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Bergamini, in nome del popolo ultrà

 

FONTE:il manifesto

 

Storia di una verità scritta dal basso

 



Sono trascorse poche ore dalla morte di Denis Bergamini. È il 18 novembre del 1989. Il suo corpo senza vita è sdraiato nell’obitorio dell’ospedale di Trebisacce, sulla costa jonica cosentina. Nella camera mortuaria entrano quattro persone: un frate e tre giovani. Sono ultrà del Cosenza Calcio. A guidarli è Piero Romeo, un leader della tifoseria, ma guai a chiamarlo capo, perché “il gregge ha un capo, il branco no”. Piero è fondatore, insieme a Padre Fedele Bisceglia, della Mensa dei Poveri, dove ogni giorno mangiano 40 diseredati. Bisceglia è un missionario francescano. In curva lo chiamano “Il Monaco”. La Mensa è pure il covo degli ultrà cosentini, nel centro della città. Del quartetto fanno parte anche Vincenzo Speziale, detto “Pasta china” (pasta ripiena –Ndr) e Sergio Crocco “Canaletta” che tanti anni dopo diverrà influencer e poeta vernacolare.

I quattro entrano nella camera mortuaria. Denis è solo. I familiari sono stati informati della tragedia; stanno viaggiando, devono arrivare da Argenta, in provincia di Ferrara. Il Monaco solleva il lenzuolo. Piangono tutti e quattro, ma c’è qualcosa che non torna. Il corpo di Denis non è straziato dalle ferite riportate nell’investimento. “Sembrava stesse dormendo”, dirà Vincenzo. Il volto è immacolato, il torace e le braccia senza un graffio. Il primo ad aggrottare le sopracciglia è Piero. Conosce la città fino alle sue zone più ombrose. Gliela raccontano i “matti”, i senza-fissa-dimora, che lo adorano, perché lui è il primo cittadino laico ad averli accolti. Inoltre Piero ha una singolare capacità di cogliere le perversioni, il disagio psichico malcelato, le manie in voga negli ambienti borghesi che conosce e frequenta perché sono gli stessi a contribuire volontariamente, mediante donazioni, al funzionamento della Mensa. Tra i suoi più stretti collaboratori c’è Pasta China che è il custode dei segreti della squadra, l’emissario degli allenatori del Cosenza, che lo hanno incaricato di tenere d’occhio i calciatori e badare che non si lascino andare a vizi e distrazioni.

Il giorno dopo, Piero e gli altri tornano in quello che per loro non è più il teatro di un suicidio, bensì il luogo di un delitto. Sono loro i primi ad indagare sulla morte di Denis. Lo fanno con grande discrezione, in silenzio, perché non hanno prove e temono di sollevare uno tsunami di sospetti. Sulla SS 106 eseguono rilievi, misurazioni. Piero disegna un bozzetto planimetrico che 30 anni dopo finirà agli atti del processo giunto poche ore fa a sentenza con la condanna a 16 anni di reclusione per l’ex fidanzata di Denis, Isabella Internò.

A due giorni dalla tragedia, nella sua trasmissione “Il Processo del Lunedì”, è Aldo Biscardi a chiedere all’autorevolissimo telecronista Emanuele Giacoia come mai sia stata già scartata l’ipotesi di omicidio. Negli anni successivi, Oliviero Beha, Santi Trimboli e altre grandi firme del giornalismo torneranno a porre la medesima domanda, con insistenza.

Eppure, un velo di oblio calerà per qualche tempo, fino a quando Carlo Petrini, ex calciatore, poi divenuto scrittore ed autore di libri che denunciano il malaffare nel sistema calcio, nel 2001 pubblicò “Il calciatore suicidato” (Kaos Edizioni). Per conoscere la storia di Petrini bisogna vedere il docufilm “Centravanti nato”. Dovrebbero proiettarlo in tutte le scuole calcio. Lessi il suo libro sulla morte di Denis e rimasi turbato. Non era la ricostruzione dei fatti a inquietarmi, bensì la descrizione dell’ambiente sportivo e sociale della città in cui sono nato e vivo. Secondo Petrini, non c’erano dubbi: Denis sarebbe stato ucciso perché coinvolto in affari illeciti della malavita locale. All’epoca collaboravo con Il Quotidiano della Calabria. Scrissi una recensione, il giornale la pubblicò e mi impressionò molto il nervosismo che quella pagina scatenò. Qualcuno chiamò in redazione per lamentarsi. Allora rimasi ancor più convinto del valore di quel libro, ma c’erano due dettagli che mi lasciavano perplesso: la mancanza di un movente chiaro ed il presunto ruolo della ‘ndrangheta. In Calabria come altrove, la mafia è una calamità, ma troppo spesso funge da spaventapasseri e da parafulmini. Quando non si possono o non si vogliono additare i veri responsabili di certe malefatte, si dice che è stata la ‘ndrangheta. Come sparare verso il cielo. Così però rimangono impuniti uomini corrotti nelle istituzioni ed un’intera classe politica che della malavita è guida, protezione, complemento. Mi misi in contatto con Carlo Petrini, gli riferii le mie perplessità e gli proposi di scendere a Cosenza per presentare il suo libro. Al telefono, mi disse che per il momento non sarebbe potuto venire, perché le sue condizioni di salute non glielo permettevano. Infine mi sfidò: “Facciamo così, se lei mi risponde ad una domanda, quando verrò a Cosenza le dirò perché è stato ucciso Bergamini”.

