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DAVIDE LIBERO











Dal massacro di Bolzaneto a quello di migranti: loro aguzzini, noi fratelli

 

FONTE:l'Unità

 

A Genova non c’era il tempo di gridare, e le urla comunque erano quelle dei militari, eccitati, onnipotenti. Le botte al porto di Sfax facevano ancora troppo male per pensare a cosa sarebbe successo

 

Nel parcheggio oltre il cancello di ferro della caserma di Bolzaneto, c’erano sei blindati, un’ambulanza incastrata tra due defender, un’alfetta dei carabinieri. I ragazzi venivano fatti scendere alla svelta, braccia incrociate dietro la testa, qualcuno ammanettato con le fascette di plastica. Quattro gradini e oltre la porta in vetro, cominciava la festa. Stavano in piedi su due file, manganelli alzati, tirapugni, caschi in mano da usare come clava. Era il benvenuto per i prigionieri, le prede catturate senza nemmeno troppa fatica. La gragnuola di colpi cominciava subito, dai primi della fila, in testa, in faccia, sulle costole. Per chi cadeva bloccando la “sfilata” dell’orrore, calci in bocca, anfibi sulla testa, mani con i guanti neri d’ordinanza che stringevano il collo tirando su di peso, lasciando senza più fiato. Sangue, odore di urina, di paura, di morte. “Un due tre, Viva Pinochet!”- “Viva il Duce, comunisti di merda, ora vi ammazziamo”. Non c’era il tempo neanche per gridare, e le urla comunque erano quelle dei militari, eccitati, onnipotenti. Sudati come maiali gli agenti godevano, erano in orgasmo collettivo, si caricavano uno con l’altro. “Te lo passo, dai, al volo!”. Il ragazzetto con i rasta, diciott’anni scarsi, aveva già gli occhi tumefatti, e non vedeva più nulla, solo rosso che diventava nero. Sentiva in bocca il sapore ferroso del sangue che gli colava dalle ferite in testa, dai dread impastati che qualcuno, da dietro, aveva afferrato per lanciarlo in avanti. Il colpo gli arrivò tra la bocca e il naso, al volo come promesso. Il tonfo secco gli aveva spaccato il setto nasale, i denti dell’arcata superiore, lo zigomo già gonfio da prima. “Dammi il cinque camerata!”. Una volta superate le forche caudine dell’ingresso, si apriva il cancello interno che dava accesso alle celle. Li spingevano al di là del varco, buttandoli dentro come sacchi di immondizia.

Dall’altra parte della porta, il sole accecante del deserto ti veniva incontro con così tanta forza che non sapevi se era per abbracciarti o per soffocarti. Il viaggio era stato di un tempo indefinito, anche se quel pulsare delle ferite e degli ematomi, era come avere un orologio interno. Le botte al porto di Sfax, le fascette strette ai polsi tanto da farti gonfiare le braccia, facevano ancora troppo male per pensare a cosa sarebbe successo. Nel cassone del pick-up dei militari l’ordine era di guardare a terra, di non provare ad alzare lo sguardo nemmeno per sbaglio. Le donne invece erano distese. Le due incinte le avevano colpite alla pancia appena avevano capito il loro stato. “Meglio ammazzarli prima che nascano” diceva sempre il capo brigata. D’altronde per guadagnarsi quei gradi nella sgangherata Guardia Nazionale Tunisina, ci aveva pur dovuto mettere del suo. Il pick up era nuovo di pacca invece. Donato dall’Italia per deportare “le scimmie” come li chiamavano al porto, dopo la cattura in mare. Dalla “Mare Jonio”, la nave del soccorso civile, avevano visto tutto. I lacrimogeni sparati dalla motovedetta direttamente in faccia ai naufraghi, che avevano fatto l’errore di chiedere pietà, almeno per i bambini. Quindici morti, alcuni galleggiavano altri erano già sul fondo del mare al largo di Sfax. Ai ripescaggi dei morti affogati ci avrebbero pensato i pescatori, dalla spiaggia. Tanto poi finivano tutti nella fossa comune dietro l’Istituto di Medicina Legale. La Guardia Nazionale aveva ordini precisi: non devono arrivare in Italia, altrimenti sarebbero saltati gli accordi e soprattutto, i soldi del programma “cooperazione per l’Africa” non sarebbero stati accreditati.

“Adesso stai in piedi, faccia al muro, e se vuoi pisciare ti pisci addosso”. Mentre urlava, l’agente dei Gom, il Gruppo Operativo Mobile della Penitenziaria, istituito nel 1999 dall’allora ministro “comunista” Oliviero Diliberto, spingeva con il manganello puntato sulla schiena. Scaraventando la donna incinta, ferita ad un fianco e mezza svenuta, giù dal cassone, il militare era stato chiaro “Voi adesso dovete morire qui”. Il deserto era diventato una grande cella nascosta. Chi poteva vedere adesso? A chi si poteva chiedere aiuto? “Mettiti a quattro zampe e fai il cane, abbaia, puttana!, che qui non vede niente nessuno, e non puoi chiedere aiuto a nessuno”. La ragazza piena di sangue in faccia e sulle gambe tremava come una foglia. L’unico pensiero era stampato fisso sui suoi occhi: il dolore, la morte. A Bolzaneto non s’era mai vista una “festa” del genere. Non c’erano ordini precisi, ma i grandi capi erano tutti passati in visita, e avevano dato il via libera con grandi pacche sulle spalle ai loro sottoposti. Il medico stesso, il dottor Toccafondi, aveva appeso il camice bianco all’attaccapanni. “Datemi una mimetica, che non voglio sporcarmi con il sangue di questi bastardi”.

Ma la sabbia del deserto, lì, oltre il cancello, confonde ogni traccia. È così bollente che appena tocca la ferita, è come cauterizzarla. E quel caldo, quella distesa di sole sconfinata, lavora instancabile per prenderti ogni goccia di liquido che scorre nel tuo corpo. All’inizio stavano seduti, in cerchio, vicini, mentre le guardie scaricavano gli ultimi. Poi, quando ancora la nuvola di polvere della sgommata del pick up che se ne andava, li avvolgeva, alcuni hanno cominciato a camminare. “Là c’è la Libia”. Le donne ferite, e due mamme con i loro bambini piccoli che avevano smesso di parlare, di piangere, di chiedere e solo respiravano, con gli occhi chiusi, dicevano di no, che non ce la potevano fare. Sarebbero diventate presto una macchia del deserto. Prima ti svuoti dei liquidi, cominciano a uscire da ogni buco del tuo corpo senza che tu possa fermarli. Assomiglia al mare, a quando anneghi, ma è l’esatto contrario. Mentre affondi nell’acqua e vai giù, il liquido vuole entrare, e lo fa mano a mano che scendi, da ogni buco del tuo corpo. Mentre muori nel deserto invece tutto vuole uscire, abbandonare quella situazione. Si crea una macchia attorno a te, e piano piano la sabbia la inghiotte. Poi tocca alla tua carne, ai bulbi oculari, alle ossa. La sabbia adesso sei anche tu. Come Fati, come Marie. “Avanti, zecca di merda, canta faccetta nera”. Bolzaneto, e il deserto. Loro uguali, nel tempo. Noi fratelli tutti.

 

Luca Casarini