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AC Pisa 1909, l’ultima vittima dell’intreccio tra calcio e finanza

 

FONTE: Senza Soste

 

Qualche giorno fa il Financial Times, per capire bene lo stato di salute del settore, ha fatto uscire un articolo sulll’ondata di investimenti di fondi cinesi nella Premier League, il massimo campionato inglese di calcio. La preoccupazione del quotidiano finanziario, che da tempo ha certificato la qualità degli investimenti cinesi nel calcio giovanile in casa e nelle serie maggiori in patria e all’estero, era quella di far capire che la maggior parte dei flussi di capitale che arrivano da Pechino in Gran Bretagna sono di qualità e destinati ad incidere positivamente nel business e nel calcio inglese. Questo per tutelare Londra, la maggiore piazza dove si tratta valuta cinese dopo la Cina, dalla cattiva immagine di qualche investimento (diciamo) un po' avventuroso, di provenienza Estremo Oriente.
In Italia ne sappiamo qualcosa con il Pavia, prima acquistato dal Pingy Shanghai Investment, poi fallito in un paio d’anni. Diciamo che dalla Cina arrivano entrambe le tipologie esistenti di fondi finanziari dedicati al calcio: quelle interessate ad investire in una valuta estera che non sia il dollaro, differenziando il paniere di investimenti, ad allargare il business e magari fare know-how e quelle, immancabilmente, interessate solo a fare movimenti di cassa tra più società, fatturare all’interno del gruppo, godere di bonus fiscali. Intendiamoci, quest’ultima cosa la fa Apple, figuriamoci chi va all’avventura. Questo fenomeno di finanziarizzazione del calcio non è nuovo. Ma, ogni volta che presenta i propri aspetti problematici, si manifesta ad ondate diverse. Prima con l’esplosione del valore dei diritti televisivi - trattati, venduti, scambiati da miriadi di società e in portafoglio su tutte le borse mondiali - poi con l’intervento diretto delle banche nel calcio - si pensi alla Liga spagnola che porta il nome di una banca e al rapporto tra istituti bancari e le maggiori squadre del paese - infine con la finanziarizzazione della compravendita dei calciatori. Per non parlare dell’ondata di protagonismo, in pubblicità e sponsorizzazione, dell’industria del betting, le scommesse, che altro non è che finanza ad alto rischio.
Certo dove c’è un Pingy Shanghai Investment all’avventura troviamo una finanziaria di stato, garantita dal governo cinese, che firma un preliminare di acquisto per il Milan; dove ci sono cartellini di giocatori che appartengono a finanziarie artigianali trovi un George Mendes che non sai più se è un broker di alto bordo o un procuratore di star del calcio. Oppure dove ci sono movimenti finanziari - come quelli generati da William Hill - che arricchiscono il calcio, c’è l’industria delle scommesse in nero che lo delegittima e lo impoverisce con le partite truccate in serie. Il punto è che la finanziarizzazione del pallone, in Italia, oltre a contribuire a impoverire il livello del gioco visto che conta più quello di investimento, ha acuito la radicalizzazione dello squilibrio tra squadre di vertice e squadre di città medio-piccole. E le finanziarie che cercano di entrare nelle squadre medio-piccole possono essere sostanzialmente composte non tanto da investitori, attenti alla trimestrale di cassa per soddisfare chi ha investito, ma anche da avventurieri di ogni tipo.
Il caso Parma, acquisito da un gruppo albanese e sostanzialmente collassato dopo quella presidenza, quello del Bari, con l’investitore malese accolto come un eroe in Puglia poi eclissatosi, e tanti altri di piccole società, ci fanno capire i rischi che corre il calcio dei mille campanili: quello di essere un semplice pretesto per società che cercano triangolazioni, fatturazioni, bonus fiscali, trasferimento di denaro, e quindi sparire.
Il caso Pisa ci è sembrato ampiamente all’interno di questo schema, conteso da due soggetti differenti, uno italo-inglese (Britaly Post, per semplificare) e uno italo-arabo (Equitativa, sempre per semplificare). Entrambi, per il tipo di ricerca fatta in rete (tesa a capire le tracce che lascia una società o il suo referente pubblico), non ci convincevano. Nel senso che sembravano il classico soggetto, facente parte di una rete di società o di relazioni, magari più incline a cercare di far fruttare i fondi provenienti dal campionato che a fare un investimento sia economico che sportivo. La città di Pisa, tra questi due soggetti, ha fatto una scelta in questa trattativa e in questa contesa: nettamente a favore del gruppo