Bisognerà aspettare il deposito delle motivazioni della sentenza emessa dalla corte d’Assise di Cosenza poche ore fa, prima di rivelare quale fu il quesito postomi da Petrini. Comunque era sin troppo chiaro che mi stava provocando e che la sua era una domanda retorica. All’epoca, il mio oracolo si chiamava Piero Romeo. Lui non mi aveva mai parlato dei suoi sospetti sulla morte di Denis. Del bozzetto planimetrico, da lui disegnato, sono venuto a conoscenza solo di recente. Mi precipitai da Piero. Aveva una personalità magnetica, viveva a stretto contatto con la città, ma a volte non disdegnava la solitudine. Il poeta Arthur Rimbaud se ne andò in Africa a vendere armi. Piero si rifugiò a Rende, vicino Cosenza, dove aprì un ristorantino. Gli girai la domanda che Petrini mi aveva posto pochi minuti prima al telefono. Piero rimase in silenzio per qualche secondo, poi rispose. E un istante dopo, ammonì: “Non chiedermi più nulla”. Mai sentito il suo tono di voce così rabbioso ed impotente! Mi convinsi allora che qualcosa di brutale doveva essere avvenuto davvero quella sera di novembre, nel 1989, sulla strada statale 106.

Trascorre ancora qualche anno. Il tam tam riparte dai social. Nel 2009 il ternano Alessandro Piersigilli, dipendente pubblico ed appassionato di inchieste giornalistiche, apre il gruppo “Giustizia per Donato Denis Bergamini”. A Cosenza nasce un’associazione che chiede verità. Il fotoreporter cosentino Luigi Celebre scava tra i materiali delle indagini archiviate, contatta testimoni, recupera ed analizza le fotografie della tragica sera in cui perse la vita Denis. E si rende conto che ritraggono la scena di un crimine. Con lui, ad indagare nell’ombra, ci sono dei ragazzi dei Cosenza Supporters. Su una testata locale, Cosenza Sport, il giornalista Gabriele Carchidi è il primo ad ipotizzare il movente “passionale”. Da questo momento, scatena una guerra personale contro gli insabbiatori e quelli che individua come gli assassini del calciatore. Nel 2013, davanti al tribunale di Cosenza, centinaia di persone chiedono verità e giustizia. Si pubblicano libri. Programmi televisivi e rotocalchi ricostruiscono l’intera vicenda.

Dal 2015 il blog iacchite’, di cui Carchidi è direttore e Michele Santagata redattore, conduce una campagna ostinata per giungere alla riapertura del caso. Riceve querele e minacce, però non si ferma. Ed affianca una persona che in questa tragedia lunga 35 anni, sin dall’inizio, non ha mai ceduto. Neanche per un istante. Così ha costretto la giustizia a fare i conti con sé stessa. Si chiama Donata ed è la sorella di Denis. È rimbalzata da un capo all’altro di questo Paese, ottenendo solidarietà; ha rinunciato alla propria esistenza, affrontando spese immani e notevoli ostacoli. È soprattutto merito suo se oggi abbiamo una risposta alla domanda che milioni di persone ponevano. E poi ci sono loro, gli ultrà. Non solo quelli di Cosenza, ma anche gli altri. In tutto questo tempo, hanno esposto striscioni, lanciato cori, sostenuto in ogni modo la battaglia per l’accertamento dei fatti. Sino a domenica scorsa, quando in diversi stadi d’Italia e d’Europa sono apparsi striscioni imploranti verità per Denis. Perché gli ultrà si affezionano alle proprie “bandiere” fino a vivere in simbiosi con esse. E se una mano assassina le recide, sono i primi ad accorgersene.

 

Claudio Dionesalvi