che il suo ricordo venga eliminato. Anzi. Federico vive e resta sempre più su questa terra. Come simbolo delle vostre negligenze e dell’infame devastazione di una famiglia per bene.

Vergognatevi!

 

TITOLO CORRETTO

 

24/10/2018
Il giorno successivo a Roma-Spal ho scritto, quasi di getto, un articolo sul divieto di ingresso ad alcune pezze, maglie e bandiere raffiguranti il volto di Aldrovandi (ma non solo) comminato ai tifosi estensi agli ingressi dello stadio. Il pezzo si intitolava: “La città di Roma dovrebbe chiedere scusa alla famiglia Aldrovandi”.

Mai avrei immaginato che pur in un’occasione così delicata, pur trattando una tematica così importante e profonda, più di qualcuno si fermasse a leggere il titolo traendone una propria, personale ed errata, deduzione secondo cui lo stesso era riferito indiscriminatamente a tutti i cittadini e tifosi romani.

Se quasi mai do peso ai commenti sui social e alle sterili lamentele, stavolta mi sento in dovere di rispondere alle tante reazioni fuori luogo fioccate qua e là dove il pezzo è stato condiviso. Con “Città di Roma” ovviamente non intendevo né i cittadini né i tifosi. Sarebbe bastato leggere tutto l’articolo per capirlo, ma comprendendo la difficoltà insormontabile che ciò rappresenta per taluni, mi trovo costretto a ribadirlo.

Credo fermamente nell’intelligenza di tutti, per questo vi chiedo: perché giudicate, commentate e insultate senza rendervi conto di quello che avete sotto gli occhi? Questo è l’effetto sortito dagli ultimi anni di informatizzazione delle masse? O andate semplicemente troppo di fretta per aprire un link e perderci due minuti del vostro tempo? Perché se così fosse – e può essere legittimo – vi invitò allora a tacere. Non si giudica ciò che non si conosce o non si è approfondito.

Cosa vi spinge ad attaccarvi a un titolo quando il contenuto approfondisce un qualcosa che dovrebbe interessarvi e che va ben al di là di una difesa d’ufficio del proprio campanile?

Già, il campanile. Mi fa piacere che molti miei concittadini – evidentemente poco avvezzi all’interpretazione dei testi – si siano sperticati le dita per commentare idiozie e difendere a spada tratta la gente… che io stesso ho elogiato in quel pezzo! Fa ridere, se non facesse piangere.

Mi avete dato dell’analfabeta. Avete scritto che per quel titolo sono “anti-romano” (vi giuro, l’ho letto), che sono un imbecille, un prezzolato, un incapace e una serie di amenità che neanche un bambino alle prime lezioni di italiano avrebbe partorito.

Ve lo ribadisco: la città di Roma deve chiedere scusa alla famiglia Aldrovandi. La città delle istituzioni, della politica, della forza pubblica. Comprendete ora, vero? Quando si parla di città in questi termini, non si cita Mario Rossi o Carlo Bianchi, ma entità con potere decisionale e strutturale.

Fortunatamente in molti non hanno invece avuto dubbi, tanto che l’articolo ha fatto migliaia di visite venendo condiviso in tutta Italia. Evidentemente per loro non è stato difficile fare un clic in più e posare il proprio sguardo su frasi e elaborare paragrafi. Ma forse neanche se lo sono posto il problema, perché hanno decifrato il titolo immediatamente. O forse, semplicemente, perché sono abituati a leggere anziché “nutrirsi” di condivisioni, copia e incolla e frasi ad effetto da mostrare su una bacheca Facebook.

In quest’era di povertà culturale e sintattica – mi si perdoni la presunzione – non sta a me adeguarmi alla mediocrità del lettore. Perché il giorno che qualcuno di noi sposerà tale filosofia vorrà dire che ci staremo consegnando giocoforza all’ignoranza e alla facile manipolazione attraverso una semplice riga introduttiva.

Nella rabbia iniziale avevo promesso di lasciar vuoto il prossimo articolo scrivendo un titolo ad effetto. Per far contenti i tanti “distratti” che invece di ragionare sulla vergogna dell’Olimpico si sono soffermati alle apparenze (alle loro apparenze, ovviamente!). Alla fine non ci sono riuscito, quindi vi ho messo un titolo corretto. Sono certo che non farete fatica a comprenderne il significato. Almeno spero.

Per sempre Federico!

 

Simone Meloni