italo-arabo, appoggiato dall’allenatore della promozione, dai calciatori e dal sindaco. E mica solo a parole: manifestazioni di piazza, assemblee, blocco di una amichevole, blocco della stazione e anche colletta tra imprenditori pisani favorita dal sindaco. Insomma, un tentativo di saldare l’investimento di una finanziaria, proveniente dal Dubai, con energie territoriali e di ogni genere. È andata, finora, in modo diverso: la trattativa per il passaggio dal gruppo italo-inglese a quello italo-arabo, preferito dall’intera città di Pisa, è saltata. Nel frattempo sta saltando però la squadra, senza allenatore e priva di elementi chiave che sono già andati via approfittando della clausola rescissoria, e rischia di saltare anche il campionato. Entro poche settimane, se non pochi giorni a seconda degli orientamenti della federazione, il Pisa rischia di essere radiato dalla serie B. Con la conseguenza dell’ennesima sparizione del sodalizio nerazzuro dal calcio professionistico. Il Pisa, infatti, ha già sperimentato, prima con la fine della storica gestione Anconetani poi col fallimento proprio l’anno del centenario, quanto il calcio assomigli alle peggiore finanza di rischio. Resta in piedi, e qui c’è l’altro lato della storia, la trattativa del gruppo italo-inglese con uno italiano, composto da parenti di esponenti della cordata adesso proprietaria del Pisa e, stando al sito Cascina News, con buone conoscenze in Lega che arriverebbero fino al presidente Abodi. Questo gruppo, che si è formato attorno a Italpol, un’agenzia di vigilanza, è nazionale ma vuol fare quello che fanno le finanziarie: allargare il proprio business in quello di quel mondo fatto di capitali di rischio, ma anche ad alta redditività se ci si sa muovere, che è il calcio. Magari regolando con calma i rapporti, come ricorda la Nazione di Pisa, di credito che ci sono con Britaly.
Certo, acquisire una società di calcio e governarla con un intero territorio contro, e in maniera così esplicita non è cosa facile dato che, specie nel calcio, i rapporti tra territorio e proprietà contano. Il punto è che Pisa si trova a vivere uno degli effetti collaterali del rapporto tra calcio e finanza: l’entrata in affari di gruppi a base estera che intendono capitalizzare le società medio-piccole all’estremo che:
1) o godono il favore del territorio e, per vari motivi sui quali non entriamo, non sono il grado di farlo oppure
2) non godono di questo favore ma sarebbero (all’Italpol è collegata una agenzia di procura calcistica) potenzialmente, e finora solo in astratto, in grado di uscire dall’impasse.
Oltretutto c’è, in questo scenario, l’ennesima crisi di credibilità del calcio italiano. Nel 2015 dopo il caso Parma, una squadra di A mangiata dai debiti come un bue dai piranha, le retoriche del “mai più” si sono sprecate. Nel giro di un anno e mezzo è infatti emerso un caso Pisa. Peggiore del primo perché mentre il Parma, con l’aiuto della federazione, perlomeno il campionato l’ha finito (chiudiamo un occhio sui risultati) il Pisa rischia di non cominciarlo nemmeno. In un altro linguaggio si direbbe che il calcio italiano soffre di una crisi di regolazione, incapace di neutralizzare le criticità e gli scandali. In un altro linguaggio ancora diciamo che, quanto più è debole il movimento sportivo, quanto più questo è subordinato ai flussi dei capitali e alle speculazioni mordi e fuggi, tanto più il calcio è preda di ogni genere di razzie.
In Lega Pro, negli ultimi anni, è accaduto di tutto. Compreso, come da inchieste, il fenomeno delle squadre che si autogestivano i premi, ottenuti con le scommesse clandestine, alterando i risultati della propria squadra. O delle società che scommettevano a Singapore contro loro stesse o sui pareggi concordati. Siamo quindi passati, abbastanza velocemente, dall’epoca di gruppi territoriali, o di interesse nazionale, che investivano nel calcio per motivi di status o di relazioni d’affari, alla presenza di fondi di investimento che hanno altri scopi. Quello di differenziare gli investimenti in valuta, magari diversa dal dollaro o da quella nazionale, nei casi top, e quello di far entrare la società di calcio in un bilancio di gruppo che può anche essere un’avventura, nei casi molto meno top. Il Pisa è incappato in uno di questi casi. L’ultimo solo in ordine di tempo: nonostante le dichiarazioni ufficiali l’intreccio tra calcio e finanza è destinato a fare altre vittime, conosciute e non. Intanto sembra proprio stia toccando al Pisa e nel momento più difficile da digerire: pochi mesi dopo una storica promozione in B.