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La storia di Vincenzo, una storia sbagliata

 

FONTE:mmasciata.it

 

«Diversi sono gli aspetti meritevoli di ulteriore approfondimento che non consentono un pacificante accoglimento della richiesta di archiviazione».
Con queste motivazioni il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Castrovillari, Letizia Benigno, ha rigettato la richiesta del Pm, disponendo la riapertura delle indagini per chiarire i dubbi che aleggiano intorno alla morte di Vincenzo Sapia.

 

Nelle parole di Fabrizio De Andrè, questa sarebbe una storia sbagliata. La storia di un ragazzo e di un cane, di psicofarmaci e violenza, di carabinieri e di paese. Una storia da dimenticare.
È il 24 maggio del 2014 a Mirto Crosia. Il piccolo paese della costa ionica cosentina è in fibrillazione da elezioni comunali, bisogna scegliere il nuovo sindaco. È sabato mattina: le massaie stanno ultimando la spesa, i ragazzi escono da scuola felici sognando il weekend. Vincenzo Sapia è un ragazzone di 29 anni e oltre 100 chili con la passione per la politica e qualche problema di salute. Sono circa le dodici, quando decide di uscire di casa. Assume i suoi farmaci quotidiani e saluta la madre, intenta a cucinare.
«Dove vai Vince’? – ci prova Isabella a fermarlo – è quasi pronto…».
«Vado a prendere un cane – risponde il ragazzo – e torno presto».
Lo sognava da tempo, lo desiderava con ardore. Probabilmente aveva bisogno di un amico al quale poter regalare tutto il suo affetto. Bacia la madre ed esce di casa. Vincenzo si incammina verso l’ufficio postale del paese che dista poche centinaia di metri. C’è un palazzo di tre piani. Lì, Vincenzo è convinto di trovare un cagnolino. Entra nel portone, sale un piano e comincia a bussare con vemenza ad una porta. La padrona di casa non apre, i vicini hanno paura e telefonano ai carabinieri. Vincenzo riscende. Attende nello spiazzo antistante l’ufficio postale e, intanto, arrivano le forze dell’ordine. Il maresciallo si è insediato da poco tempo e non sa ancora chi è Vincenzo, ma gli altri carabinieri lo conoscono bene. I precedenti non sono quelli di un ragazzo violento, ma sicuramente quelli di un ragazzo che ha qualche problema. Le strade intorno sono piene di gente, ci sono gli studenti delle scuole vicine, ma c’è anche il candidato sindaco di centrodestra, l’avvocato Antonio Russo, che conosce personalmente il ragazzo. Vincenzo milita nel suo stesso gruppo politico e bazzica spesso nella sede del partito. Russo, che da lì a qualche giorno verrà poi eletto sindaco, interviene nel cercare di calmare il ragazzo e, in un primo momento, pare ci riesca. Ma intanto sopraggiungono i rinforzi, arriva un altro uomo in divisa. Lo stato di agitazione di Vincenzo cresce velocemente. Diversi testimoni raccontato che Vincenzo si denuda, rimanendo in mutande, apparentemente senza un motivo. I carabinieri allora decidono di intervenire per bloccare il ragazzo, non è facile data la stazza. In tre si adoperarono per immobilizzarlo. Poi, un vuoto nella ricostruzione, ma un esito certo, un finale tragico: Vincenzo giace a terra morto. Sopraggiungono amici e parenti, tutti a chiedersi cosa sia successo, come sia morto il ragazzo. La madre chiede che il corpo, ormai senza vita, venga coperto con un lenzuolo. Tutti attendono risposte che, però, non arrivano. L’area viene transennata, si parla di un infarto, ma sono in molti a non accettare questa spiegazione. Arriva l’ambulanza e la polizia scientifica per i rilievi fotografici, mentre i carabinieri si allontanano e gli animi cominciano ad esasperarsi. Sono attimi concitati: il padre alza la voce, gli amici chiedono giustizia. Il corpo di Vincenzo rimane più di tre ore sull’asfalto rovente prima di essere caricato su un’ambulanza in direzione dell’obitorio.
Il giorno dopo, le elezioni del paese passano in secondo piano, i giornali titolano sullo strano caso del ragazzo di Mirto, mentre strisciano subdoli tentativi di screditarlo come persona. La procura di Castrovillari, decide di indagare i tre carabinieri intervenuti per omicidio colposo: un atto dovuto. L’indagine è complicata, anche per il silenzio piombato intorno alla vicenda. Un’indagine difficile, che ad un anno dai fatti ancora non è chiusa. Anche l’esame autoptico effettuato sul corpo del giovane non serve a dirimere i dubbi. Indiscrezioni giornalistiche, qualche mese più tardi, parlano dell’assenza di segni di violenza. Un semplice infarto e il caso, almeno per l’opinione pubblica, è chiuso. Ma ci sono troppe domande senza una risposta. La famiglia attende di sapere come è possibile che un ragazzo che non aveva mai avuto alcun problema cardiaco sia potuto morire d’infarto all’improvviso, quali siano stati i metodi di contenimento delle forze dell’ordine, perché nessuno dei testimoni abbia mai voluto parlare con i giornalisti, cosa abbiano ripreso le telecamere di sicurezza del vicino ufficio postale. Chi ha amato Vincenzo per 29 anni chiede verità e ha deciso di affidarsi all’avvocato Fabio Anselmo. Il legale, già difensore della famiglia di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi e, da qualche mese, anche di quella di Donato Bergamini, per scongiurare la possibilità di archiviazione del caso potrebbe basarsi su una circolare del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri del 30 gennaio 2014 – già usata nel processo Magherini e al centro di alcune interrogazioni parlamentari – che vieta «immobilizzazioni protratte specie se a terra in posizione prona» e descrive in maniera molto precisa i comportamenti da tenere durante gli «interventi nei confronti di persone violente in stato di alterazione psicofisica». Proprio la condizione che stava vivendo in quegli attimi Vincenzo Sapia e che – secondo la linea difensiva – avrebbe richiesto una modalità di intervento diversa da parte delle forze dell’ordine.

