Mentre ultras e tifosi sono distratti dall’ultima misura punitiva e lucrativa a danno di chi vorrebbe andare allo stadio: la cosiddetta “Tessera del Tifoso”, in Parlamento sta proseguendo il suo iter la proposta di legge n. 1881 “Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione degli impianti sportivi”. Un titolo piuttosto fuorviante, giacché il ddl 1881 è finalizzato a costruire e a finanziare tante cose, commerciali; residenziali; a privatizzare gli impianti sportivi pubblici esistenti e a modificare le destinazioni d’uso di aree pubbliche, per favorirne lo sfruttamento extra-sportivo. Un affare gigantesco, capace di far impallidire le speculazioni di Italia ’90. E infatti costruttori e palazzinari sono da tempo attorno al mondo del pallone, in attesa di una legge ad hoc che gli renda le cose ancor più facili; una legge che gli consenta di mettere le mani su beni comunitari, di stravolgerne la natura, e di cementificare con finanziamenti pubblici. Il paradiso della speculazione. Mentre il nostro Paese riduce la spesa per i suoi servizi più essenziali e indispensabili (scuola, ricerca, sanità, tanto per fare qualche esempio) li trova per opere dannose, utili solo ad arricchire una classe imprenditoriale del tutto parassitaria. Opere destinate ad impoverire il Paese e le sue comunità, privandole di beni, di territorio (da sacrificare a nuovo cemento), e soprattutto di spazi sociali e popolari (gli stadi e le aree che li circondano) a favore di strutture commerciali e consumistiche (i nuovi complessi polifunzionali). La Tessera del Tifoso, alla luce di queste politiche, appare come un’arma per annientare i gruppi sociali delle Curve e, al contempo, per distrarli. L’obbiettivo è il business più sfrenato, da perseguire attraverso la “destrutturazione” dei corpi sociali del tifo (Gruppi ultras e clubs), affinché lo stadio (trasformato in complesso polifunzionale privato) sia vissuto in modo assolutamente individuale e commerciale, senza organizzazioni indipendenti capaci d’esprimere dissenso, affinché l’unica voce sia quella delle S.p.a. che lo occupano. Roberto Maroni, ministro dell’Interno, parlando di come “destrutturare” i gruppi ultras, ha dichiarato “che è più facile agire in altri Paesi, dove gli stadi sono di proprietà delle società di calcio che li possono organizzare nel migliore dei modi” (nota 1). Roberto Massucci, V. Questore Agg. della Polizia e segretario dell'Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, ha spiegato meglio il discorso: “Fin’ora i gruppi ultrà sono l'unico tipo di aggregazione allo stadio. Io però credo che sia giunto il momento di una nuova community di tifosi ufficiali che faccia capo alla società sportiva” (nota 2). Privatizzare, per disgregare meglio, per andare oltre la Tessera. Propositi speculativi, che per affermarsi non esitano a ricorrere a misure repressive, avente carattere anti-sociale e anti-popolare, per cui le uniche forme d'aggregazione non dovranno nascere spontaneamente dalla gente, ma essere imposte e pilotate dall'alto: ovvero dalle ditte del pallone, secondo precise direttive delle forze di polizia. Si sta cercando di alterare i processi naturali di aggregazione sociale, per sostituirli con qualcosa che vi assomigli all'apparenza, ma di tutt'altra natura. A pagina 4, della relazione che introduce il testo del ddl 1881 si legge: “Lo stadio potrà svolgere un’importante funzione di aggregazione sociale, diverrà uno spazio accogliente, da vivere tutta la settimana, adatto a tutta la famiglia. Sarà dotato di cinema, ristoranti e attività commerciali di vario genere. E’ noto che le aziende sono attratte dalle strutture sportive (stadi, centri polifunzionali eccetera) in quanto ritenute ottime ‘location’ per intrattenere rapporti con la propria clientela. […]”. Ristoranti, cinema, negozi e attività commerciali, non sono centri di aggregazione sociale, ma luoghi deputati alla spesa che non stimolano la vita di gruppo. Dire