NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

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DAVIDE LIBERO











MOGGI STORY parte 6

 

Tratto da "Lucky Luciano – Intrighi, maneggi e scandali del padrone del calcio italiano Luciano Moggi".

 

LUCIANONE ULTRA'
Dovunque passi, Moggi lascia il segno, inconfondibile e indelebile. Ne sa qualcosa l’imprenditore informatico Paolo Depetrini (figlio di quel Baldo Depetrini che fu un campione della Juventus negli anni 1933-1949). Nel maggio 1994 la società bianconera, appena affidata alla triade Giraudo-Moggi-Bettega, appalta a Depetrini la gestione delle biglietterie dello stadio Delle Alpi. Firmato il contratto, l’imprenditore fonda una società – la Stadio Service – per la bisogna. Da allora, e per due anni, incappa in una serie di peripezie e "stranezze" da parte della Juventus, che diventeranno oggetto di due inchieste della magistratura torinese in seguito alle denunce dell’imprenditore.
Quasi subito, Depetrini si accorge che la Juventus gestisce i biglietti delle partite con molta disinvoltura. Quelli timbrati "Ancol", a prezzo ridottissimo, vengono distribuiti ai club degli ultrà scavalcando la Stadio Service (che dovrebbe invece esserne l’unico distributore) e venduti agli ultrà a sole 10 mila lire – gli ultrà, poi, li rivendono col bagarinaggio agli ignari tifosi a prezzo intero, cioè a 26-30 mila lire (a seconda dell’importanza della gara), con un guadagno di decine di milioni a partita (ovviamente esentasse). Un sistema semplice e ingegnoso per finanziare i club ultrà più facinorosi senza dare nell’occhio e senza sporcarsi direttamente le mani.

Vale la pena di ricordare che, durante la presidenza Boniperti, la Juve aveva messo alla porta tutti i club non costituiti con atto notarile, negando loro i biglietti, per troncare ogni rapporto con le frange più scalmanate e incontrollabili della tifoseria. Le quali, per tutta risposta, avevano inscenato continue contestazioni e scioperi del tifo. Le contestazioni erano poi proseguite per qualche settimana anche dopo l’avvento della triade Giraudo-Moggi-Bettega, ma per ben altri motivi. I tifosi bianconeri protestavano per l’arrivo ai vertici della Juve di due personaggi dai trascorsi "granata": Moggi, già direttore sportivo del Torino, e Giraudo, notoriamente tifoso del Toro e già consulente di Borsano. Ma queste proteste erano durate poco, e si erano trasformate come per incanto in cori di giubilo.
Stando al racconto di Depetrini, ben si comprende perché. L’imprenditore chiede spiegazioni al dirigente Paolo Prandi, responsabile del Centro coordinamento club juventini (che ha sede presso la Stadio Service): perché i biglietti Ancol vengono venduti al di fuori della distribuzione ufficiale? La risposta è che «la società deve prediligere questi gruppi organizzati e finanziarli». Prandi gli parla di «un personaggio in carcere, addirittura condannato all’ergastolo, che dava ordini a un certo Antonio "Tony" Acanfora sulla gestione della Curva Sud dello stadio in occasione delle partite della Juventus»; di «gente di Milano, che minacciava i tifosi della curva Nord per vendere loro i biglietti "omaggio" ricevuti dalla società»; e infine di imprecisate «minacce e intimidazioni ricevute dai vertici juventini».

Scrive Depetrini nella sua denuncia all’autorità giudiziaria: «Che ci fosse una connivenza tra la società e alcuni personaggi dei gruppi organizzati mi fu ben chiaro, sempre alla fine di novembre 1994, allorché in due occasioni lo staff dirigenziale della Juventus composto da Giraudo, Bettega, Moggi e Prandi incontrò presso la mia sede (Stadio Service, ndr) alcuni rappresentanti di questi gruppi, tra i quali Acanfora... e altri di cui non ricordo i nomi. Ovviamente, nonostante fossi il titolare della biglietteria ufficiale Juventus e quindi il distributore dei biglietti, non fui invitato a tali riunioni, ma venni a conoscenza del tenore delle richieste fatte alla Juventus e di quali fossero le politiche societarie dallo stesso Prandi e dalle enfatizzazioni dell’Acanfora: la nuova dirigenza Juventus aveva bisogno di questi sostenitori per impedire contestazioni dei tifosi che richiedevano una restaurazione della vecchia dirigenza e non gradivano i signori Giraudo e Moggi per i loro trascorsi granata... Fu ben chiaro ai capi tifosi e ai gruppi chi effettivamente comandasse e disponesse del "potere dei biglietti", come catechizzava il Prandi stesso. La società quindi non aveva scelta: doveva finanziare questi gruppi».
Depetrini – citando come testimone un’altra vecchia gloria juventina, Bruno Garzena – racconta di aver confidato le sue perplessità anche a Giraudo, ricevendone la seguente risposta: «Alla base della loro (dei capi ultrà, ndr) cultura c’è la violenza, e quindi la società non può intervenire... E comunque questi fatti sono normale prassi di ogni società di calcio». Inoltre, scrive Depetrini, «Giraudo mi disse che a livello personale correva il rischio, tra l’altro, che questi personaggi gli potessero creare dei danni alle cose proprie, come l’automobile e la casa». I tifosi, in pratica, avrebbero ricattato la dirigenza juventina, costringendola a scendere a patti. «Dopo gli incidenti avvenuti in occasione di Juventus-Fiorentina e alla condanna di diversi tifosi», prosegue Depetrini, «la Juventus si adoperò oltre misura affinché gli stessi fossero "graziati", a seguito di varie pressioni dello stesso Acanfora, quale latore dello scontento dei vari capi per questa situazione. In questa occasione, per alcune domeniche di gare casalinghe, la cosiddetta tifoseria organizzò uno sciopero del tifo e produsse diversi striscioni contro le sanzioni applicate ai sostenitori condannati. In un’occasione assistetti alle rimostranze di Acanfora e Dardo (un altro capo ultrà, ndr) nei confronti della società... A questo punto era sempre più chiaro che comunque la Juventus provvedeva – con i biglietti Ancol e i biglietti "omaggio" – a finanziare tali gruppi, per potersene assicurare il controllo e le prestazioni».

