Nel 2004 Aurelio De Laurentiis acquista a un prezzo di favore quel che resta della società calcistica che rappresenta la città di Napoli. È costretto a utilizzare per qualche anno un nome diverso rispetto alla storica dicitura Società Sportiva Calcio Napoli, ma è nel solco di quella tradizione che si colloca la sua azienda. Il suo progetto, però, parte da zero, contando su gigantesche potenzialità di crescita.
De Laurentiis ha amministrato in questi anni la sua impresa raccogliendo il massimo con uno sforzo economico contenuto (zero investimenti, per esempio, in termini di strutture o per la costruzione di uno stadio, mentre continua a usufruire in convenzione di quello vecchio, a dispetto di un grosso debito mai saldato al comune di Napoli). Anche nel rapporto con i tifosi ha agito come se la sua fosse un’azienda di vendita materassi o di grande distribuzione: il tifoso è un cliente, e nel rapportarsi con questi clienti De Laurentiis persegue fin dall’inizio le leggi che regolano i rapporti del mercato.
Un sottoinsieme all’interno di questo ambito, però, meritava un approccio più aggressivo: il tifo organizzato. Nel suo (non) rapporto con i gruppi ultras De Laurentiis ha messo sul piatto della bilancia i pro e i contro: da un lato, il supporto incondizionato alla squadra e quindi una certa cifra assicurata in termini di incassi anche nei possibili momenti difficili; dall’altro, la contestazione delle regole, le intemperanze con le forze dell’ordine e i tifosi avversari, le conseguenti multe e squalifiche per la società, e così via. In più, se consideriamo che una parte ormai scomparsa del tifo organizzato napoletano aveva scritto pagine opache in termini di clientele con la vecchia società di Corrado Ferlaino, De Laurentiis ci ha messo poco a decidere che non solo voleva fare a meno di quella parte di tifosi, ma anzi avrebbe fatto di tutto per liberarsene, iniziando una vera e propria guerra di posizione.
Chi, troppo banalmente, sostiene che gli ultras contestino De Laurentiis perché non gli paga i biglietti e i viaggi, dimentica che per i primi anni, nonostante il muro alzato dalla società nei loro confronti, il presidente non ha quasi mai subito contestazioni. Queste sono montate col tempo, sulla base soprattutto di due ragioni. La prima sono le uscite pubbliche del presidente, che di volta in volta ha definito i supporter organizzati come drogati, camorristi, tossici, pregiudicati, reietti, e così via, non nascondendo la volontà di poter gestire, un domani, uno stadio piccolo, per élite e turisti, sul modello americano, in cui il tifoso è uno spettatore e mai un protagonista dell’evento; la seconda è stata il rifiuto di accollarsi gli sforzi economici necessari a conquistare l’agognato scudetto, nemmeno quando questi sforzi sarebbero stati di poco superiori a quelli effettivamente compiuti. De Laurentiis, in effetti, non ha mai nascosto di essere più interessato ai “piazzamenti” in Champions League, che ai “titoli” come la vittoria del campionato, meno remunerativa economicamente.
Con gli anni del Covid, che hanno mostrato al mondo un modello di calcio desolante, ma per altri foriero di prospettive interessanti (un campo, ventidue giocatori, decine di migliaia di sediolini vuoti e milioni di persone alla tv), con le contestazioni sempre più forti e nuovi episodi di violenza tra tifosi in giro per l’Italia e l’Europa (dovuti anche al fatto che molti appartenenti ai gruppi organizzati hanno ricominciato a viaggiare, dopo avere sottoscritto quella Tessera del tifoso che doveva in teoria servire a contenere le intemperanze), il conflitto tra De Laurentiis e gli ultras napoletani si è fatto estremo. Le mosse della società, di concerto con le autorità di polizia, sono state di ulteriore chiusura e repressione: la promulgazione di un severissimo Regolamento d’uso per l’introduzione di materiale di vario genere all’interno dello stadio, una politica aggressiva nei confronti di chi disobbediva alle regole, provvedimenti Daspo persino per chi sostava sulle scale della gradinata, prezzi sempre più alti dei biglietti, con l’obiettivo di eliminare anche solo l’idea di aree dello stadio (le curve, gli anelli inferiori) destinate a una fruizione popolare.
La reazione del tifo organizzato a questo progetto a dire il vero assai lineare (a cui si è accompagnata la repressione politica e giudiziaria, a livello nazionale, inaugurata già molti anni fa), non è stata troppo lucida. L’impressione è che i gruppi di tifosi stiano facendo una certa fatica a rendersi conto dei cambiamenti in corso. Fino a qualche anno fa chi frequentava il San Paolo, anche non identificandosi negli ideali ultras, era disposto a riconoscere loro un ruolo di leadership all’interno delle curve. Oggi sembra non essere più così, e anche la fascinazione per quel modo di vivere lo stadio sembra sparita, lasciando i suoi alfieri in una posizione di isolamento. Un isolamento emerso in occasione dell’ultimo Napoli-Milan, quando dalla galassia social è venuto fuori tutto il livore (ma anche la superficialità e il pregiudizio) da parte dei tifosi comuni nei confronti degli ultras, che avevano protestato restando in silenzio durante una delle partite più importanti dell’anno.
