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“Mio figlio stava male, nessuno mi ha aiutato”

 

FONTE: Corriere del Trentino

 

«Se chiudo gli occhi rivedo ancora tutto. La pistola che si alza, mio figlio che cade a terra come un sacco». Annamaria Cavagna — la madre di Matteo Tenni, il 44enne ucciso venerdì dal colpo di arma da fuoco esploso da un carabiniere — alterna momenti di estrema lucidità al pianto sommesso e composto che a tratti interrompe la conversazione: «Sono corsa fuori per raggiungerlo, vedevo il sangue uscire dalla gamba, il rivolo per terra».

Annamaria Cavagna si è subito qualificata: «Sono sua madre, sono un’infermiera, fatemi passare. Ma mi hanno tenuta fuori, sulla strada. Imploravo che intervenissero per fermare l’emorragia, che mi lasciassero intervenire per rianimarlo. Stava morendo — aggiunge con la voce rotta e flebile — vedevo che via via diventava sempre più bianco. Sono sua madre, fatemi passare, fatemi toccare mio figlio ancora caldo. Lasciate che gli dica almeno ciao».

Il rimpianto più grande della madre è quello di non averlo potuto avvicinare negli ultimi minuti di vita suo figlio Matteo: «Tieni duro, gli urlavo mentre i carabinieri mi tenevano lontana. Neanche dopo mi hanno permesso di toccarlo. Lo guardavo dal balcone, mi dicevano di entrare, che non sono scene da vedere: ma sono sua madre». Lo sfogo si ricompone, Annamaria Cavagna cerca altre prospettive per guardare alla tragedia di venerdì: «Avevano paura anche i carabinieri, lo so, l’ho visto anch’io mentre colpiva con l’accetta la loro macchina, ma potevano mirare a un piede. E poi lo conoscevano, sapevano che Matteo era buono».

Era però malato. «Aveva una patologia psichiatrica — conferma la madre, che seguiva anche i corsi di mutuo aiuto per genitori con figli con disagio psichico — e in questi giorni non stava bene. Il giorno prima — racconta Annamaria — mi sono accorta che era più agitato del solito. Sono andata da suo psichiatra per fargli presente che era scompensato. Gli ho detto che sono disperata, che dovevano ricoverarlo. Ma niente, sono uscita piangendo».

E anche un mese prima la madre di Matteo avrebbe cercato invano l’intervento del servizio di Salute mentale: «Era tornato a casa con un occhio pesto, aveva fatto a botte ed era andato al pronto soccorso per farsi medicare. E così ho chiamato il maresciallo dei carabinieri per chiedergli un aiuto», per chiedergli di chiamare anche lui i medici per procedere con un ricovero approfittando della presenza di Matteo in ospedale. «Era d’accordo, anche secondo lui non stava bene. Ha chiamato, ma non c’è stato alcun ricovero».

Quel giorno della scazzottata Annamaria Cavagna lo ricorda bene: «Era l’otto marzo, era andato a prendermi le mimose. Ma gli avevano rubato lo zaino con dentro i fiori e anche la spesa. Mi fece vedere lo scontrino, per dimostrarmi che davvero aveva comprato le mimose per sua madre». Tra i due c’era armonia, seppur dentro un rapporto segnato dal disagio psichico: «Tutte le mattine si alzava e mi dava il buongiorno con una carezza sulle spalle. Poi qualche volta era arrabbiato e mi diceva che non capivo niente. Ci volevamo bene».

Annamaria guarda fuori dalla finestra, verso il balcone da dove venerdì ha visto morire suo figlio. Piange. Poi racconta: «Io ero qui, ho visto tutto». La madre di Matteo racconta la sua versione, rivivendo gli attimi brevissimi in cui si è consumata la tragedia. Ma fa un passo indietro, al pomeriggio, quando Matteo prende la macchina per andare a fare la spesa ad Ala: «Credevo andasse a piedi, perché gli avevano sospeso la patente. Ma ha preso la macchina, cosa potevo fare io. Era andato a prendersi il tabacco, eccolo lì», e lo indica sul tavolo della cucina, vicino al portafoglio, alla carta di identità di Matteo. I pochi effetti personali che aveva addosso venerdì quando è morto. Il ritorno a casa poco dopo, verso le 18: «Ho sentito un rumore — continua Annamaria — e ho visto i carabinieri con la macchina dentro il cancello, qui sotto al balcone». La signora esce sul balcone, guarda in basso dove rimangono i vetri infranti dell’auto colpita con l’accetta e la segatura che ancora assorbe il sangue versato da Matteo. «L’ho visto uscire con l’accetta dal garage e ho gridato: Matteo no, Matteo no». Ha visto il figlio scagliarsi contro l’auto: «Ma i carabinieri erano fuori — assicura — l’ho detto anche al maresciallo». Poi una frazione di secondo, lo sparo, il corpo che cade: «Ha rotto il vetro dell’auto e sulla rampa verso il cancello aperto erano in due. Uno ha sparato diritto, in orizzontale, mentre Matteo stava ancora con l’accetta in aria per colpire l’auto. Per colpire l’auto che era vuota — sottolinea — non i carabinieri che erano fuori».

La corsa per raggiungerlo, per implorare di passare per intervenire e rianimarlo: «Mi hanno detto che avevano messo un laccio attorno alla gamba ma bisognava tagliare i pantaloni, agire sulla vena poplitea, fare pressione con le mani. Sono un’infermiera, ho gridato, lasciatemi passare. Sono sua madre, ho gridato, fate passare una madre che implora di toccare il corpo del figlio ancora caldo, lasciate che gli possa dire ciao».

 

Donatello Baldo