NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

LA GENESI DELLA REPRESSIONE

NOI DA NOVE ANNI CONOSCIAMO LA VERITA'!

laboratoridirepressione

SPEZIALELIBERO

DAVIDE LIBERO











Roma-Feyenoord: stadio all’italiana, gestito purtroppo da italiani

 

FONTE:Sport People

 

Per parlare di questa partita occorre suddividere il racconto in due parti distinte. E ugualmente importanti. Perché se da una parte c’è l’Olimpico versione europea, quello delle grandi serate, del pathos, della sofferenza e delle esplosioni di giubilo per una rimonta storica, dall’altra c’è l’ampio retroterra gestionale. Che come al solito ha lasciato cadere la maschera di tutto l’apparato negligente, lo stesso che vorrebbe organizzare un Campionato Europeo ma non sa far giocare a porte aperte neanche Flamignano-Monterotondo di Prima Categoria Laziale.

Partiamo da principio: nel 2015 la Roma pesca gli olandesi agli ottavi di Europa League. Nella gara di andata fa scalpore il comportamento dei supporter tulipani che, stipati a Piazza di Spagna, danneggiano la Fontana della Barcaccia. Comportamento deprecabile, sia chiaro. Ma per il quale – in pieno stile italico – nessuno chiede conto a chi ha organizzato la loro gestione. Nessuno si pone il dubbio di come sia possibile ammassare così tanta gente in uno spazio così piccolo e delicato, già di suo preso quotidianamente d’assalto dai turisti. Nessuno chiede perché non si sia organizzata una fan zone in grado di contenere i tifosi, magari nella più spaziosa Villa Borghese, dove solitamente vengono fatti stazionare gli ospiti europei. Il copione lo conosciamo già: colpa dei violenti, dei barbari, degli incivili e del fato che ha assegnato alla Roma una squadra olandese anziché una più tranquilla compagine andorrana (sic!). Di fatto, però, tra le due tifoserie non avviene nulla. Nessun contatto. Né dentro, né fuori lo stadio. Così come anche la gara disputata al ritorno al De Kuip fila liscia, con ambo le tifoserie presenti e la Roma che, vincendo 1-2, strappa il pass per gli ottavi.

Si arriva alla stagione 2021/2022. Le due squadre vanno avanti nei rispettivi cammini europei, trovandosi di fronte nella finale di Conference League, in quel di Tirana. In Albania giungono migliaia di supporter, che convogliano nelle rispettive fan zone adibite appositamente dalla Uefa e dalle autorità albanesi. Anche in questa occasione – salvo alcune turbolenze tra romanisti e polizia locale – non si registra nessun problema né dentro e né fuori lo stadio fra le due parti. Persino nella tanto vituperata Albania l’ordine pubblico viene mantenuto tutto sommato decentemente, non ricorrendo a nessun divieto e restituendo agli occhi dell’Europa una bella finale, con uno stadio caldo e la Roma che dopo quindici anni torna a rimettere un trofeo in bacheca.

Quindi, riepilogo finale: tre precedenti tra Roma e Feyenoord, un atto di deprecabile vandalismo da parte olandese sul quale però le autorità italiane hanno pesanti responsabilità e nessun espisodio di violenza registrato. Nessuno, neanche il lancio di una nocciolina.

Stagione 2022/2023. Il Prefetto di Napoli vieta la vendita dei biglietti ai tifosi dell’Eintracht Francoforte per la gara di ritorno degli Ottavi di Champions. A pochi giorni dalla stessa. Dopo che i napoletani – legittimamente – hanno presenziato in terra tedesca. E dopo che migliaia di supporter francofortesi hanno acquistato voli, pullman, treni e pagato alberghi. Un pool di avvocati impugna questa decisione e il TAR Campania la sospende, il Prefetto tuttavia emette un altro provvedimento restrittivo, con cui si vieta la vendita dei biglietti alle persone residenti a Francoforte. Pensando di aver a che fare con la classica partita di Serie D, non si tiene conto di quanto il movimento ultras e le società teutonica abbiano a cuore un certo modo di andare allo stadio e, il risultato, è ormai noto a tutti: centianaia di Frankfurter arrivati a Napoli, nessun piano organizzativo per accoglierli e gestirli (come sarebbe stato senza un divieto) e caos per le vie del centro storico. Con figura barbina in mondovisione delle nostre istituzioni, rimproveri da parte della Uefa e bacchettate da parte dell’Eintracht. Ma ai nostri sceriffi non interessa, meglio non lavorare per dire di aver lavorato bene.