che sono adatti alla famiglia non è essenzialmente errato (tutti devono fare la spesa per soddisfare i propri bisogni) ma è estremamente preoccupante quando li si propone come luoghi per trascorrere il tempo libero, facendo trasparire una mentalità che sembra considerare le famiglie come gruppi eterogenei di clienti, da indirizzare al consumismo più sfrenato, e non come i nuclei umani alla base della nostra società, che dovrebbero realizzarsi come persone imparando a stare insieme. Ammassamenti di persone nello stesso luogo non significano aggregazione sociale. Aggregazione sociale è conoscersi, parlarsi, confrontarsi, condividere progetti, collaborare alle stesse attività, imparare a vivere le dinamiche di gruppo. Questa “confusione” non stupirebbe troppo su documenti confindustriali, inorridisce, invece, letta su documenti della Camera dei Deputati, firmati da onorevoli di vari partiti, eletti in nome del popolo di questo Paese. Purtroppo il supporto a queste politiche, come ormai accade sempre più spesso, è assolutamente bipartisan. Tra i vari firmatari figurano esponenti del Partito Democratico, del Popolo delle Libertà, dell’Unione di Centro, e anche uno dell’Italia dei Valori. Nella critica agli stadi italiani contemporanei, contenuta nella relazione che introduce il ddl, si legge che gli “impianti esistenti sono costruiti senza requisiti di polifunzionalità, non sono integrati nel tessuto sociale” (relazione sul ddl 1881, nota 3), come se il non essere polifunzionali (dotati di strutture commerciali) ne impedisse l’integrazione nel tessuto sociale. Ma è vero proprio il contrario: gli stadi attuali sono nel cuore delle comunità e favoriscono l’aggregazione (attraverso la pratica sportiva e le dinamiche del tifo e delle curve) e quindi la creazione di un tessuto sociale vero, che non può essere confuso con le concentrazioni umane che possono realizzarsi nei centri commerciali. Sentir parlare di mancata integrazione degli stadi nel tessuto sociale, da parte di chi vorrebbe agire “trasferendo gli stadi fuori dalle città” (relazione, nota 4), ovvero delocalizzandoli nelle periferie, appare estremamente contraddittorio. E infatti, al di là di certe asserzioni aleatorie, nel concreto si punta a realizzare un certo tipo di stadio: lo “stadio produttivo”. “Stadio «produttivo» significa, dunque, stadio che produce reddito, ovvero «polifunzionale» (complesso sportivo comprendente spazi destinati ad attività diverse da quella sportiva” (relazione, nota 5) per cui la produttività dell’impianto si intende in senso economico e privato, e non in senso sociale e collettivo. In tale ottica il fatto che gli stadi siano “tutti sottoposti a vincoli urbanistici e monumentali” (relazione, nota 6), è presentato come un fatto negativo, e non come il modo migliore per conservare e perpetrare il patrimonio comune e la sua natura. La ricetta per il business si compone di “nuovi strumenti normativi e agevolazioni amministrative” e di “una partecipazione pubblica in termini di contributi a sostenere l’investimento privato” (relazione, nota 7). Ovvero: aggirare le tutele pubbliche e regalare soldi dello Stato ai privati per opere inutili e dannose. Tutto alla faccia delle tanto pubblicizzate leggi di mercato, per cui lo Stato dovrebbe fare solo da spettatore in campo economico; ma forse tali dogmi sono solo un pretesto, da usare contro la gente comune quando osa rivendicare i propri diritti più fondamentali. La proposta di legge 1881 punta a fare tutto in tempi molti brevi. Si fonda su un “un piano triennale di interventi straordinari” (ddl 1881, nota 8) da predisporsi “entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge” (ddl 1881, nota 9) dopo aver analizzato gli studi di fattibilità presentati da istituzioni locali, federazioni e società sportive. Gli enti locali che vorranno aderire a tale piano triennale dovranno presentare, “entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, lo studio