NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

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DAVIDE LIBERO











La necessità dell’amnistia sociale

 

Appello della Rete cittadina Stop Decreti Sicurezza e diverse associazioni, collettivi, spazi sociali e sindacati di base di Bologna

 

Sono quasi cinquantaquattromila le persone private della libertà che affollano le carceri italiane. Cinquantaquattromila persone costrette a spartire celle già anguste con migliaia di persone in più rispetto alla loro capienza regolamentare, determinando un sovraffollamento che impone una forzata prossimità e che annulla di fatto il rispetto di quella dignità umana che di diritto dovrebbe competere a chiunque.

In questi giorni in cui un’emergenza sanitaria ci impone il confronto con la vulnerabilità dei nostri corpi, dopo aver vissuto le nostre abitazioni come luoghi di reclusione forzosi, non possiamo non rimettere al centro di un ragionamento politico all’altezza della fase chi vive una vulnerabilità e una reclusione più assoluta e disperante: quella di decine di migliaia di persone il cui diritto alla incolumità e alla salute è stato negato, salvo qualche debole misura scarcerativa applicabile solo ad un numero esiguo di reclusi, dal decreto “Cura Italia”.

Ma se ieri si è voluta ignorare l’urgenza delle problematiche carcerarie, l’emergenza di oggi rende indifferibile la necessità di una soluzione.

Se guardiamo dentro questi luoghi reietti con occhi liberi dall’istigazione giustizialista di chi ha avuto interesse a trasformare le problematiche sociali in questioni di ordine pubblico, quello che vediamo è una popolazione socialmente ben definita: a riempire le celle sono i poveri, i marginali, i tossicodipendenti, gli stranieri, i senza fissa dimora, gli attivisti politici che contestano un modello politico ed economico che produce e alimenta iniquità sociale e che autorizza il saccheggio finanziario di beni pubblici e territori.

La composizione sociale della popolazione detenuta ci rende immediatamente manifesta quale sia la funzione oggi affidata al carcere: disciplinare la povertà, contenere la marginalità e ammutolire il dissenso.

Al depauperamento progressivo delle risorse destinate al welfare state, alla crisi finanziaria dell’ultimo ventennio, al conseguente aumento dei cittadini privi di un reddito sicuro, o almeno dignitoso, e delle lotte sociali a questi processi collegate, il carcere è diventata la risposta privilegiata, la principale agenzia deputata al contenimento del disagio sociale e delle difficoltà economiche: laddove non arriva la tutela pubblica interviene la cella.

Sempre più, anche (ma ovviamente non solo) con l’utilizzo di strumenti quali l’Alta Sorveglianza o il regime di 41 bis, il carcere è pensato come un contenitore separato dalla società ed opaco, nel quale gettare tutto ciò che è scomodo, non gradito o non confacente al modello della società del “decoro”, la nuova parola d’ordine che ha informato i decreti sicurezza degli ultimi vent’anni.

La funzione della prigione come reclusorio sociale spiega la relazione apparentemente paradossale tra la costante diminuzione dei reati negli ultimi vent’anni e il costante aumento della popolazione reclusa. Nello scegliere selettivamente la propria utenza, il carcere svela dunque la verità della propria funzione: non un luogo destinato alla rieducazione e alla risocializzazione del condannato, come vorrebbe un alibi formale che non regge più e la cui legittimità è sempre stata e resta discutibile, ma un non luogo sordido, spesso fatiscente, nella cui miseria materiale stipare il disagio e reprimere il dissenso.

Nelle ultimi mesi questi non luoghi derelitti sono stati lo scenario di episodi balzati alle cronache dei media ma non all’attenzione del governo. Il diffondersi del panico tra i reclusi a seguito delle allarmanti notizie relativi alla pandemia da Covid19 e le ulteriori restrizioni imposte ai detenuti, hanno portato ad una serie di rivolte che hanno investito le prigioni di tutto il Paese.
I morti, i feriti, i trasferiti (di molti dei quali neppure le famiglie, dopo diversi giorni, hanno potuto avere notizie) causati da queste sommosse e le relative ritorsioni contro i detenuti individuati come rivoltosi, ci urlano che non si può più attendere, e che è ormai indifferibile una decisione che serva realmente a svuotare la carceri – senza dimenticare le strutture detentive per stranieri (CPR) – e sia l’inizio di una seria e rinnovata discussione sulla finalità della pena e sul senso che il carcere può avere nella attuale società.

E’ allora giunto il momento non solo di parlare di un provvedimento di amnistia ma di adottarlo, e di farlo subito. Un provvedimento che vada al di là del ridottissimo effetto dei recenti interventi emergenziali, e che consenta di guardare con lucidità, oggi, in tempo di pandemia sanitaria, alla pandemia penalistica che ha fagocitato la giustizia italiana negli ultimi decenni, spostando nelle carceri gli effetti della crisi economica e della incapacità della politica di farsi anche mediazione.

Effetti, non da ultimo, che l’emergenza sanitaria di oggi, con le gravissime ripercussioni che avrà nel breve e nel lungo periodo sull’economia generale del nostro Paese, ricadranno su una fascia sempre più ampia di soggetti sociali, destinati ad ingrossare le fila già affollate degli indigenti.

Per questo riteniamo che un urgente provvedimento di amnistia riguardi tutti: nell’immediato oggi chi rischia di morire in cella e nel prossimo domani chi rischia di ritrovarsi il carcere come unica risposta ai problemi sociali che questa ennesima crisi è destinata ad inasprire.

È necessario mettere in campo un’iniziativa politica, culturale e sociale per contrastare quel clima di “panico morale” seminato per giustificare le logiche giustizialiste e manettare che hanno prodotto l’attuale ipertrofia penitenziaria e la penalizzazione del conflitto sociale; per contrastare il “populismo penale” che si ripromette, senza andare troppo per il sottile, di risolvere i problemi sociali del neoliberismo a colpi di codice penale, lasciando però irrisolte le contraddizioni che produce.

Quello stesso populismo che confida ciecamente nello stato e nei suoi apparati e che nega ogni forma di garantismo, considerato un inutile orpello politically correct quando si tratta di applicarlo ai soggetti più deboli ma la cui legittimità viene poi invocata quando serve ad assicurare impunità ai soggetti più forti.

Così, infatti, i decreti sicurezza Minniti/Salvini (poi diventati legge) hanno prodotto dettami pervasi da una logica emergenziale, cuciti su misura delle diverse dinamiche sociali. Ci sono normative specifiche per i migranti; ci sono quelle per gli scioperanti; ci sono quelle per chi occupa le case o gli spazi sociali; ci sono quelle per chi va allo stadio; ci sono quelle per chi manifesta nelle strade e nelle piazze; ci sono quelle per chi critica con parole e scritti le azioni dei governi e delle classi dirigenti.

Se non vogliamo lasciare le sfide che ci aspettano nell’immediato futuro alla politica della repressione e della punizione occorre l’intervento di una cultura capace di raccoglierle e di rilanciarle in un nuovo paradigma sociale di cui la richiesta di amnistia può farsi punto di partenza.