Si arriva così al sorteggio dei Quarti di Finale dell’Europa League. Gli uomini di Mourinho affronteranno di nuovo il Feyenoord. Il sindaco della Capitale, Roberto Gualtieri, non fa neanche in tempo ad aver visto la pallina del sorteggio aperta che già chiede al Ministro dell’Interno, Piantedosi (che da Prefetto di Roma, qualche mese prima, aveva già vietato la presenza ai tifosi di Rotterdam per la sfida contro la Lazio, cosa ovviamente non avvenuta al ritorno per i laziali), il divieto di trasferta. Motivazione ufficiale? Proprio in quei giorni a Roma saranno presenti gli ispettori BIE (Bureau International des Expositions) per capire se l’Urbe è in grado di ospitare l’Expo del 2030. Praticamente si tratta di una chiara ammissione di incapacità nel gestire molteplici eventi contemporanei nella città più grande del Paese, ma grazie a un certosino lavoro di terrorismo psicologico condotto da una parte della stampa e dal fronte unitario istituzionale, viene fatta passare come l’unica precauzione per sventare eventuali tumulti (che va ricordato, nei tre precedenti non si sono mai verificati). L’Italia sceglie, come ormai di consueto, di vietare anziché gestire. E lo fa alla luce del sole, vantandosene quasi. Lagnandosi del fatto che le sue bellezze artistiche sono in pericolo (come se gli altri Paesi fossero fatti di polistirolo e quindi potessero permettersi anche di subire danni gratuiti) e che un altro Sacco in stile Lanzichenecchi non sarebbe tollerabile.

La Massaia di Voghera abbocca, la Uefa non proferisce parola e alla fine il divieto è cosa fatta. Producendo peraltro un effetto domino che finisce per danneggiare anche gli stessi tifosi romanisti, ai quali in virtù di una sedicente e ridicola “reciprocità” viene vietato l’ingresso al De Kuip. Altri soldi buttati, anche a causa delle vergognose tempistiche (il divieto agli italiani viene infatti annunciato solo una settimana prima della partita in terra olandese) e altra benzina gettata sul fuoco del sensazionalismo forcaiolo, perorato e foraggiato da chi dovrebbe semplicemente occuparsi di permettere lo svolgimento di un evento con tutte le sue componenti e da chi dovrebbe, mezzo stampa, provare a fare qualche domanda scomoda, magari criticamente costruttiva.

Memori della recente esperienza con i tifosi dell’Eintracht, nei giorni precedenti al match e in quello del suo svolgimento, Roma viene cinta d’assedio dalla polizia (altra tipicità italiana: chiudere il recinto quando i buoi sono fuggiti). In cerca di una tifoseria che ovviamente non arriverà mai (sarebbe bastato conoscere un po’ la storia del tifo tedesco – molto più articolata e aderente a quella italiana – e quella del tifo olandese, perlopiù basata sullo sponteneismo e l’hooliganesimo, dove difficilmente si intraprende una decisione così forte e ribelle, che per forza di cose richiede un’idea e un’unità d’intenti nel suo retroterra), allertati da qualche simpatico post Instagram che ritrae quei pochi olandesi giunti a Roma ironizzare sui fatti delle Barcaccia di otto anni prima. Denaro pubblico gettato alle ortiche per gestire il nulla, quando sarebbe stato sufficiente approntare un normalissimo servizio d’ordine, convogliare neanche tremila tifosi del Feyenoord che sarebbero giunti a Roma in un luogo consono – da Villa Borghese a Tor di Quinto, per fare due esempi – e trasportarli allo stadio in prossimità del match. Come si fa ovunque. Come fanno tutti i Paesi civili e sviluppati. E non quelli in mano agli sceriffi e agli sbalzi d’umore della stampa giustizialista.