di fattibilità” (ddl 1881, nota 10). Fare tutto, e alla svelta, per apparire belli e puntare ad un nuovo business, ovvero: ad “organizzare un evento sportivo di una certa rilevanza, [come] potrebbero essere i Campionati di calcio (del 2016)”; sono queste le parole testuali con cui si conclude la relazione introduttiva alla Proposta di legge (a pagina 5). Organizzare gli Europei di calcio potrebbe e dovrebbe essere positivo, per tutta la nazione. Già solo il candidarsi potrebbe essere un’occasione di crescita e sviluppo, per tutti. Sono gli ultras e i tifosi, per primi, che vorrebbero che gli stadi italiani diventassero più confortevoli, più accessibili (anche economicamente), con una migliore visibilità, con la possibilità di tifare ed esprimersi liberamente, con i lavori di manutenzione che vengono eseguiti regolarmente, senza gabbie e tornelli, e senza biglietti nominali (la Uefa ci ha già criticati in merito, visto che non esistono in nessun altro Paese del mondo!). Così come sarebbe positivo, per tutti, incrementare le strutture di base, per facilitare la pratica sportiva. Ma invece, una proposta di legge che dice d’essere finalizzata a “favorire lo sviluppo e la capillare diffusione della pratica sportiva per i soggetti di ogni età e tra tutti gli strati della popolazione” (ddl 1881, nota 11), si occupa di tutt’altro. Come esempio di “stadio produttivo” è citato lo stadio inglese “Emirates” dell’Arsenal, eretto ad Ashburton Grove, che “ha generato nella sua prima stagione sportiva un incremento del 110 per cento dei soli incassi” (relazione, nota 12). Non si citano però i prezzi applicati in tali struttura, estremamente proibitivi per una buona fetta di tanti “strati della popolazione”. Abbonarsi ai Gunners costa infatti 1.156 euro nei posti più economici (nota 13). Una vera e propria selezione economica e sociale. La cosa più curiosa è che i maggiori club inglesi, nonostante i loro giganteschi complessi polifunzionali e le mille attività che curano, abbiano i conti comunque in rosso. E guidano la graduatoria proprio il Chelsea e il Manchester United, le società più ricche e famose (nota 14). Se privatizzando e realizzando nuovi complessi polifunzionali (e magari anche mille altre speculazioni) “I ricavi derivanti dagli stadi potrebbero riequilibrare le voci di entrata dei club della serie A di calcio” (relazione, nota 15) non è affatto detto che i conti di tali società migliorerebbero. Chi vive al di sopra delle proprie possibilità (come fanno spesso tanti club) finisce comunque in passivo. Non crediamo comunque sia compito dello Stato quello di “riequilibrare” le voci di entrata delle S.p.a. del pallone, tanto meno usando il denaro e il patrimonio pubblico. Vale la pena ricordare che l’impianto “Emirates” è stato costruito senza sovvenzioni pubbliche e nel 2007 ha fatto schizzare il passivo del club degli Artiglieri a 262 milioni di sterline. Un debito a cui si sta cercando di far fronte con un piano immobiliare (crisi permettendo), ovvero con la vendita di migliaia (sic) di appartamenti, costruiti attorno al nuovo stadio e dove prima sorgeva Highbury (lo storico stadio dell’Arsenal). Odore di mattone e speculazione, che qui da noi, nel Paese del cemento depotenziato, dei terremoti lievi che radono al suolo intere città, di Punta Perotti, dei vincoli violati, dei condoni e degli abusi, suona estremamente pericoloso. E infatti, tornando in Italia e parlando di nuovi impianti, risulta già che “Se si prendono i dieci progetti più dettagliati, la somma delle aree interessate ai ‘nuovi stadi’ è pari a 1.920 ettari: metà del territorio, per capire, su cui si produce tutto il vino della Basilicata” (nota 16). A Roma, ad esempio: “Su 600 ettari (la città di Amalfi) di proprietà del suocero Mezzaroma (costruttore) e accatastati come agricoli, Lotito vuole edificare: il nuovo stadio Delle Aquile” (nota 17), uno “stadio” che è in realtà una nuova città. Si parla addirittura di “una nuova