Per le società calcistiche, i rapporti con le frange più facinorose del tifo organizzato sono imbarazzanti e inconfessabili. Tanto più all’inizio del 1995, quando allo stadio genovese di Marassi rimane ucciso un tifoso del Genoa aggredito da una banda di ultrà milanisti e il Parlamento approva la legge Maroni: un giro di vite contro gli hooligan all’italiana e le società che li foraggiano. Da allora, sostiene Depetrini, anche la Juve ha preso precauzioni per non lasciare impronte digitali: «Prandi non consegnò più direttamente i biglietti Ancol o altri biglietti di curva, ma li acquistava direttamente lui, passandoli poi ai gruppi».
Una prassi di dubbia liceità, viste le severe prescrizioni della nuova legge: pacchi di biglietti sarebbero finiti addirittura a tifosi diffidati dalla Polizia dal frequentare lo stadio. «Un mio dipendente», scrive Depetrini, «doveva, per precise disposizioni del Prandi, rendere disponibili i biglietti ordinati, compilando comunque delle distinte intestate alla Juventus, sulle quali venivano indicati la serie e i numeri consegnati, e i nomi dei club o gruppi destinatari. Alcune di tali distinte, nelle quali compare come acquirente dei biglietti un fantomatico "Juventus Club Prandi" (club inesistente, ndr), sono state sottratte nel furto avvenuto nei miei uffici nel 1996 e da me denunciato. Per fortuna, ne avevo conservato le fotocopie». Depetrini comincia a rendersi conto che «la mia struttura, grazie alle prepotenze e alle prevaricazioni nei miei confronti di tutta la dirigenza Juventus, era solamente uno strumento di copertura per meglio "giostrare" con i biglietti a favore di chi più conveniva a Prandi e alla Juventus stessa».

L’imprenditore bussa continuamente alla porta della direzione juventina reclamando il rispetto del contratto. Per tutta risposta, il 2 dicembre del 1994 si è visto imporre «l’esborso di lire 107.100.000 per "integrazione avviamento"», oltre all’assunzione forzata di tre ex dipendenti della Juventus con stipendi da favola (condizione prevista dal contratto capestro). Imposizioni che vanno ad aggiungersi ai continui oneri contrattuali per centinaia di milioni a carico di Depetrini, e che hanno indotto l’imprenditore a denunciare la società juventina per estorsione. Nel febbraio del 1995 la Juventus diretta da Moggi comincia una lunga manfrina con il Comune di Torino, lamentando che la permanenza allo stadio Delle Alpi (costruito dalla società romana Acqua Marcia per conto del Comune in occasione dei mondiali di Italia ’90) è troppo onerosa. Per forzare la mano all’amministrazione municipale e spuntare condizioni di maggior favore – a spese del contribuente – la Juventus decide di giocare le ultime partite della Coppa Uefa a Milano, allo stadio Meazza di San Siro. E se i tifosi torinesi, costretti a traslocare e ad accollarsi le spese del viaggio, non gradiscono, protestino pure con il Comune, additato come il solo colpevole di tutto.
La prima partita, il 4 aprile, è Juve-Borussia, 2 a 2. Della stampa e della distribuzione dei biglietti dovrebbe occuparsi come da contratto Depetrini, che infatti se ne accolla le spese organizzative; ma poi scopre che la Juventus, «senza neppure avvisarmi o consultarmi, ha affidato 35.500 biglietti al Milan». La scena si ripete il 17 maggio, per la finale Juventus-Parma, disputata anche quella a Milano: «Una quota di lire 600 milioni di biglietti fu affidata al Milan», che poi gentilmente gli girò la fattura delle spese di stampa, a costo doppio rispetto a quello pagato normalmente da Depetrini. La duplice operazione è un ulteriore danno economico per la sua attività, ma quando va a protestare in casa Juve l’imprenditore si sente rispondere che «il mio guadagno era più che sufficiente». La società bianconera provvede anche a modificare il contratto, formalmente in favore di Depetrini: stabilendo che le spese dei biglietti e dei cassieri saranno a carico della Juventus. In realtà «tutto continuò a essere addebitato a Stadio Service». E intanto – sempre in barba al contratto, e sempre a detta dell’imprenditore – la Juventus continua a gestire in proprio i biglietti dati alle squadre ospiti a Torino, e quelli che riceve dai club ospitanti nelle trasferte.