Resta l’interrogativo sul perché un Paese che non è in grado di organizzare partite di hockey su pista con entrambe le tifoserie, che ogni settimana vieta decine di trasferte, costringe club a giocare a porte chiuse e da qualche tempo – provando anche a contravvenire a determinate disposizioni sulla libera circolazione all’interno del territorio dell’Unione – si permette anche di vietare ai tifosi stranieri di mettere piede nei nostri impianti sportivi, debba organizzare un evento così importante e prestigioso come un Campionato Europeo? Con quale diritto un Paese che discrimina i propri cittadini ogni fine settimana, vendendo i biglietti in base alla loro provenienza geografica o al possesso di una tessera, dovrebbe essere premiato con una simile kermesse? E se capitasse un Serbia-Albania a cosa si ricorrerebbe? All’Osservatorio o al Casms? Oppure si limiterebbe la vendita dei tagliandi ai soli serbi e albanesi residenti all’estero? E con gli inglesi come la metteremmo? Divieto di assistere alle manifestazioni sportive per chiunque abbia votato a favore della Brexit?

Tutto sommato non è così peregrino dire che come sistema Paese, su queste tematiche, siamo ridicoli. E che non solo facciamo finta di niente, ma ci diamo delle gran pacche sulle spalle, da soli, per auto complimentarci e crederci migliori degli altri. Il caso Roma-Feyenoord, in fondo, non è né il primo nell’ultimo di questa lunga serie di scelte al di fuori di ogni logica, che finché non verrano contrastate e impugnate da un organo supremo, da una federazione internazionale, potranno continuare a danneggiare tifosi e società. L’unica speranza sarebbe che qualcuno cominciasse ad aprire il proprio pensiero ed uscisse dal vortice dell’autodenuncia, della richiesta di divieto come panacea di tutti i mali e che, di contro, si capisse che questa lotta fra poveri fa comodo solo a chi preferisce non prendere le proprie responsabilità e garantire l’efficienza del Paese, anche attraverso la gestione normale e non isterica di un evento pubblico. Anche se delicato. Anche se potenzialmente pericoloso. Altrimenti si chiuda tutto e si abbia più dignità nel dichiararsi impreparati e incapaci.

L’altro “versante” di quesa giornata è senza dubbio quello più vero e passionale. Ed è quello che riguarda lo stadio e la sua componente umana. Atteso che una sfida senza la tifoseria ospite resta un qualcosa di monco, uno spettacolo in cui manca uno degli attori fondamentali. Nel bene e nel male. L’Olimpico di questo Quarto di Finale forse non è stato costante nel tifo come con il Bodo, la scorsa stagione, ma è stato il fedele specchio della maniera irrazionale di intendere il calcio da parte della sua gente. E mi permetto di dire, anche da parte della maggior parte dei frequentatori degli stadi in Italia. Sì, perché oggettivamente noi non siamo mai stati quelli del tifo robotico per novanta minuti. Non siamo mai stati quelli che pure se la squadra soffre, se è ad un passo da un traguardo storico ma viene raggiunta a pochi minuti dal termine, continuano ugualmente a essere granitici nei battimani, nei cori e in una laboriosità meccanica che non ci appartiene. Noi siamo quelli che quando la squadra avanza e rischia di segnare, abbassiamo sensibilmente i decibel. Magari ci “spegniamo” anche per un attimo. Presi dal pathos. E mica perché “non siamo più quelli di una volta” (questo è un concetto vero per altre dinamiche), ma perché alla base di tutti, pure del curvaiolo più militante e quadrato, in genere c’è la passione per la propria squadra. Credo possa esistere tifoso acceso ma non ultras, ma ritengo sia difficile esser ultras ma non tifosi.

Ciò detto parliamo innanzitutto di uno stadio che a livello cromatico quest’oggi ha accolto le squadre in maniera a dir poco impressionante. La coreografia che non si può mai sbagliare: bandiere, sciarpe, torce e fumogeni. Le basi del mondo ultras italiano e della sua parte folkloristica. Una densità di fumi e colori che ormai raramente si osservano nelle grandi piazze e che sono davvero una boccata di ossigeno. E poi c’è ovviamente il tifo. Che è difficile da descrivere questa sera: la Sud fa sempre storia a sé e cerca di riaccendere uno stadio impietrito dopo il pareggio del Feyenoord, al minuto 80′. Un 1-1 che ravviva vecchi fantasmi e fa credere ai presenti nell’ennesima serata da “Che sarà sarà”. Ci pensa Dybala allo scadere a portare per mano i suoi ai tempi supplementari, dove El Shaarawy e Pellegrini calano il poker annichilendo l’avversario e regalandosi la terza semifinale europea in tre anni.