Anni fa, probabilmente, le posizioni sarebbero state diverse, ma questo non c’entra con lo stadio e con il Napoli e va forse collocato in un ragionamento più ampio. Anche il tifo infatti, come il calcio ben prima, è stato progressivamente fagocitato dal mercato. Lo vediamo a Napoli in queste settimane, con la gioia popolare indirizzata verso pratiche di consumo compulsivo, col tentativo di vendere qualsiasi merce colorata d’azzurro con sopra lo scudetto, con le modalità di occupazione dello spazio urbano tollerate solo se legate alla commercializzazione di un prodotto (il Napoli scudettato), che va spremuto al massimo, anche perché durerà appena qualche mese.
Da un lato, tutto va reso vendibile e capace di attrarre, tra folklore (le pizze colorate, le bare delle altre squadre, gli striscioni con i doppi sensi in dialetto) e moda (gli spritz, i QR code, le grafiche personalizzate per i turisti); dall’altro, è percepibile da parte delle autorità la tensione legata alla necessità di governare questi processi in modi più stringenti, via via che si avvicinano i giorni della festa. Da qui gli appelli imploranti, da parte di sindaco e assessori, a non dipingere più le strade di azzurro, o le proposte di una festa a “numero chiuso” in piazza Plebiscito, e ancora le task force che preparano una militarizzazione della città che rischia di creare solo tensioni, in giornate che vedranno masse di persone di ogni tipo riversarsi per le strade per una festa attesa da trent’anni.
In relazione con lo spazio ci sono infatti le persone. In una società assuefatta all’accettazione passiva delle norme più ottuse (la pandemia lo ha mostrato con evidenza), e desiderosa di allontanare da sé tutte le pratiche e i soggetti “indesiderabili”, la frattura è destinata ad allargarsi. Prima e dopo Napoli-Milan tutto ciò si è visto con chiarezza. Fino alle sei del pomeriggio, la protesta degli ultras contro il regolamento d’uso e il caro biglietti fatta a piazzale Tecchio era considerata civile e persino bella (perché scenografica e fotografabile). Due ore dopo, quella silenziosa all’interno dello stadio ha provocato invece reazioni sdegnate (complice una scazzottata tra gruppi diversi per divergenze di vedute rispetto alla protesta) e sono culminate in uno shitstorming con le solite accuse via web, mutuate dalla vulgata presidenziale e giornalistica: camorristi, volete i biglietti gratis, vendete la droga in curva e così via.
Su questo terreno la stampa cittadina nell’ultima settimana ha giocato a carte scoperte. Gli esempi sono tanti e vanno dalla confusa campagna del Mattino sul regolamento d’uso, ai pezzi provocatori del Napolista. Nel primo caso, si è cercato di far credere ai lettori che tutto quello che dicono gli ultras sul regolamento del Maradona sia falso, che esistono moduli e domandine (come quelle delle carceri!) per introdurre il materiale all’interno degli stadi, senza mai menzionare le ragioni – giuste o sbagliate che siano – che spingono i tifosi organizzati a non voler giocare con quelle regole (per esempio il controllo sugli innocui fumogeni colorati o sui più pericolosi petardi, ma anche su megafoni e bandiere, oltre alla censura sugli striscioni, che sono il modo con cui da sempre i tifosi comunicano il loro favore o sfavore verso qualcuno). Il tutto condito da una serie di notizie false diffuse dal Napoli calcio e dalla questura, sbugiardate in poco tempo dai gruppi organizzati del tifo azzurro e persino di quello milanista.
Ancora più espliciti gli articoli del Napolista, che se non altro hanno il pregio, rispetto ai principali quotidiani cittadini, di esibire con fierezza, senza complessi, l’intolleranza e l’odio di classe verso i comportamenti non conformi dei proletari, eterno fardello che la borghesia napoletana è condannata a portarsi dietro nella sua aspirazione, sempre delusa, a vivere in una città “normale”; una posizione, al di fuori del contesto locale, che ricalca banalmente i processi di colpevolizzazione della marginalità a cui assistiamo a tutti i livelli (si veda questo gustoso articolo che suggerisce ai riottosi di mettere da parte la protesta sul caro biglietti perché per i napoletani “che hanno studiato”, che “si sono impegnati” e che “ce l’hanno fatta”, spendere novanta euro per il settore più economico dello stadio è una cosa normale).
In questo scenario non sorprende che il presidente del Napoli si faccia (così come dopo gli scontri tra tifosi del Francoforte e del Napoli) addirittura garante dell’ordine pubblico, battendo i pugni sul tavolo per visionare i filmati della contestazione a piazzale Tecchio o pretendendo che la festa scudetto sia protetta “da diecimila poliziotti”. Esattamente come le grandi aziende della logistica che assoldano guardie private durante gli scioperi per affrontare i lavoratori in picchetto, o come i commercianti della città-vetrina che pilotano gli interventi dell’amministrazione contro senzatetto e gruppi di ragazzini, De Laurentis invoca l’intervento poliziesco e quello del sistema penale non per la gestione di tensioni sociali e politiche o per il controllo di reati, ma per la mera amministrazione dei suoi affari privati. |