Siamo ormai nella primavera inoltrata del 1995, e i rapporti fra Depetrini e la Juventus si fanno ancora più incandescenti: «Prandi si lamentava con i miei dipendenti del fatto che, per preciso incarico della Juventus, doveva continuare a finanziare i gruppi organizzati, ma la società non gli assegnava alcun apporto finanziario e quindi lui si vedeva costretto a ricorrere a "finanziamenti in proprio". Il che significava molto spesso vendere anche i biglietti omaggio e molto spesso anche quelli di riserva». Biglietti omaggio venduti sottobanco: un déjà vu che accomuna il Toro di Lucianone ieri e la Juve di Lucianone oggi... Depetrini avrebbe le prove documentali: in particolare, «le lettere di protesta di alcune persone che avevano acquistato dal vicepresidente del Centro coordinamento dei club biglietti omaggio a 35 mila lire ciascuno».

Dalla denuncia di Depetrini emerge la nuova concezione che la nuova dirigenza juventina avrebbe del mondo del calcio come pura fonte di denaro: «Il signor Romy Gai, responsabile del Marketing (della Juve), mi informò che erano cambiate le strategie nel mondo del calcio, e che alla Juventus non interessava nulla del tifoso tradizionale, del nucleo familiare che va allo stadio. Le nuove strategie prevedono: uno stadio con dei tifosi finti (come negli spettacoli televisivi, dove gli spettatori applaudono o ridono quando si accende la lucina), e i biglietti a questi tifosi vengono distribuiti attraverso gli sponsor ufficiali ai quali vengono imposti per contratto pacchi di biglietti. I tifosi tradizionali devono essere avviati alla pay per view (la Tv a pagamento, ndr), in quanto alla Juventus i diritti che ne derivano rendono molto di più». Una strategia che, in pratica, «annullava l’esistenza di una biglietteria efficace e capillare», anche in seguito a «vari contratti di sponsorizzazione che la Juventus andava stipulando con diverse società, poi direttamente interessate alla biglietteria, come la Gemini Viaggi e la Polti, che portavano alla società degli enormi ritorni finanziari».

Nel maggio 1996, la goccia che fa traboccare il vaso. La Juventus è in finale di Coppa dei campioni con l’Ajax: si giocherà all’Olimpico di Roma. Il 26 aprile, un comunicato ufficiale della società annuncia: «I biglietti disponibili verranno distribuiti esclusivamente con la collaborazione del Centro coordinamento club e pertanto non verranno messi in vendita per motivi di ordine pubblico... Il viaggio a Roma dei tifosi verrà organizzato dalla Juventus per tramite dei suoi partner». La tifoseria bianconera si ribella, con lettere e telefonate inferocite alla sede juventina e ai giornali. Chi vuole vedere la partita allo stadio di Roma dovrà passare attraverso i club e versare il suo obolo all’agenzia di viaggi della Juventus (la Gemini Viaggi, gruppo Fiat): non si può raggiungere la capitale con mezzi propri, occorre versare l’obolo completo (per viaggio e biglietto) alla Real Casa. Ancora una volta, in barba al contratto, la società Stadio Service è estromessa dalla distribuzione dei biglietti.

Quanti biglietti la Juventus abbia ricevuto dall’Uefa, Depetrini non l’ha mai saputo. Ufficialmente la società per scusarsi di non poterne vendere al dettaglio e per giustificare la scelta di averli esauriti tutti con le richieste dei club sostiene di averne avuti soltanto 19 mila. Secondo Depetrini, invece, ne aveva tra i 23 e i 35 mila. Alle vane proteste dell’imprenditore, la Juventus risponde che la nuova soluzione è stata dettata dalla necessità di «non alimentare il bagarinaggio», mentre «proprio questo stava facendo la Juventus». Come? «La Juventus consegnò al capo degli ultrà Acanfora, senza alcun titolo di preferenza e di ufficialità, biglietti per 180 milioni di lire per la finale di Roma. L’importo è equivalente alla consegna di circa 1.200-1.400 biglietti, che furono poi rivenduti per il triplo: pressappoco 540 milioni (con un guadagno netto di circa 360, ndr). Ho inoltre assistito alla consegna da Prandi ad Acanfora di un cospicuo numero di biglietti omaggio circa 500 inviati dalla sede della Juventus».

