PREMESSA Luciano Moggi e un libro sono come il diavolo e l'acqua santa. Perché allora questa biografia? Perché Moggi è il padrone del calcio italiano. E la sua faccia, i suoi occhiali scuri, il suo sigarone fra i denti, i suoi quattro telefonini trillanti, la sua voce roca e cantilenosa, il suo accento senese-ciociaro-napoletano, il suo italiano approssimativo, i suoi gusti ruspanti, insieme al suo potere smisurato, sono diventati il simbolo di uno sport sempre più ricco, scandaloso e processato.
Se sia Moggi a attirare gli scandali o gli scandali a attirare Moggi, è questione controversa e irrisolta: sta di fatto che dove c'è lui ci sono loro. Va alla Lazio, e la Lazio vive due delle sue stagioni più buie, fra calcio-scommesse e serie B. Va al Napoli, e il Napoli passa da uno scandalo all'altro (lo scudetto sgraffignato per una monetina, quello regalato al Milan con contorno di camorra e toto-scommesse, e poi Maradona in mezzo a cocaina e camorristi). Trasloca al Torino, e anche li è tutto un intrico di fondi neri, frodi fiscali, giocatori finti, contratti fasulli, fatture false, sexy-hostess per arbitri. Approda infine alla Juve, e la Signora del calcio italiano finisce sul marciapiede in un vortice di sospetti, polemiche e inchieste giudiziarie come mai prima.
Spesso, anche grazie alla sua indubbia scaltrezza, Moggi ha cambiato aria un attimo prima che le cose si mettessero male. Qualche volta è stato solo sfiorato o se l'è cavata per il rotto della cuffia. Altre volte è finito anche lui nei guai insieme ai suoi presidenti e ai suoi giocatori, collezionando un buon numero di inchieste, sportive e soprattutto giudiziarie, e rimediando un discreto pacchetto di rinvii a giudizio e condanne. Presso il Casellario giudiziario di Siena (Moggi è nato da quelle parti, a Monticiano) ci sono già tre sentenze definitive a suo carico, che fanno di lui un pregiudicato a tutti gli effetti.
Ma limitarsi a queste quisquilie sarebbe fare un grave torto a colui che di fatto è il despota del calcio italiano. Un boss tanto potente quanto temuto e chiacchierato, partito nullatenente e arrivato multimiliardario. Il contorno di eccessi - il vizio delle carte, la scuderia di cavalli da corsa a Roma-Tordivalle, le decine di dimore sparse per l'Italia - sono in linea con il personaggio. Un personaggio che oggi incarna - indisturbato - il più scandaloso "conflitto di interessi" della storia del calcio mondiale: mentre lui siede sulle poltrone di consigliere di amministrazione e di direttore generale della potente Juventus, suo figlio Alessandro è socio-presidente della Gea World, società che rappresenta oltre duecento calciatori di serie A e B (alcuni della stessa squadra bianconera, molti altri di club avversari). Un obbrobrio sportivo-affaristico inconcepibile, che all'estero farebbe inorridire chiunque. In Italia no: da noi anche il calcio è all'italiana, e la ditta Moggi può spadroneggiare indisturbata, temuta e venerata.
Mettere insieme questo libro non è stato facile: nessuno, nell'ambiente, è disposto a dichiarare quello che molti mormorano. "Lucianone" è tanto potente quanto vendicativo. Non è stato facile neanche trovare un titolo adatto a salvare la decenza: alla fine si è deciso per "Lucky Luciano", un altro dei suoi soprannomi, che ha il pregio di richiamare una delle più note massime moggiane: "Se ho vinto tanto nella mia carriera si vede che è perché sono molto fortunato". E lucky, appunto, vuol dire "fortunato".
POST-PREMESSA La prima edizione di questo libro, pubblicata nel novembre 1998, non ha avuto il bene di una sola recensione, di uno straccio di articolo, sui tre quotidiani sportivi che ogni giorno vengono editi in Italia in poco meno di un milione di copie. Moggi ha tanti amici fedeli (e qualche devoto maggiordomo) nelle redazioni sportive, compresa quella della Rai. Ma nonostante la censura, "Lucky Luciano" si è guadagnato nel tempo, col passaparola, molte migliaia di lettori e una seconda edizione. Nel giugno del 2003, durante una intervista, Lucianone ha fatto cenno a questo libro per lamentare che gli autori "non hanno avuto il coraggio di firmarsi". Non è una questione di "coraggio", è che di questo lavoro sono autori vari cronisti, sportivi e non. E qualcuno conosce il carattere vendicativo di Lucianone; mentre qualcun altro vuole evitare che il proprio nome sia associato a quello del biografato e a molti degli argomenti trattati nel libro. Il lettore, inoltrandosi in queste pagine, capirà.