Dubbi numerosi, che – sempre secondo il Gip – devono essere «fugati con risposte esaustive e convincenti» nell’arco di sessanta giorni. Nello specifico, il Gip ha chiesto che si faccia chiarezza sui tempi di intervento dei militari che la mattina del 24 maggio 2014 parteciparono a Mirto Crosi, nel Cosentino, a all’operazione di contenimento di Vincenzo Sapia. Di certo c’è solo il tempo intercorso tra la chiamata alla caserma dei carabinieri e quella al 118, circa quaranta minuti, ma non si conosce con precisione quanto sia durato effettivamente l’intervento delle forze dell’ordine. Le versioni finora emerse sono contrastanti e svariano dalla “manciata di secondi” – come sostengono le difese dei carabinieri – al “brevissimo lasso di tempo” del Pm. «Concetti labili», secondo quanto scrive il Gip, che creano «un’incertezza sulla tempistica che nuoce alla comprensione delle eventuali corresponsabilità penali dei militari».Il giudice ritiene necessario capire con precisione, non solo la durata dell’intervento, ma anche e soprattutto «la durata di ogni singola azione di contenimento (strette al collo e immobilizzazione in posizione prona o supina)». Le incertezze evidenziate dal giudice, però, riguardano anche gli aspetti medico­legali. Le conclusioni del consulente medico del Pm, il dott. Caruso, che escludono completamente l’asfissia, parlando di «arresto cardiaco improvviso da alterazioni elettriche in un soggetto con situazioni patologiche pregresse», non convincono. Ci sono una serie di indizi «non trascurabili» che potrebbero ricondurre la morte ad un caso di asfissia. La cianosi al volto, il colorito bluastro delle ipostasi, la schiuma ritrovata nella cavità orale, l’esistenza di flebili battiti cardiaci riscontrati dal primo medico intervenuto a soccorrere Sapia, sono elementi che meritano di essere chiariti attraverso ulteriori accertamenti.L’ultimo punto, «il più importante aspetto insufficientemente esplorato» – secondo il Gip Benigno – riguarda l’azione delle forze dell’ordine in base al protocollo operativo che descrive le modalità intervento con persone in evidente stato di alterazione psicofisica, proprio la condizione in cui evidentemente si trovava il giovane Sapia. Le regole cautelative descritte dal protocollo, che indicano la necessità di far intervenire immediatamente i sanitari e di evitare immobilizzazioni in terra o in posizione prona evitando qualsiasi compressione toracica, «vennero violate», perché – come scrive il Gip – Vincenzo Sapia venne «avvinghiato e stretto al collo, tirato per i capelli, immobilizzato a terra sia prono che supino, bloccato dalle spalle e dal torace e gli venne posto un piede sulla testa e sulla schiena». Ancora non si può escludere, dunque, che il comportamento dei carabinieri abbia causato una morte cardiaca. Solo chiarendo tutti questi dubbi il Gip potrà decidere se archiviare o rinviare a giudizio e quindi a processo i militari. Intanto, i parenti della vittima esprimono con cautela la loro felicità. «Oggi abbiamo avuto una splendida notizia – ha dichiarato Caterina Sapia, sorella di Vincenzo – perché la morte di mio fratello merita un’indagine giusta e precisa e anche se la strada è ancora lunga siamo determinati ad andare fino in fondo». Soddisfazione condivisa anche dagli avvocati della famiglia Sapia, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, che hanno visto accolti tutti i motivi di opposizione alla richiesta di archiviazione.

 

Dante Prato