Intanto scoppia l’ira dei tifosi juventini rimasti senza biglietto: «La mia sede», ricorda ancora l’imprenditore, «era subissata di insulti e di minacce, tutti quelli che telefonavano si sentivano truffati dalla Juventus per la mancata distribuzione dei biglietti». Anche quell’operazione è di dubbia regolarità, se è vero che, come rivela Depetrini, «la Juventus si accorse che il Centro coordinamento club non aveva titolo per raccogliere il ricavato della distribuzione dei biglietti e la signora Gastaldo (responsabile amministrativa della Juve, ndr) mi telefonò chiedendomi di poter far transitare sul conto della Stadio Service le somme raccolte».

Depetrini esprime un altro dubbio: se la Juventus gestiva in proprio i diritti sui biglietti delle partite in trasferta, sebbene il contratto li assegnasse a Stadio Service, quegli introiti erano registrati sui bilanci della società? E, se lo erano, sotto quale voce? Nell’estate 1996 Depetrini mette in fila i crediti che vanta nei confronti della Juventus e chiede che gli vengano saldati, tanto più che la nuova campagna abbonamenti nonostante la vittoria juventina in Coppa campioni ha fruttato la vendita di solo 28 mila tessere, contro le 36 mila dell’anno precedente. Non ricevendo alcuna risposta, in settembre l’imprenditore trattiene per sé come acconto sui suoi crediti l’incasso di una delle prime partite casalinghe del nuovo campionato, Juve-Fiorentina.

A fine settembre Giraudo si decide a incontrare Depetrini per discutere l’intera faccenda, ma l’impasse non si sblocca. E in un successivo incontro con Chiusano, Giraudo, Bettega e avvocati vari, Depetrini viene minacciato di denuncia per appropriazione indebita. Parlando con Giraudo e Chiusano, l’imprenditore rivela gli episodi più sconcertanti cui ha assistito nell’ultimo biennio: non solo i continui favori indebiti agli ultrà, con la vendita di biglietti omaggio e Ancol, ma anche un particolare che riguarda la gestione allegra di Luciano Moggi, e precisamente: «Le richieste di biglietti da parte di noti bagarini napoletani che, recandosi da Prandi, potevano acquistare, grazie alle raccomandazioni del Moggi, lire 15 milioni di biglietti di curva per le partite di cartello, che ai tifosi normali venivano negati perché ufficialmente esauriti da tempo».

Sempre nell’autunno 1996, Depetrini si vede consegnare da Prandi una busta con 4 milioni una specie di buonuscita mascherata da percentuale (in nero) degli incassi per le magre prevendite di Juve-Rapid Vienna di Coppa campioni (28 milioni). Depetrini chiede spiegazioni alla segretaria amministrativa della Juve, e registra la telefonata: la donna dice, ammiccando, che quella è una specie di «maggiorazione prezzo... arrotondamento per valuta... io in contabilità non ce li ho». Frasi che autorizzano qualsiasi dubbio: «Se su 28 milioni», si domanda Depetrini nell’esposto-denuncia, «me ne spettano 4 e chiaramente senza pagare una lira di tasse, quanti soldi mi dovevano essere riconosciuti in rapporto a tutte le altre partite della Juventus? Se per una vendita di 28 milioni Prandi ne riusciva a recuperare quattro, in che modo venivano venduti i biglietti e chi materialmente effettuava le maggiorazioni? Da chi e come hanno recuperato questi soldi? Se a ogni partita si effettuavano tali maggiorazioni, qual è il danno che è stato arrecato alla mia struttura? Tali maggiorazioni a che cosa servivano: a un indebito tornaconto personale? Oppure a una creazione di fondi per gruppi organizzati?». Domande alle quali dovrà dare una risposta la magistratura. Si arriva così all’ultima puntata dell’intrigo. L’8 novembre 1996 la Juventus comunica a Depetrini la revoca del contratto. Nel corso di una riunione al vertice con Chiusano, Bettega, Giraudo e Moggi, Depetrini quantifica i danni fin lì subiti in un miliardo e 600 milioni; la Juventus, a sua volta, reclama i 600 milioni per le ultime percentuali sui biglietti non più pagate; la discussione si arroventa e poi si arena. Nelle stesse ore, la sede della Stadio Service viene visitata da strani ladri che sottraggono del materiale piuttosto prezioso e compromettente: «Documenti relativi ai biglietti di diverse gare e intestati al fantomatico J.C. Prandi», nonché «i dati dal mio sistema centrale meccanizzato e affidato in assistenza alla General Soft Srl».

