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La Passione di Marouane. L’altro Cristo della ‘Mattanza’

 

FONTE:openmigration.org

 

Marouane Fakhri era un ragazzo marocchino, tra le vittime della rappresaglia a freddo operata da alcuni reparti della polizia penitenziaria, dopo le proteste delle persone detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell'aprile del 2020, per la paura del contagio epidemico di Covid-19. Trasferito prima nel carcere di Ariano Irpino e poi in quello di Pescara. Qui si era riuscito a reintegrare, venendo selezionato per seguire un corso di formazione da operatore socio-sanitario e continuando gli studi per conseguire il diploma. Eppure, proprio in questo carcere, il ragazzo si è dato fuoco per poi morire due mesi dopo all'ospedale di Bari. Luigi Romano racconta di questa storia.

 

 

Nelle prime pagine della Guida alla procedura penale, Cordero definisce il processo una ‘macchina complicata’ la cui analisi richiede ‘arnesi adeguati’. Al di là delle finalità della ‘meccanica processuale’, uno degli effetti indotti del congegno è il raffreddamento del conflitto provocato dalla condotta di reato. La ricomposizione della ferita avviene all’interno di un rituale che segue schemi precisi per riaffermare gli interessi dell’ordine costituto. In tal senso, il tempo del processo gioca un ruolo non trascurabile, infatti nel caso della ‘Mattanza’, sta trasformando il collasso umano e istituzionale del carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 in una asettica partita di scacchi.

In quel giorno di aprile, circa 300 agenti, reclutati tra i reparti della polizia penitenziaria dell’istituto casertano, del nucleo traduzione del carcere di Secondigliano e del Gruppo di Intervento Rapido (istituito in quei mesi per sopperire alle difficoltà dell’emergenza pandemica), sono entrati nel reparto Nilo dove sono reclusi i detenuti comuni (le sezioni del carcere ‘Francesco Uccella’ prendono il nome dei fiumi: Nilo, Tevere, Volturno…) dando vita ad una violentissima rappresaglia a freddo. L’obiettivo degli agenti intervenuti in accordo con gli apici di comando dell’amministrazione, secondo la tesi avanzata dalla Procura della Repubblica, era di terrorizzare i detenuti di questo padiglione in fibrillazione per la paura del contagio epidemico. Per questi eventi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere è impegnata a verificare la responsabilità penale di 105 imputati.

Tuttavia, nel corso della ricostruzione dibattimentale irrompono nello spazio sterilizzato alcune vicende che per la loro forza distruttiva intrinseca sono capaci di riprodurre la vertigine dell’implosione. Quando sono state proiettate le immagini della videosorveglianza del carcere che ritraevano Marouane, il clima nell’aula bunker è diventato subito teso. Fakhri era nato in Marocco il 16 agosto 1993, era stato trasferito dall’istituto di Velletri ed era recluso al Nilo da pochissimi giorni, il reparto dei comuni oggetto della ‘perquisizione straordinaria’ del 6 aprile. Il giovane marocchino era recluso nella cella n. 12 e dal rumore dei passi pesanti e dal numero degli agenti in tenuta antisommossa aveva capito che quel giorno si stava per compiere un massacro. Quando una squadra di agenti entrò nella sua cella il ragazzo per la paura non riuscì a trattenere l’urina e si inginocchiò come atto di clemenza, come un prigioniero che si consegna al nemico.

Attraversò come tutti il corridoio umano di agenti, prendendo un numero considerevole di calci, schiaffi, pugni, correndo fino alla sala della socialità. Si legge nel decreto che ha disposto il giudizio: «… giunto nella sala ricreativa, ove vi era già un numero non inferiore a venti detenuti, tutti ristretti presso la prima sezione del reparto Nilo, in ginocchio e con le mani e testa appoggiati al muro, dopo essersi inginocchiato per la paura di aver constatato la presenza ivi del _____, che nei giorni precedenti lo aveva percosso, quest’ultimo, munito di scudo e manganello. Dicendo “questo è mio, questo è una crema buona… è il uappetiello di Velletri”, unitamente ad un collega, anch’egli armato con scudo e manganello, intimava al Fakhri di mettersi al muro, che obbediva, strisciando in ginocchio a terra, sotto i colpi inferti con manganello».

Come anticipato, la scena è stata ripresa dalle telecamere del circuito di videosorveglianza, quindi proiettata in udienza nel corso dell’escussione del Carabiniere Medici ascoltato dalla Corte come teste dalla Procura. I Pubblici Ministeri hanno sottolineato come «la scena immortalata in quel minuto appare in tutta la sua atroce violenza»: Fakhri colpito ripetutamente e costretto a strisciare. L’immagine di quel corpo, ridotto in ginocchio al cospetto dell’autorità, è esplicativa del senso dell’intera operazione straordinaria cominciata alle 15.30 del 6 aprile.

Dopo gli episodi della Mattanza, Marouane fu trasferito nel carcere di Ariano Irpino. Forse sulla base di un processo di rimozione più che di elaborazione delle violenze, Fakhri trovò la forza di proiettarsi oltre alla carcerazione. Nell’istituto avellinese, anche grazie all’ausilio delle figure professionali incontrate, coltivò la speranza di costruire una vita dopo la detenzione. Appassionato di letteratura, curioso di ogni stimolo esterno, frequentava assiduamente i corsi scolastici fino ad impressionare i docenti e il personale dell’amministrazione perché rifiutava di presentare istanza di liberazione anticipata temendo di non riuscire a terminare gli studi. Il trascorso nel carcere sammaritano emergeva pochissime volte, le persone che lo hanno incrociato ricordano che non amava parlarne.