CAPITOLO PRIMO – LUCIANONE DA MONTICIANO LO CHIAMAVANO PALETTA Nato a Monticiano, in provincia di Siena, il 10 luglio 1937 da una famiglia di ceto modesto, fin da bambino Luciano Moggi è un vero patito di calcio. Il pallino del pallone glielo trasmette Graziano Galletti, un panettiere di Grosseto, il quale la domenica si porta appresso Lucianino in giro per gli stadi della Toscana a vedere le partite. Il ragazzino, è fatale, tenta anche la carriera di calciatore, ma il talento non c'è, i risultati sono scarsi. Deboluccio col pallone tra i piedi, Lucianino non è migliore sui banchi di scuola: anche per ragioni di bilancio familiare, dopo il diploma di terza media abbandona gli studi e comincia a lavorare. Trova un posto alle Ferrovie dello Stato, e poco tempo dopo viene trasferito a Civitavecchia.
Alla stazione di Civitavecchia, Moggi fa l'impiegato. Ma spesso lo mandano fra i binari a controllare le traversine. Una carriera non proprio travolgente: arriverà fino al grado di capogestione, una specie di vicecapostazione addetto alla biglietteria. Una volta - raccontano - gli capita di rimpiazzare il titolare e fa partire il treno, così si guadagna il soprannome di "Paletta". Ma più che di treni, lui è appassionato di calcio. Nel tempo libero continua a giocare da stopper in varie squadrette di quarta serie. E intanto medita come coniugare le due vocazioni della sua vita: quella di manovratore e quella di pallonaro. È la metà degli anni Sessanta quando il capo-gestione della stazione ferroviaria di Civitavecchia, tra pacchi da smistare e biglietti da vendere, intuisce che il calcio sta per diventare un grande business.
La svolta arriva alle soglie dei trent'anni. Moggi li compie nel luglio 1967, ma li festeggia con qualche settimana di anticipo insieme agli amici di Monticiano, quando la Juve conquista, a sorpresa, il tredicesimo scudetto ai danni dell'Inter di Helenio Herrera. E' stanco di cercare ingaggi in serie D (l'attuale C-2, allora strutturata in modo molto diverso da oggi), e di girovagare fra la Toscana e il Lazio (con una parentesi perfino in Sicilia, ad Agrigento, nella gloriosa società dell'Akragas). Sobbarcarsi lunghi viaggi in treno per giocare in quarta serie, in cambio di poche migliaia di lire, non gli va più. Anche l'impiego alle Ferrovie dello Stato comincia ad andargli stretto: è un lavoro noioso e malpagato. Molto meglio il mondo del calcio, dove lo chiamano Lucianone per la giovialità guascona e spregiudicata. E dove, soprattutto, cominciano a ronzare i talent scout, gli scopritori di giovani campioni, intenditori del gioco più bello del mondo capaci di scovare quelli che diventeranno i futuri big in cambio di discrete provvigioni. Un lavoro oscuro, fatto di chiacchiere, di diplomazia e scaltrezza. Tutti requisiti che il trentenne Moggi possiede in abbondanza. Lui è un estroverso, un gran chiacchierone, parla di tutto, soprattutto di donne, di motori e ovviamente di calcio. Ma è un furbacchione, e conosce a meraviglia l'arte di ascoltare: "In mezzo a tante stronzate che si sentono, ci può sempre essere un'idea" è una delle sue frasi celebri. Moggi è ignorante, ma non è sprovveduto. Parla un italiano scombiccherato e dialettale, ma ha la furbizia del contadino "scarpe grosse e cervello fino". E capisce subito che la pubblicità è l'anima del commercio, che esiste soltanto chi sa farsi vedere. E lui sa farsi notare come pochi. Soprattutto negli stadi minori, al fianco di quelli che vengono chiamati "mediatori": personaggi utili ma imbarazzanti, i quali si muovono in un mondo dorato e ipocrita che fa finta di non conoscerli, che se ne avvale fingendo che non ci siano. Sono perlopiù personaggi toscani, come Franco Marranini, come Romeo Anconetani (futuro presidente del Pisa); ma anche romani (il numero uno è Walter Crociani), napoletani, friulani, milanesi.
