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L’ergastolo non sia una pena di morte nascosta

 

Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) nel suo rapporto annuale certifica come la misura sia cresciuta del 66% negli ultimi dieci anni

 

Nell’ultimo Rapporto annuale del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) vi è un capitolo dedicato all’ergastolo, pena che riguarda circa 27000 detenuti nello spazio del Consiglio d’Europa (dato del Council of Europe Annual Penal Statistic al 2014) una cifra cresciuta del 66% in dieci anni, come probabile effetto sia della sostituzione della pena di morte con l’ergastolo nei Paesi dell’ex blocco sovietico oltre che del generale inasprimento delle politiche criminali.
La situazione è molto diversa tra i 47 Paesi membri poiché vi sono quelli che hanno abolito l’ergastolo, quelli che lo prevedono ma non l’hanno mai comminato, quelli che prevedono la possibilità di accedere alla liberazione condizionale dopo un certo periodo di tempo prestabilito – o a discrezione del magistrato – e quelli che invece questa possibilità la escludono.
Papa Francesco ha detto che l’ergastolo è una “pena di morte nascosta” ed è indubbio che, nella storia dell’umanità, queste due punizioni – pena di morte e pena fino alla morte – si siano rincorse nella gara per la maggior sofferenza inflitta verso lo stesso traguardo, quello della morte, senza alcuna speranza di riammissione nel consesso umano e civile.
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura è esplicito nel riconoscere al detenuto il diritto alla speranza e che “la detenzione a vita senza una reale possibilità di rilascio è inumana” perché preclude una delle funzioni essenziali del carcere, quello della riabilitazione. “Questo non significa che tutti gli ergastolani prima o poi debbano essere liberati”, precisa il Cpt, che chiede che questa pena possa essere “sottoposta ad un riesame serio in un momento certo” e ricorda che la Corte penale internazionale, come i tribunali speciali internazionali, che giudica i fatti più gravi che possano essere commessi, genocidio, crimini contro l’umanità o quelli di guerra, non prevede il fine pena mai.
Sulla base dell’esperienza del Cpt “gli ergastolani non sono, ineluttabilmente, più pericolosi di altri detenuti” e al pari degli altri “sono in carcere come punizione, non per ricevere punizioni”. Perché la funzione di risocializzazione non sia abdicata, non deve essere loro inflitta una pena la cui sofferenza risulti intollerabile, ragion per cui non possono, ad esempio, essere reclusi per 23 ore al giorno, né può esservi automaticità tra tipo di condanna emessa e regime detentivo.
La concezione che secondo me emerge è quella per cui l’individuo è al centro del sistema detentivo tant’è che il Cpt afferma che anche i detenuti più pericolosi possono cambiare non solo e non tanto per effetto del trascorrere del tempo della pena ma anche grazie ad un trattamento umano ed un programma mirato. Bisogna, in altre parole, tener conto della persona reclusa e dei suoi mutamenti. Allora, in questa concezione, il detenuto, ergastolano compreso, oltre ad avere diritto alla speranza è esso stesso speranza per il sistema.
Per orientare gli Stati in tal senso si indicano dei punti cardinali: individualizzazione del piano di trattamento volto al reinserimento; normalità del regime detentivo; responsabilizzazione; sicurezza, con una chiara distinzione tra i rischi che un ergastolano pone per la comunità esterna e quella interna al carcere; non segregazione; progressione nel miglioramento del regime detentivo attraverso una partecipazione attiva del detenuto.
La stessa Corte europea per i diritti umani sul punto va nel senso di chiedere agli Stati membri di prevedere nei rispettivi ordinamenti un momento certo entro il quale sia possibile riesaminare la pena con la conseguente necessaria previsione di una procedura volta alla riducibilità. Ne consegue che la detenzione deve essere organizzata in modo tale da permettere all’ergastolano di intraprendere un percorso di riabilitazione, vale a dire una certa flessibilità della esecuzione della pena in modo che si possa modellarla sull’evoluzione personale del detenuto.
C’è ancora molto lavoro da fare, afferma il CPT. In effetti, permangono nodi che legano ancora molti Paesi alla “pena di morte nascosta” dell’ergastolo, nodi che van sciolti anche nel Paese riconosciuto nel mondo per la campagna per la moratoria universale della pena capitale, dove l’impianto dell’ergastolo ostativo, che riguarda oltre 1000 persone, prevede uno sbarramento normativo automatico, impermeabile ai cambiamenti dell’ergastolano non collaborante – intendiamoci, non collaborante alle indagini, non ai programmi trattamentali. Un tale impianto, a ben vedere, più che ai benefici penitenziari e al diritto alla speranza dei detenuti, osta proprio alla speranza nel diritto e nello Stato di Diritto.

 

Elisabetta Zamparutti – Rappresentante italiana al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti disumani e degradanti