La General Soft, con sede in piazza Crimea, a due passi dalla sede della Juventus, con la quale intrattiene da tempo rapporti d’affari, è un’azienda che si occupa di software gestionali e che ha elaborato il programma (acquistato da Depetrini) per biglietti e abbonamenti allo stadio Delle Alpi: tiene il controllo dei settori, delle file, dei posti numerati, dei biglietti omaggio e scontati, dei dati anagrafici dei tesserati, eccetera. Un programma indispensabile a chiunque gestisca la biglietteria dello stadio; senza quei dati, una volta liquidato Depetrini, la Juventus non potrà stampare le etichette da applicare sui biglietti da mettere in vendita per le future partite, a cominciare da quelle contro l’Inter e il Milan...

La necessità e urgenza della Juventus di entrare in possesso di quel programma traspare da una telefonata a Depetrini anch’essa registrata del legale rappresentante di General Soft, tale Martini, il giorno prima della revoca del contratto (7 novembre 1996): «Abbiamo bisogno di etichette, io cosa gli dico a sti qua, che faccio? Stamattina mi ha chiamato sul cellulare la Gastaldo... Non possiamo rovinarci il rapporto con la Juve»; ma Depetrini, visto che il software-abbonamenti è di sua proprietà, non s’intenerisce e fa sapere che non intende cederlo a nessuno. È in questo quadro, nella parte più delicata della sua denuncia, che si inserisce il furto dei dati dai suoi computer: «I miei dipendenti mi hanno confermato che nell’ambiente della Juventus, molte persone sono a conoscenza che la General Soft, su precise disposizioni della Juventus, ha volontariamente copiato tutti i dati inseriti nel mio sistema e glieli ha messi a disposizione».

Nel marzo 1997 il pubblico ministero presso la Pretura Carlo Monferrini e il Gip Giorgio Martincich sequestrano i computer visitati e dispongono un incidente probatorio che sembra confermare i sospetti di Depetrini. Sulla perizia si legge infatti: «Risulta che gli archivi informatici e i dati esistenti sui supporti magnetici sequestrati presso la General Soft e presso la biglietteria (della Juventus presso lo stadio Delle Alpi, ndr) sono provenienti da quelli esistenti sul calcolatore della Stadio Service con le varianti conseguenti a un loro successivo utilizzo». Intanto, il 3 dicembre 1996 la Juventus presenta istanza di fallimento a carico di Depetrini; ma l’istanza viene respinta dal Tribunale fallimentare di Torino, in attesa che un arbitrato stabilisca quanto l’imprenditore sia debitore verso la società bianconera, e viceversa.

Il 28 maggio 1998 le denunce di Depetrini finiscono sul quotidiano la Repubblica. Suscita scalpore soprattutto un episodio narrato dall’imprenditore e destinato a rinfocolare l’annosa contesa, tutta di casa Fiat, fra umbertiani e romitiani: «La connivenza della società con tali gruppi (di tifosi ultrà, ndr) era talmente radicata che, per la partita casalinga del 15 gennaio 1995, Juventus-Roma, il dottor Giraudo personalmente venne presso la nostra sede la mattina della partita, parlò con Prandi e Acanfora per far comporre uno striscione di circa 10 metri con il seguente slogan: Romiti, i bei tempi son finiti. Assistetti alla confezione dello striscione (perché mi fu chiesto se avessi delle bombolette di vernice spray), che avvenne nel retro del distributore Ip di fianco alla mia sede, e reputo che non sia assolutamente stata una burla, tant’è vero che ne riferirono le cronache dei giornali, informati di questo dai dirigenti della Juventus. Lo striscione –che fu confezionato da Acanfora con l’aiuto di alcuni fedelissimi che conoscevo personalmente fu introdotto allo stadio (Delle Alpi) utilizzando l’auto di servizio della società e poi a un certo punto della partita srotolato nella curva».

Romiti, quel 28 maggio, incontra i giornalisti come presidente della Fiat. E commenta: «Me lo ricordo benissimo, quello striscione contro di me. Era Juve-Roma (15 gennaio 1995, ndr), io non andai allo stadio, ma lo vidi sui giornali. Mi meravigliò molto. La fotografia sui giornali ce l’ho ancora presente. I commenti li lascio a voi». Sulle pagine di Repubblica Maurizio Crosetti ricostruisce così tutta la manovra: «Impossibile dimenticare il gennaio 1995, quando Romiti disse: In questi anni la Juventus è stata come una amante, un rapporto più passionale, ma ora torno alla Roma (di cui l’ex presidente della Fiat è tifoso fin da ragazzo, ndr), che è come la moglie. E, a proposito dei nuovi (allora) dirigenti bianconeri, fra i quali il tifoso granata Giraudo: Bisogna amare il prodotto che si realizza. Non si possono fare automobili come se fossero dentifrici. La risposta arrivò in curva. E siccome la scritta poteva sfuggire a qualche giornalista distratto, ci pensò il dirigente bianconero Romy Gai a segnalarla ai cronisti della tribuna stampa, passando di banco in banco». Dunque il racconto dell’imprenditore qui trova conferma.