Dopo la notifica delle misure cautelari agli agenti indagati e condotti in seguito a processo dalla magistratura inquirente si presentò il problema di convivenza tra denuncianti e denunciati nello stesso ‘circuito penale’.

In relazione a tale circostanza, per evitare che le vittime potessero subire ritorsioni da parte del personale di polizia, vennero trasferiti fuori regione 44 detenuti. Tra questi vi era anche Marouane che giunse nella casa circondariale di Pescara.

Quando le relazioni istituzionali consentono un dialogo continuo tra le complesse branche del sistema che intervengono nell’esecuzione della pena-misura e le condizioni di vivibilità dell’istituto sono minimamente accettabili, il trasferimento pesa di più sulle spalle del detenuto costituendo un cambiamento radicale. Bisogna ricominciare da capo: conoscere le persone che sono in stanza, capire le dinamiche interne dell’istituto e della sezione, valutare se è possibile continuare il percorso di cure, di lavoro o di studio e, quando il soggetto è ‘definitivo’, è necessario intraprendere un nuovo rapporto con la magistratura di sorveglianza. Anche per i familiari comporta una diversa pianificazione degli spostamenti. Sono delle variabili che possono sembrare scontate ma nella fase attuale di crisi strutturale del sistema penitenziario, anche un semplice trasferimento (di pochi chilometri) potrebbe cambiare il corso degli eventi.

Marouane conosceva il mondo carcerario e queste perplessità lo avranno certamente interrogato. Infatti, il primo periodo nella Casa Circondariale di Pescara non è stato semplice. Tuttavia, il ragazzo era così determinato che riuscì in poco tempo a riadattarsi al nuovo contesto istituzionale. La direzione dell’istituto lo selezionò per seguire, in art. 21 O.p., un corso di formazione per la qualifica di operatore socio-sanitario. All’esterno continuò a studiare seguendo i corsi serali per conseguire il diploma e grazie alla passione per la scrittura e per lo studio dell’italiano era stato selezionato come partecipante ad un concorso di scrittura.

Da questa storia (conciliante rispetto ai sentimenti violenti e punitivi che affogano le nostre comunità, strumentalmente pubblicizzabile all’esterno delle mura circondariali per l’immagine funzionale della pubblica amministrazione) ci si aspetterebbe soltanto un lieto fine. In fondo, Fakhri era riuscito a risollevarsi più di una volta, nonostante gli orrori subiti.

Eppure, per isolare il finale di questa storia siamo costretti a ritornare nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in mezzo alle campagne di Teverola a ridosso dell’interporto logistico che consente la distribuzione delle merci in tutta l’Italia meridionale. Tra le pagine di questo processo c’è la fine della storia.

All’udienza del 31 maggio 2023, un avvocato di parte civile prende parola: «Presidente, ne approfitto dell’organizzazione solo per comunicarvi che l’avvocato Lucio Marziale, che difende la posizione della parte civile Fakhri Marouane mi ha appena notiziato, quindi mi sembra opportuno notiziare anche la Corte qui, che il suo assistito purtroppo si è dato fuoco in carcere a Pescara. È in condizioni gravissime, tanto gravi che è stato trasportato in eliambulanza sabato a Bari, dove attualmente è ricoverato». Un’istituzione in caduta ripida segna traiettorie non sempre prevedibili, tenta grottescamente di recuperare l’ordine del discorso, ma si ritrova a rompere argini sempre più estesi e ripercorrere continui crolli. Il giovane Marouane è morto dopo due mesi di agonia nell’ospedale di Bari, aveva quasi la totalità del corpo ricoperto da ustioni.

Cosa è successo nell’Istituto di Pescara quel giorno? Quali equilibri si sono modificati affinché Fakhri compisse un gesto simile? Con quali modalità si è dato fuoco? La carne del ragazzo ha bruciato per un intervallo di tempo considerevole, quando è stato soccorso? I familiari hanno depositato un esposto alla Procura della Repubblica competente affinché indaghi sulle ragioni del decesso. Anche Antigone ha interrogato con un esposto l’Ufficio di Procura per chiarire le cause della morte affinché le membra del giovane Marouane lascino traccia e non siano inghiottite dal vuoto abituale generato dal crollo del sistema.

Dopo Hakimi, morto nelle celle di isolamento del carcere di Santa Maria Capua Vetere, anche di Marouane non possiamo conoscere altro. Sul corpo di entrambi sono state scritte le identiche violenze. È possibile soltanto immaginare cosa sarebbe potuto accadere… e a proposito di questo prendo in prestito le parole di uno scritto di Marouane: «… ho iniziato a spolverare dei ricordi scolpiti nella mia memoria. Alzavo la testa per sembrare un bravo ragazzo, poi scivolavo con lo sguardo che non sapeva dove appoggiarsi, a volte nel vuoto. Ed ad ogni mia breve rivelazione di dolore, veniva disegnata sulle loro facce un’espressione che oscillava tra la tristezza e una profonda malinconia. Sembravo una vecchia zingara in qualche circo che ipnotizzava chi la guardava. Al posto della palla di vetro, usavo delle parole sciolte, e chi mi ascoltava mi prestava lo sguardo, per poi iniziare un suo proprio viaggio nella sua immaginazione. Come se l’immedesimazione nei miei guai desse a chi ascoltava la possibilità di rivivere qualche emozione sepolta nei suoi ricordi sfocati. Come se cercassero qualche verità, qualche dolore che non sono in grado di affrontare. Come se fossero prigionieri della realtà. Come se fantasticare nell’immaginazione fosse l’unico modo per essere liberi».

 

Luigi Romano