A Monticiano, Moggi è noto come un tifoso della Juventus. Alla stazione di Civitavecchia, altrettanto. La passione è forte, il desiderio di fare parte di quel mondo anche. L’occasione gliela offre il torneo di Viareggio, la rassegna giovanile più celebre del calcio italiano. Moggi viaggia molto, lavora anche di notte, visiona ragazzi e raccoglie dati, compilando dei veri e propri dossier. I giovani calciatori che gli interessano li scheda uno a uno, raccogliendo notizie dettagliatissime, anche sulla situazione familiare. Stabilisce con loro rapporti diretti e personali, si candida a fargli da manager ma anche da vicepadre, da fratello maggiore, e spesso ci riesce.
Così, chiacchierando e schedando, sgomitando e agganciando, segnalando e raccomandando, Moggi nel 1968 entra a far parte della corte del supermanager Italo Allodi, colui che in quegli anni ha costruito dal niente il leggendario Mantova (approdato dalla serie D alla A con una scalata senza precedenti) e che ha fatto grande l'Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera. Esaurito il ciclo nerazzurro, nel 1970 Allodi è stato chiamato alla Juventus da Giampiero Boniperti, il campione dei cinque scudetti appena nominato dagli Agnelli amministratore delegato della squadra di Famiglia, in attesa di diventarne il presidente. E alla Juve, Allodi si avvale di un gruppo di collaboratori-informatori fra i quali c'è anche Lucianone.
Sono decine i giocatori che "Paletta" pedina, scruta, scheda e infine porta all'attenzione di Allodi. Fra questi c'è Paolo Rossi, il futuro supercannoniere del Vicenza, del Perugia e della Juventus, il centravanti azzurro del mondiale di Spagna '82: Moggi lo ha notato nella Cattolica Virtus, una piccola squadra fiorentina. Rossi viene "provato" dalla Juve e trattenuto: Lucianone ha fatto il colpaccio - il primo di una lunga serie. Si ripeterà poi con Claudio Gentile, un altro Signor Nessuno che diventerà terzino destro nella mitica Juve di Giovanni Trapattoni e promosso subito in maglia azzurra fino al mondiale di Spagna 1982 (quando non farà toccare palla a Zico e a Maradona). E a Gentile molti altri seguiranno.
Con la potentissima Juve alle spalle, Moggi diventa ben pre¬sto un osservatore di peso. Tant'è vero che Allodi gli affida un incarico molto delicato: sistemare in tutta Italia i giovani cal¬ciatori sfornati dal vivaio juventino che non possono avere un futuro in prima squadra. E qui Lucianone mette in mostra un'altra delle sue doti: la sfrontatezza da tappetaro, la capacità di vendere come diamanti anche i pezzi di vetro. Tra i giovani bianconeri da sbolognare altrove c'è un terzino, tale Cheula; Moggi lo spaccia nell'ambiente come il "nuovo Spinosi" (il difensore che la Juve ha strappato alla Roma, insieme con Fabio Capello e Spartaco Landini, nell'estate 1969, e trascinato in Nazionale), e alla fine riesce a sistemarlo, dietro congruo compenso. Ovviamente di Cheula non si avranno mai più notizie, ma la missione è compiuta. La scalata di Lucianone è travolgente e ruspante. Compra a rate un'utilitaria, sposa una donna minuta e tollerante, e medita il primo grande passo: lasciare le Ferrovie. "Salto il fosso", annuncia agli amici. E gli amici si moltiplicano, perché l'uomo ha un fascino giusto per il mondo del calcio, del quale non conosce bene né i regolamenti né la storia ma ne sa fiutare abilmente umori e retroscena. Appena è in età per la pensione baby, Moggi si libera di berretto e paletta, e si butta anima e corpo nella nuova attività pallonara.
Anzitutto organizza una ragnatela di fedeli galoppini guidati da un suo amico - un certo Nello Barbanera (direttore sportivo di piccoli club, tra cui il Civitavecchia) che battono i campetti di periferia e gli oratori della grande provincia italiana per scovare talenti e promesse in ogni angolo. "Un gruppo di amici, gente con cui scambio pareri e informazioni", minimizza Lucianone. Dei calciatori sotto osservazione l'ex ferroviere vuole sapere tutto: non solo le doti tecniche e le caratteristiche agonistiche, ma anche il grado di istruzione e perfino la vita privata. Attraverso la sua rete, ne tiene sotto controllo centinaia, seguendoli passo passo; poi, al momento giusto, li segnala a questo o quel club titolato.
La capitale operativa di Moggiopoli è la Maremma, dove l'ex panettiere Graziano Galletti - uomo simpatico e generoso, ma soprattutto grande intenditore di calcio - la fa da padrone. Moggi lo spedisce anche "in missione" (secondo il lessico ferroviario) in giro per l'Italia, e ne ricava indicazioni preziose.