stazione, un nuovo svincolo autostradale, un approdo in battello sul Tevere”. E ovviamente: “Sulla collina (che ha vincoli paesaggistici) Lotito immagina una cementata di villette” (nota 18) . Le aree che comprendono gli stadi italiani sono destinate allo sport, a tutela dell’interesse pubblico. Ma il ddl 1881 ha pensato anche a loro. E infatti all’art. 6, comma 4, in tema di “Ristrutturazione e privatizzazione di impianti sportivi pubblici esistenti” leggiamo che: “Nell’atto di cessione dell’impianto ai fini della ristrutturazione dello stesso, il comune deve specificare le destinazioni d’uso, anche in variante alle destinazioni d’uso esistenti, degli impianti sportivi e delle aree funzionali e pertinenziali, al fine di consentire l’utilizzo e lo sfruttamento economico quotidiano e continuativo degli impianti e delle aree medesimi.” Ovvero: ci si potrà costruire quasi di tutto. Ma a chi serve tutto questo cemento? A pagina 4 della relazione introduttiva alla Proposta di legge 1881 leggiamo che saremmo noi a guadagnarci, ovvero la “collettività, […] si avvantaggerebbe sia per la riduzione, se non addirittura per l’annullamento, dei costi per la gestione dell’impianto, sia per la riqualificazione della propria area urbana”. Ma i costi per la gestione degli stadi pubblici dovrebbero già spettare a chi ha le relative concessioni, ovvero le S.p.a. del pallone. La collettività, attraverso questa legge, perderebbe il proprio patrimonio, e si vedrebbe trasformare spazi sociali e aree verdi in zone di proprietà privata destinate al consumo e alla cementificazione. O, se si preferisce, per adattarli agli: “sfruttamenti commerciali” (relazione, nota 19). I personaggi che stanno cercando di imporre la Tessera del Tifoso sono gli stessi, in moltissimi casi, che supportano la tesi dei nuovi impianti. Non è un caso. Le due cose lavorano in sinergia. La “Tessera del Tifoso” è la prima arma speculativa e repressiva per colpire e distrarre i Gruppi del tifo (soprattutto quelli che non piegano la testa al potere) in attesa di “destrutturarli” definitivamente con un nuovo sistema calcio anti-sociale e anti-popolare, dove l’aggregazione vera sarà annientata. Per questo si continuano ad adottare misure che hanno evidenti contraddizioni economiche (biglietti nominali, divieti di trasferta, limiti alla vendita dei biglietti, Tessera del Tifoso, ecc.), giacché svuotano gli stadi. Perché il business (che il ddl 1881 vuole realizzare) è indipendente dai tifosi. E’ nell’appaltare, nel lottizzare, nel costruire, nel vendere, e nel gestire attività fondamentalmente aliene al tifo e ai tifosi, all’evento sportivo, e anche allo sport. Si parla infatti di “attività commerciali, ricettive, di svago, del tempo libero, di servizio, nonché ad insediamenti residenziali o direzionali” (ddl 1881, nota 20). Se poi gli spalti (all’interno dei complessi commerciali) saranno pieni o vuoti, sarà un dato economicamente trascurabile, giacché il loro business deriverà fondamentalmente da altre strutture. Un business che vuole arricchire qualcuno, ma alle spalle di tutti gli altri, come accade di sovente nel nostro Paese. Si vuole sfruttare il mondo del calcio per una gigantesca speculazione, trasformandolo in qualcosa di completamente diverso. Un qualcosa dove il tifoso non sarà più centrale ed essenziale, ma assolutamente secondario. I tifosi dovranno trasformarsi in clienti, o semplicemente andarsene, trasformandosi in clienti televisivi. Al progetto di stadi privati per clienti selezionati, opponiamo il concetto di stadio di tutti e per tutti. Contro repressione e speculazione, contro la Tessera del Tifoso (che calpesta diritti civili e garanzie costituzionali), contro progetti che vogliono impoverire la collettività (dal punto di vista economico e sociale), invitiamo tutti a mobilitarsi. La natura comunitaria e sportiva degli stadi italiani va preservata.
Ultras liberi
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