NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

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DAVIDE LIBERO











Dopo Genova sorge spontanea una domanda:possibile che in Italia nessuno trovi il coraggio per dimettersi?

 

"Ci siamo persi le litanie, lo stracciamento delle vesti da parte dei soliti professionisti televisivi impegnati nel commentare quanto successo a Genova ieri sera. Ce li siamo persi per un motivo semplice. Eravamo lì, a Marassi, e abbiamo visto con i nostri occhi, senza i filtri più o meno voluti delle telecamere. Ce li siamo persi fortunatamente. A quanto ci hanno riferito, i commentatori, tra le perle di saggezza regalate, hanno persino sostenuto che le tre dita alzate dei serbi volevano significare che rischiavano la sconfitta per tre a zero e non il loro classico saluto che sta a significare Dio, Patria, Famiglia. Non ci siamo persi però il tentativo penoso di scaricare le responsabilità per quanto successo. Che sono enormi e che, nulla levando alla criminale ferocia dei supporter serbi, cadono sui gestori dell’ordine pubblico. Stiamo parlando di una gara clamorosamente fallita sotto tutti i punti di vista.
A partire dalla scelta del campo, quello di Genova, assolutamente inadeguato sia per quanto riguarda l’ubicazione che per la struttura del settore ospiti. Chi era a Genova ieri sera non ha nemmeno per un minuto pensato che potesse essere giocata la gara. Il settore ospiti era strapieno, al punto da mettere in dubbio il fatto che tutti i serbi avessero un regolare biglietto. Dentro era entrato di tutto. Bengala, raudi, mazze, tronchesine. Questo mentre negli altri settori gli steward chiedevano agli italiani di gettare il tappo delle bottigliette. In campo, a distanza di pochi secondi, è iniziato a volare di tutto, con alcuni supporter a cavalcioni dei vetri di protezione che iniziavano a tagliare la rete che impedisce il lancio degli oggetti in campo. Di polizia, sul terreno, nemmeno l’ombra. Ci sono voluti almeno quindici minuti perché i responsabili dell’ordine pubblico si rendessero conto che gli steward in campo potevano fare ben poco se non ferirsi, come è successo, con alcuni degli oggetti lanciati. Il tutto era stato preceduto dal vero e proprio caos provocato in centro nel pomeriggio e per il quale lo stesso sindaco del capoluogo ligure si era lamentato con il questore. Tutto sotto controllo, la risposta del numero uno dell’ordine pubblico. Si è visto. E si è continuato a vedere per ore sino a notte fonda. Quello che era chiaro è che, una volta dentro lo stadio, con controlli assenti, era impossibile andare avanti e persino intervenire. Lo sparuto gruppo di poliziotti mandato in campo è sembrato composto da vittime sacrificali agli occhi delle telecamere: forse pensavano potessero fermare i serbi con lo sguardo esponendoli agli insulti e al lancio di oggetti. Erano impossibilitati a fare tutto. A caricare nel settore sia per la sproporzione (a proposito, non bevetevi la panzana di chi dice che su circa duemila persone erano solo pochi gli scalmanati, del resto è politicamente scorretto generalizzare, si sa), sia perché non c’erano vie di fuga. Caricare avrebbe potuto voler dire mettere a repentaglio la vita dei poliziotti, dei serbi e degli altri tifosi dei settori accanto. C’erano davvero i presupposti per un dramma. E giusto per completare il quadro sulla gestione dell’ordine pubblico a un certo punto, in preda alla totale improvvisazione, è stato pensato di annaffiare i serbi con gli idranti forse per aprire la strada a una carica. I pompieri hanno steso gli idranti, poi è arrivato il contrordine. Non solo. Al piano di sopra altri tifosi serbi hanno provato a sfondare la barriera in vetro di separazione con la tribuna centrale. Un tentativo che è andato a un soffio dal riuscire. I tempi di reazione delle forze dell’ordine? Circa dieci minuti. Dopo circa dieci minuti in quel settore dello stadio è arrivato un drappello di carabinieri. Poche decine. La sensazione, confermata, dalla necessità di chiedere immediati rinforzi da Milano e Torino, è che l’evento sia stato sottovalutato e a poco vale lo scaricabarile sulla polizia serba. Non lo diciamo solo noi. Ecco uno dei primi lanci Ansa di ieri sera: “Non sono in gran numero gli agenti allo stadio. Anzi tra loro spicca una signora commissario in giubbino con paillettes, pantacollant e stivali tacco 9: alla quale prudentemente fanno mettere un casco in diretta tv mentre i suoi colleghi provano a fronteggiare inutilmente i tifosi che con cesoie continuano a tranciare la rete di protezione del campo”.
Disarmanti le parole che abbiamo udito da un poliziotto disperato fuori Marassi che levandosi il casco chiedeva agli italiani presenti: “Ve lo chiedo da operaio: vi prego, almeno voi andatevene, non sappiamo più cosa fare”. Eppure si sta tentando con la solita operazione mediatica mostrata in altre circostanze di mettere in luce l’evitata invasione di campo, oppure che l’incappucciato a capo degli ultrà è stato arrestato in nottata (dopo avergli fatto fare di tutto). O ancora che erano criminali veri e propri e che poteva andare anche peggio. E invece è stato tutto tardivo, nonostante per capire chi fossero queste persone bastasse andare su google; per sapere che hanno ammazzato dei tifosi bastava leggere i giornali; per comprendere che era una partita a rischio altissimo per i rapporti che gli italiani hanno con tutte le tifoserie dell’ex Jugoslavia era sufficiente conoscere un minimo la storia dall’avvento di Tito in poi; per non parlare di quanto accaduto solo pochi giorni fa in Serbia nella gara precedente dell’Europeo e per le strade di Belgrado. La realtà è una sola i serbi non volevano far giocare la partita. E ci sono riusciti. Hanno vinto loro questa volta. E di questo dovrebbero tenere conto chi aveva responsabilità. Troppo facile vietare la trasferta ai tifosi ospiti senza tessera di Fortitudo Fabriano - Biagio Nazzaro Chiaravalle o di Forza e Coraggio – Turris. Onori e oneri si suole dire. In Italia è proprio impossibile assistere all’assunzioni di responsabilità seguite dalle dimissioni? E poi ci chiediamo perché le istituzioni affondano. E’ una palude. Una terribile palude. Ieri sera era a Genova. Vicino al fiume Bisagno.

 

Fabrizio Vincenti