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Testimonianze: Ultras, una storia di ordinaria repressione

 

Fonte: Plebe Foggia da Sport alla Rovescia

 

La storia, di per sé, è ordinaria. Una storia di ordinaria repressione, si direbbe, utilizzando una formula inflazionata. Un paio di poliziotti, neppure particolarmente determinati, che bussano alla porta. Qualche attimo per riordinare le idee. La novità: bisogna seguirli in carcere. Un carico pendente, una vecchia sentenza, pretende soddisfazione. Ci sono da scontare tre mesi. È la prima volta. Legittimo frastuono. Una sola telefonata tra i diritti. Un amico, che dia l’avvio al tam-tam. Che divampa subito. “Hanno arrestato Topazio!”. E via di ipotesi: forse hanno bisogno di intimidire per via del fatto che dopodomani c’è Foggia-Pescara allo “Zaccheria”, hanno preso il meno protetto, il più scoperto, il più sgamato. Tesi da provare, perché l’accusa – a primo acchitto – è ridicola. Una firma saltata durante la diffida. Tre mesi di galera. Ferrei, inflessibili come con nessun evasore fiscale o costruttore d’ecomostri sulla spiaggia. Si rifletta. Si riflette.
Un ultras arrestato. Nella scala delle categorie bistrattate, l’ultras precede i brigatisti e i rom. Ma di poco. Si, folkloristici, curiosi, originali, caratteristici. Il fumo delle torce, le coreografie, i tamburi, i bandieroni. Ma basta alzare il vento della politica e vanno giù. A retate. Bastano poche immagini evocative, e lo scenario muta. Affacciati ai finestrini degli autobus a sputare insulti sui malcapitati passanti, intenti a rovesciare cassonetti, a bloccare il traffico, a lanciare pietre, a scontrarsi con le eternamente fuoriposto forze dell’ordine o con i tifosi avversari. Hanno rovinato il calcio, si sente dire. Quel calcio che, prima del loro avvento, era un divertimento puro, pulito, per famigliole e brava gente del Dopoguerra innocente.
Se agli ultras come Topazio si deve il declino, Topazio è colpevole, a prescindere. Per le sue scelte, per il suo stile di vita. E difatti, restano gli amici, quelli veri, quelli che sono come lui. Per il resto, attorno è cordone sanitario: è difficile anche solo parlare di sproporzione della pena rispetto al reato contestato. Non ci sono orecchie che intendano intendere. Una firma saltata diventa peggio di uno stupro, la popolazione si fa ferrea ed inflessibile tanto quanto la magistratura. “Se fosse andato a firmare non sarebbe successo”, dicono i saggi. Pillole del giorno dopo. “Che ha fatto per meritarsi la diffida?”, chiedono – con malcelata malizia – i giusti. Sospettando e pregustando. Pochi, pochissimi sanno cosa sia un daspo. Quali immondi, immorali, indegni atti criminali bisogna porre in essere per meritarselo, per essere allontanato dalle strutture sportive per 3, 6, 12, 24 mesi. Topazio, nello specifico, s’era trovato nel bel mezzo di una danza di guerra con la polizia. Nel 2003. Ma, oggi come oggi, basterebbe accendere un fumogeno.
Sia chiaro, nessun ultras è inconsapevole. Nessuno pretende l’immunità degli onorevoli. Nessuno invoca l’impunità, il diritto allo scontro o sciocchezze simili. Tutti sanno quali siano le regole del gioco a cui hanno scelto di giocare. Il daspo, l’arresto, fanno parte dei danni collaterali. E si accettano, senza frignare o lamentarsi. Senza gridare al complotto. Ma quando la pena diventa ad hoc, quando l’attenzione si fa specifica e si taglia sugli ultras come un abito di sartoria, allora andrebbe sottolineato il dato – minimalista quanto si vuole, ma pur sempre dato – che dietro l’ultras si nasconde il cittadino. E se la prima entità può essere vituperata e crocifissa ai media per ragioni di pressante contingenza, sulla seconda un minimo di dibattito dovrebbe svilupparsi. Beccare tre mesi in piena faccia perché si è omessa una firma, e beccarsi l’obbligo di firma perché diffidati preventivamente, ed essere diffidati perché si è riconosciuti come “violenti da stadio”, e risultare violenti perché una volta, nel 2003 – sette anni e passa fa – si era a fronteggiare la polizia in una serata dove alla fine fortunatamente nessuno s’è fatto male, è o non è un problema di cittadinanza? Nessun elegante elemento della buona società fatta di diritti e doveri scorge, nella filigrana di questo curriculum, un principio di accanimento categoriale? A nessun pedofilo viene preventivamente impedito di frequentare gli ingressi delle Elementari; a nessun costruttore di aggirarsi presso le scogliere o i boschi incontaminati; a nessun omicida di bazzicare case, bar, chiese e teatri. Gli ultras, in questi anni, hanno ingoiato violazioni della privacy (cfr. biglietti nominali), limitazioni al diritto di movimento (cfr. trasferte vietate), misure straordinarie di controllo e repressione (cfr. diffide preventive, segnalazioni, avvertimenti). Ma di stadio come laboratorio del controllo si è già detto a sufficienza (anche perché le limitazioni hanno toccato, a cascata, ogni altro “utente” dell’universo-calcio). Fatto sta che il “caso Topazio” è finito – spray o vernice su stoffa e carta – negli stadi di mezza Italia, sul web, nelle radio. Ma non certo nei luoghi della società civile. Nelle agorà che si dannavano sulla Cirami; nei fori dove si progettava la cittadinanza attiva contro il Legittimo impedimento. Una storia da ultras non è una storia da premier. Una dicotomia che sa di ghetto. Un’incapacità di leggere la realtà minuta che dimostra, meglio di un pamphlet di politologia, lo sprofondo dal quale certe logge ancora provano ad esprimersi/rappresentarsi come “alternative”. E certificano il loro compiuto fallimento.