Ma se, come detto, la Sud fa storia a sé, oggi una menzione va fatta anche per la Nord, che in taluni casi dapprima rilancia i cori iniziati dal cuore pulsante del tifo giallorosso, in altri riesce a scuotere anche i settori vicini. In Tevere molti seguono la partita in piedi, sventolando e accendendo fumogeni ai gol. Mentre all’inizio del primo tempo supplementare, tutto lo stadio si esibisce nella sciarpata sulle note di “Roma, Roma, Roma”. Quasi a voler dire: “Si ricomincia, giochiamo un’altra partita. E la giochiamo insieme!”. Ci sono modi e modi di vivere lo stadio, ogni posto ha una sua caratteristica e un suo approccio. L’Olimpico è stato a tutti gli effetti uno stadio all’italiana. Uno stadio con un’anima a cui siamo stati abituati sin da bambini e che oggi, a causa dell’annacquamento coatto delle passioni e dei tanti paletti posti per frequentare serenamente le gradinate, siamo sempre meno frequenti vedere e percepire.

Di certo sembra che chi gremisce costantemente l’Olimpico, restituendo ormai quasi sempre il pienone, non sia propriamente ciò che si chiama “occasionale”. Il pubblico può essere più “molle” in campionato, dove ci sarebbe tutto un discorso complessivo da fare, tra gare calcisticamente inguardabili, posta in palio inferiore, motivazioni non propriamente eccelse e abitudine a un torneo che ormai troppo spesso non offre un grande confronto con le tifoserie avversarie. Direte: il tifo va fatto sempre al massimo. Già, ma dove finiscono i limiti della tifoseria organizzata nello sfruttare il grande bacino a disposizione (limiti che sicuramente a Roma esistono, ma i panni sporchi si lavano in casa) comincia una generale “depressione”, che alberga nella quasi totalità degli stadi italiani di Serie A. I circa settantamila di oggi hanno fatto il loro compito, hanno partecipato emotivamente. Pure quando sono stati in silenzio, in preda a una delusione che sembrava ormai inesorabile. La gente non ha “partecipato a un evento”, ma lo ha vissuto come una liturgia. Con religiosa devozione. Poi si può disquisire a lungo sul gioco di luci iniziale, sulle urla gallinacee dello speaker, sulle musichette tamarre e su tante altre cose ormai imposte dal calcio contemporaneo e che di certo non approvo né tollero io in prima persona. Ma penso che mettere in dubbio la passione di questa piazza sia pura malafede.

Certo, ripeto: uno stadio in parte monco. Non sentire neanche un’esultanza al pareggio olandese è stato strano. Triste. Perché paradossalmente il bello del calcio è anche il grido di gioia, beffardo e malefico, del tifoso avversario. Così come, al contrario, quando tutto lo stadio saltava e cantava “La Roma sì, il Feye no” a pochi istanti dal termine, sarebbe stato bello assistere alla masnada di supporter tulipani scherniti e magari rabbiosi. Ma l’idiozia mista a incapacità delle nostre istituzioni, come ampiamente approfondito, hanno ritenuto impossibile tutto ciò.

Uno stadio all’italiana quindi. Gestito purtroppo da italiani. All’uscita l’euforia investe strade e persone, con la fibrillazione di sapere quando usciranno i biglietti per l’imminente semifinale contro il Bayer Leverkusen e la speranza, malcelata, di riportare nuovamente i colori giallo ocra e rosso pompeiano all’atto finale di una competizione continentale. Se c’è una cosa che Roma sembra essersi scrollata di dosso è la paura di perdere, che poi viaggia di pari passo con l’impossibilità di vincere. Se De Coubertin era il primo degli sconfitti (l’importante non potrà mai essere partecipare) è altrettanto vero che stabilizzarsi a certi livelli forgia la mentalità e cambia l’approccio mentale. Per una piazza di certo non abituata a questi livelli, si tratta di uno scalino importante. Che ne ha davanti ulteriori da salire, vero, ma che dà intanto l’opportunità al proprio popolo di sognare. E questo è alla base di qualsiasi fantasia calcistica. Iniziamo a giocare nelle strade sognando di indossare la nostra casacca del cuore. Frequentiamo le curve sognando di gettare noi il pallone in rete. Quando questi sogni vengono preclusi da campionati e stagioni asettiche e prive di prospettiva resta la fede, sì. Quella immortale. Ma che di tanto in tanto va corroborata dal riuscire a vedere oltre l’orizzonte.

 

Simone Meloni