La reazione di casa Juve alle rivelazioni di Depetrini è piccata. Mentre Giraudo tace, l’avvocato-presidente Chiusano liquida tutto come «parole che valgono quel che valgono, visto che questo personaggio ha rubato 600 milioni alla Juventus: cioè l’incasso della partita contro la Fiorentina. Mi spiace perché ricordo suo padre, e mi fa rabbrividire l’idea di quel che ha fatto suo figlio. Lo abbiamo denunciato per appropriazione indebita, e ci riserviamo di querelarlo». Chiusano replica anche alle altre accuse di Depetrini: «Vecchie insinuazioni per screditarci. Per l’indagine sui rapporti tra la nostra società e i club del tifo, il pubblico ministero ha già chiesto l’archiviazione. Le perizie tecniche hanno dimostrato che non c’è nulla di illegale nella copia dei dischetti per etichettare i tagliandi: fu la stessa società di Depetrini a produrne copia per la Juve... Mi arrabbierei se sapessi che Giraudo perde il suo tempo a scrivere striscioni, lo riprenderei perché lui deve fare altro. La storia dei rapporti con i bagarini napoletani amici di Moggi è un pettegolezzo come le cene con i capi della tifoseria».

Depetrini replica: «Sono io che querelerò l’avvocato Chiusano una seconda volta, visto che continua a darmi del ladro. La Juve mi deve un miliardo e 600 milioni di diritti non riconosciuti, ha tentato di rovinarmi ma non c’è riuscita. Hanno paura di andare in tribunale, perché lì racconterei tutto. Ho le prove dei rapporti illeciti tra la Juventus e gli ultrà e le ho fornite ai magistrati».

Il silenzio più assordante, in tutta questa storiaccia, è quello del direttore generale della Juve. Strano, perché Lucianone è un vero esperto, collaudato da anni di attivismo sul campo, in fatto di biglietti omaggio, soldi in nero, intrighi nell’ombra, ambigui rapporti con i più impresentabili capi delle fazioni ultrà. Fazioni che entrano sapientemente in gioco ogni qualvolta, per certi dirigenti, se ne presenti la necessità. Infatti si rivedranno all’opera nei giorni caldi dello scandalo doping, con un truce assalto alla tribuna stampa dello stadio Delle Alpi; anche in quella occasione, Moggi fingerà di non avere visto né sentito nulla: «Stavo guardando la partita...».

TOTO', PEPPINO E LUCIANONE

Una delle specialità più rinomate di Lucianone è sempre stato il rapporto con i giornalisti. Logico che qualunque giornalista rifiuti di baciare le sacre pantofole della Juve moggiana viene bistrattato e intimidito, talvolta impossibilitato a lavorare. I casi di cronisti sportivi allontanati dallo stadio o dal campo di allenamento juventino, oppure squalificati e messi al bando dalla società bianconera guidata dal trio Giraudo-Moggi-Bettega, non si contano. Il primo di questi casi è particolarmente istruttivo, anche perché è finito in tribunale.

Il primo cronista che entra nel mirino è Marco Travaglio, il quale ha osato pubblicare alcuni commenti critici sulla dirigenza juventina. Nel settembre del 1996, come ogni anno, chiede di essere accreditato alla tribuna stampa dello stadio Delle Alpi: tribuna che rientra sotto la giurisdizione dell’Ussi (l’Unione stampa sportiva italiana), alla quale spetta il compito di indicare alla società i nominativi dei giornalisti da accreditare. La Juventus non ha alcun potere discrezionale: sennò potrebbe illecitamente selezionare i giornalisti graditi e escludere quelli scomodi, danneggiando professionalmente questi ultimi e limitando la libertà di stampa.

Questo, almeno, in teoria. Perché il 13 settembre 1996 la Juventus decide che Travaglio sebbene già autorizzato dall’Ussi non debba più metter piede allo stadio. «Mi dispiace», gli comunica l’addetto stampa bianconero Daniele Boaglio con una telefonata, «ma non ti posso accreditare perché sei un giornalista non gradito alla società... Io non c’entro. La decisione l’ha presa Moggi in persona». Inutili le insistenze dell’Ussi presso i vertici bianconeri: Travaglio viene messo al bando per l’intera stagione. La sera prima dell’incredibile notifica di squalifica del giornalista, giovedì 12 settembre, Antonio Giraudo e Lucianone organizzano una cena invitando una dozzina di giornalisti sportivi torinesi, quelli che di solito seguono la Juventus. La cena si svolge al ristorante Da Ilio, detto anche I due mondi (a due passi dalla stazione di Porta Nuova). Travaglio, ovviamente, non è tra gli invitati. Ma è presente in spirito, dal momento che Giraudo trova il modo di evocarlo, insultandolo di fronte ai suoi esterrefatti colleghi. «Travaglio fa un giornalismo vergognoso, schifoso, disinformato», comincia il braccio sinistro di Umberto Agnelli; poi lo paragona a Mino Pecorelli, il giornalista piduista direttore di Op già chiacchierato come ricattatore, assassinato nel 1979 da un killer della banda della Magliana.

