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I VOSTRI ABUSI SEMPRE IMPUNITI (12/06/2013 - 10° TORNEO ULTRAS "FRANCESCO PER SEMPRE")

 

Anche quest’anno riproponiamo quest’importante iniziativa alla quale teniamo tanto e non perché abbiamo voglia di puntare il dito verso qualcuno, ma perché abbiamo una grandissima sete di giustizia vera, perché desideriamo fermamente che finisca lo schifo che proviamo quando la vita di un cittadino viene spezzata per mano di rappresentanti dello Stato e, un evento di tale gravità, non abbia la stessa giustizia o la stessa rilevanza che si concede a qualsiasi altro caso non rappresenti un abuso di potere da parte di chi dovrebbe, al contrario, tutelare le vite e le esistenze dei cittadini. Siamo delusi, per esperienza “personale”, da quegli organi che dovrebbero garantire giustizia a tutti e riteniamo che solo con una presa di coscienza dal basso si possono realmente cambiare le cose: per questo crediamo nell’importanza di questa iniziativa, perché se anche questa rappresenta solo un altro granello di sabbia nell’arido deserto della disinformazione generale, siamo convinti che possa
comunque servire a smuovere le coscienze di chi ha ancora il coraggio di non girare lo sguardo dall’altra parte e di fermarsi, invece, a riflettere.
Quest’anno abbiamo deciso di raccontare la storia di Aldo Bianzino.
Aldo viene arrestato venerdì 12 ottobre 2007 a Pietralunga, nella sua casa di campagna vicino Città di Castello, per coltivazione e detenzione di canapa indiana e trasferito nella stessa giornata al carcere di Capanne a Perugia, dove deve restare in isolamento almeno fino a lunedì 15 ottobre, quando incontrerà il giudice titolare dell’inchiesta.
Sabato 13 ottobre alle ore 14 il legale d’ufficio incontra Aldo e riferisce alla moglie di averlo trovato in buona salute.
Domenica 14 ottobre, al mattino, la famiglia viene informata che Aldo è morto. Aldo sarebbe morto per malattie cardiache e non presenterebbe segni esterni di violenza; conoscendo Aldo come persona sana, la famiglia non ci crede e chiede l’autopsia. L’autopsia viene affidata al dott. Lalli, un medico legale noto per essere eticamente irreprensibile e dal cui esame risulta che Aldo è morto per cause non accidentali e che il suo cadavere presenta chiari segni di lesioni traumatiche: 4 ematomi cerebrali, fegato e milza spappolati, 2 costole fratturate.
Il giudice Petrazzini (lo stesso che aveva condotto l’inchiesta sulla coltivazione e detenzione di canapa indiana) apre formalmente una indagine per omicidio volontario, ma, a tutt’oggi, l’unico finito sotto processo è Gianluca Cantoro, una guardia carceraria, condannato a un anno e mezzo con pena sospesa, colpevole di omissione di soccorso, falso e omissione di atti d’ufficio. Pena ridicola se confrontata alla gravità del reato. Perché quella notte le cose andarono diversamente da come si ostina a raccontarle la guardia del carcere. Aldo Bianzino non morì all’improvviso per un aneurisma celebrale – come hanno cercato di dimostrare, senza riuscirci, i periti della difesa della guardia carceraria – ma si è spento lentamente e fra atroci dolori per un’emorragia cerebrale detta subaracnoidea, dalla quale avrebbe potuto salvarsi se accompagnato d’urgenza in ospedale. Invece, nonostante le urla e i lamenti del prigioniero – in carcere perché in possesso di alcune piantine di canapa indiana – nessuno corse in suo aiuto. Cantoro finse di non sentire e il medico non arrivò se non per constatare il decesso. Sin da subito, l’agente ha cercato di truccare i registri per camuffare la sua colpa e l’amministrazione carceraria – nel panico per l’accaduto – prima ha creduto alla tesi di un complotto di detenuti contro la polizia penitenziaria, poi alla versione del campanello d’emergenza rotto.I legali e i periti della famiglia Bianzino hanno spiegato con chiarezza in aula, documenti alla mano, che Aldo avrebbe potuto salvarsi vista la vicinanza al carcere di Capanne di un ottimo ospedale, quindi, come precisa il legale Fabio Anselmo, “la negazione del soccorso a una persona imprigionata altro non è che tortura, alla faccia dell’articolo 13 della Costituzione”.
Perché su questo caso si adombrano anche forti sospetti di torture fisiche subite prima del decesso. Sospetti che è stato impossibile verificare, visto che il giudice ha archiviato la faccenda e dunque gli accertamenti incrociati sul legame fra le cause della morte, la colpa del secondino e l’eventuale compartecipazione di chi disponeva delle chiavi della cella. Perché l’agente condannato non le aveva, quindi non c’entra con le botte, tante, date ad Aldo e i cui segni erano evidenti sul cadavere. L’autopsia parlava chiaro: Aldo è morto per cause non accidentali e il suo cadavere presentava chiari segni di lesioni traumatiche. Eppure il pm, Giuseppe Petrazzini, che ha comunque incentrato 65 domande su 120 sulle cause della morte, ha poi rinunciato a dimostrare che Aldo avrebbe potuto essere salvato, evitando quindi di aggravare il capo d’imputazione contro l’agente di polizia penitenziaria che avrebbe previsto il doppio della pena dato che dall’omissione di soccorso è scaturita la morte. Il tutto con il risultato che ai figli di un uomo entrato in carcere in perfetta salute e morto in poche ore non è restata che la rabbia e la frustrazione. La sentenza è un passo avanti verso la Verità, che resta però ancora tutta da appurare.