La cena si fa burrascosa: anche un cronista di Tuttosport, presente al convivio, viene insultato e definito disonesto. Molti dei giornalisti protestano, Giraudo alla fine si calma. Lucianone, invece, gongola, e come suo solito tenta di fare il simpaticone per arruffianarsi gli astanti. L’indomani, alcuni dei presenti alla cena informano Travaglio dell’accaduto, e il giornalista sporge querela contro Giraudo per diffamazione. L’inchiesta della Procura presso la Pretura, competente per quel tipo di reato, è affidata al pubblico ministero Paolo Toso. Il magistrato interroga i giornalisti presenti alla cena, ma non convoca né Giraudo né Moggi. Alcuni dei giornalisti testimoni confermano tutto, altri tendono a sfumare il tono delle affermazioni di Giraudo (si occupano di Juve, e rischiano anche loro l’espulsione dallo stadio...). Dopodiché il magistrato chiede l’archiviazione del caso. Ma gli avvocati Andrea e Michele Galasso, che difendono Travaglio, presentano ricorso; il giudice dà loro ragione, e ordina al magistrato di approfondire le indagini. Questa volta gli interrogatori sono completi, e anche Giraudo deve recarsi in Procura, scortato dal suo avvocato, Luigi Chiappero dello studio Chiusano. Il pubblico ministero Toso procede anche per il reato di minacce, visto che l’accenno al giornalista assassinato potrebbe configurare un intento intimidatorio.

Ecco il racconto di uno dei testimoni più precisi di quell’assurda cena: «Io sedevo, nella tavola dei convitati, a fianco del dottor Antonio Giraudo. Da tale posizione io potevo ascoltare bene i discorsi del Giraudo... Prima diceva che il giornalismo prodotto dal Travaglio era disinformato, non veritiero, schifoso. Poi aggiunse che chi fa un certo tipo di giornalismo rischiava di fare la fine di Pecorelli. Io ebbi l’impressione che la frase fosse rivolta chiaramente al Travaglio... La interpretai come una minaccia...». Un altro giornalista conferma che Giraudo parlò di «giornalismo alla Pecorelli... nel contesto della discussione riguardante il collega Travaglio». Altri cronisti presenti alla cena, pur non volendo collegare direttamente a Travaglio l’accenno a Pecorelli, confermano che Giraudo usò nei suoi confronti espressioni molto pesanti. Interrogato come indagato per diffamazione e minacce, Giraudo non può negare, e anzi rivendica quel paragone.

A questo punto è il turno di Moggi, convocato in Procura per testimoniare in merito alla cena degli insulti. Ma Lucianone si è scordato di informarsi sulla versione fornita da Giraudo, e come Totò e Peppino falsi testimoni nel film "La cambiale" corre al salvamento del padrone in difficoltà con il più classico degli eccessi di zelo e di servilismo: «Assolutamente non udii che venisse fatto cenno dal Giraudo a un giornalismo alla Pecorelli», giura davanti al maresciallo De Bellis della polizia giudiziaria. «Escludo di aver sentito anche solo il nome di Pecorelli. La discussione era sì accesa, ma l’importanza del contendere non era tale da far trascendere in accuse o minacce di tale livello». Lucianone, insomma, non sentì dire niente del genere.

Ovviamente il magistrato non crede a una sola parola della testimonianza di Moggi, e lo riconvoca per l’11 luglio 1997, stavolta accompagnato dai suoi difensori (i soliti, Fulvio Granaria e Alberto Mittone): perché Lucianone a questo punto è indagato per favoreggiamento nei confronti di Giraudo. Finalmente consapevole che un tribunale non è uno stadio, il direttore sportivo della Juve davanti al pubblico ministero Toso tenta di aggiustare il tiro e di salvarsi in corner: «Si trattava di una cena dove non predominavano i toni accesi. Io sedevo a capotavola e Giraudo al centro del tavolo. Io escludo di aver sentito la parola Pecorelli, ma non escludo che sia stata pronunziata. Venni anzi a sapere che fu pronunziata solo dopo che venni sentito dal maresciallo De Bellis. Me lo disse Giraudo».

Un anno dopo la cena, un anno dopo la querela di Travaglio per il paragone con Pecorelli, un anno dopo le testimonianze di vari giornalisti che confermano le frasi su Pecorelli, diverse settimane dopo le ammissioni di Giraudo, Moggi si è finalmente ricordato che questi effettivamente parlò di Pecorelli, ma solo perché gliel’ha confidato lo stesso Giraudo... Un contorcimento patetico.

Ma la pochade di Lucianone in Pretura prosegue: «Ribadisco che non ho sentito pronunziare la parola Pecorelli, e può essere che in quel momento stessi parlando d’altro... Del resto, se avessi sentito la parola Pecorelli, non vedo perché non dovrei ammetterlo, visto che lo ha ammesso lo stesso Giraudo... Gli argomenti trattati nel corso della cena furono molteplici; ci furono dialoghi frammentati, e a me m’è sfuggita (sic) questa battuta. Può anche darsi che in quel momento mi sia squillato il cellulare, sul quale vengo chiamato in continuazione. Se le dicessi cose diverse, non sarebbero vere». Purtroppo per lui, il magistrato non crede alla goffa ricostruzione di Lucianone. E, nonostante un memoriale difensivo presentato dai suoi legali, Moggi viene rinviato a giudizio per favoreggiamento.

Scrive il pubblico ministero Patrizia Gambardella nel decreto di citazione a giudizio: «Moggi Luciano aiutava Giraudo Antonio a eludere le investigazioni dell’Autorità, rendendo false dichiarazioni all’ufficiale di Polizia giudiziaria che, su delega del Pm, assumeva da lui sommarie informazioni». Anche Giraudo viene rinviato a giudizio, per diffamazione (non invece per minacce), «perché offendeva la reputazione del Travaglio Marco affermando che questi faceva un giornalismo non veritiero, disinformato, alla Pecorelli».

Da casa Juve, stavolta, nessun commento. Da casa Agnelli, invece, trapela una frase attribuita all’Avvocato da un suo caro amico. Una frase che la dice lunga sull’irritazione di Gianni Agnelli per l’ennesima figuraccia del vertice bianconero: «Bel tipo, quel Giraudo... Organizza una cena per fare la pace con i giornalisti, e il giorno dopo un giornalista lo denuncia». La premiata ditta Moggi-Giraudo è convocata in Pretura, per il processo, il 2 ottobre 1998. E, onde evitare che qualche giornalista o curioso ficchi il naso, sceglie il rito abbreviato davanti al Gip: a porte chiuse, lontano da occhi e orecchi indiscreti. Il pubblico ministero Toso accusa Moggi di avere reso «dichiarazioni assolutamente non improntate al vero», e chiede che venga condannato a otto mesi di reclusione per favoreggiamento (per Giraudo, imputato soltanto di diffamazione, la richiesta è di un milione e 200 mila lire di multa). Poi, per la difesa, parla l’avvocato Luigi Chiappero, braccio destro di Vittorio Chiusano: arriva a sostenere che «oggi la figura di Mino Pecorelli è tutt’altro che negativa, anzi è sinonimo di giornalismo scomodo, che riporta le notizie non gradite ai potenti»; ergo argomenta il vice-Chiusano Giraudo voleva fare un complimento a Travaglio, altro che diffamarlo...

Anche i legali di Moggi si arrampicano sugli specchi per dimostrare che Lucianone quella sera era distratto: «Non c’è la prova che abbia sentito la parola Pecorelli, il favoreggiamento non esiste, il fatto non sussiste». Il pretore Antonio Rapelli si ritira subito in camera di consiglio, e ne esce un quarto d’ora dopo con la sentenza: Giraudo e Moggi assolti perché «il fatto non sussiste». Dunque, par di capire, non sussiste nemmeno l’accostamento a Pecorelli che lo stesso Giraudo si è vantato davanti al giudice di aver pronunciato. Perlomeno singolare la motivazione della sentenza. È vero si legge che «il tratto che caratterizzava la figura di Pecorelli... era quello di un giornalista incline al ricatto, il quale si avvaleva a tali fini di rapporti privilegiati», ma «di sicuro e in ogni caso, dal Giraudo il vocabolo Pecorelli non venne impiegato nella accezione dinanzi delineata, e nemmeno venne percepito con tale significato metaforico dei presenti... Il personaggio Pecorelli non è per nulla sinonimo di giornalista propagatore di notizie false, bensì al contrario in possesso di una invidiabile (e anzi formidabile) quantità di notizie riservate... Così circoscritta la portata delle dichiarazioni di Giraudo, la condotta di quest’ultimo va quindi considerata (come) legittimo esercizio del diritto di critica». Quanto all’imputato Moggi, la sua «posizione processuale è strettamente connessa a quella del coimputato Giraudo, in quanto la sussistenza o meno del delitto di favoreggiamento personale ascritto al primo può essere verificata solamente per l’ipotesi che debba essere ritenuto come integrato il reato di diffamazione addebitato al secondo».

Protesta la Federazione nazionale della stampa per bocca del suo presidente Lorenzo Del Boca: «È straordinario che, quando l’imputato è un giornalista, da una parola in su viene subito condannato. Quando invece è un giornalista che si rivolge alla giustizia come parte civile, c’è sempre un motivo per dire che ha torto. Senza contare la lesione della professionalità e della libertà di stampa contenuta in paragoni come quello a Mino Pecorelli. La nostra professione è accerchiata, di questo passo finiranno per strangolarci». Il commento di Travaglio è lapidario: «Fino a oggi, quando volevo fare i complimenti a un collega, gli dicevo: Bravo, hai scritto un pezzo alla Montanelli. In futuro, mi correggerò e dirò: Bravo, hai scritto un pezzo alla Pecorelli...».