È proprio Galletti, per esempio, che insiste su Gaetano Scirea, uno dei giovani emergenti dell'inizio degli anni Settanta. Scirea gioca nelle giovanili dell'Atalanta allenata da Ilario Castagner: fa il centrocampista, ma c'è chi scommette sul suo futuro da difensore. Moggi invece è perplesso, lo giudica - così come molti tecnici autorevoli - troppo poco dotato nel gioco aereo per un ruolo così delicato. Ma Galletti non ha dubbi, per lui il giovane Scirea è un potenziale asso della difesa. Moggi si lascia convincere, e a quel punto si sobbarca il compito più delicato: convincere anche Boniperti, che è alla ricerca di un erede adeguato del pluridecorato libero bianconero Sandro Salvadore. Per Lucianone è un gioco da ragazzi, e alla fine sono tutti d'accordo: Scirea passa alla Juve come libero, e sarà uno dei migliori campioni del nostro calcio, di sicuro il difensore più corretto e propositivo, un vero fenomeno, un altro campione del mondo. Anche Moggi comincia a passare per un fenomeno, specialmente quando - dopo Scirea - porta alla Juve Franco Causio, l'ala destra tutta dribbling e fantasia scovata in una squadretta pugliese e poi spedita a "farsi le ossa" - come si diceva allora - sui campi caldi del Sud.
Nel giro di poche stagioni in casa Juventus esplode il conflitto tra Boniperti e Allodi: due leader, due primedonne, e una convivenza che da difficile diventa impossibile. Alla fine prevale Boniperti, l'uomo degli Agnelli. Allodi, dopo il fallito assalto juventino alla coppa dei Campioni (finale perduta a Belgrado contro l'Ajax, nel 1973), se ne va. Il suo protetto Moggi, invece, resta, e viene promosso sul campo "primo osservatore" della società bianconera.
Lucianone è già un piccolo boss alla guida di un'ormai consolidata rete di osservatori-collaboratori, i quali operano dietro le quinte in cambio di piccoli favori e di qualche sporadico guadagno. La Juve è un magnifico ombrello sotto il quale Moggi può operare in proprio, allargando il suo raggio d'azione ben oltre la squadra bianconera: allaccia contatti con altre squadre, facilita trattative, decide carriere, dispensa suggerimenti, fa il bello e il cattivo tempo.
A un certo punto anche l'ombrello-Juve comincia ad andargli stretto. Della società bianconera Lucianone è un collaboratore esterno, un semplice consulente, e adesso vuole di più, pretende una carica ufficiale di dirigente. Ma alla Juve gli spazi sono chiusi, come a casa Savoia "si comanda uno alla volta", e Boniperti è un inguaribile accentratore. A Roma, invece, c'è qualcuno che ha bisogno di un manager che capisca di calcio: quel qualcuno è il nuovo padrone della Roma, Gaetano Anzalone. Amico del democristiano Giulio Andreotti e del fido Franco Evangelisti, Anzalone è un palazzinaro assolutamente digiuno di pallone.
La manovra di avvicinamento di Moggi alla Roma è tipica del personaggio: si trasferisce in pianta stabile nella Capitale, e tampina per settimane il caporedattore del "Messaggero" Gianni Melidoni per farsi presentare ad Anzalone. Il giornalista, preso per sfinimento, finalmente combina l'incontro. Il palazzinaro romano e l'ex ferroviere senese si piacciono al primo sguardo, così Lucianone diventa il consulente ufficiale per il mercato del presidente giallorosso.
Un anno dopo lo sbarco a Roma, nel 1976, Moggi dà subito una lezione alla Juve. Aiutato dal suo amico Riccardo Sogliano (ex centrocampista del Milan), mette a segno il suo primo grande colpo di mercato: riesce a portare alla Roma l'attaccante più ambìto del momento, il centravanti del Genoa Roberto Pruzzo. La Juve e le altre pretendenti sono beffate, Boniperti si sente tradito, Anzalone gongola, e Moggi comincia a sentirsi un piccolo padreterno.
Pruzzo non basterà a trasformare la Roma in una grande squadra, ma quello è il segnale che qualcosa sta cambiando nel calcio italiano: la Juve non è più la padrona assoluta del mercato, come è accaduto dall'avvento di Boniperti (e Allodi) al vertice della società. Nuovi equilibri stanno per delinearsi, la bilancia calcistica tra il Nord e il Centro-Sud si riequilibra. La Roma passerà dalla gestione di Anzalone a quella di Dino Viola (altro imprenditore di stretta osservanza andreottiana) e arriverà allo scudetto. La Fiorentina, appena acquistata dai fratelli Pontello, ingaggerà Italo Allodi ed entrerà nell'Olimpo delle grandi. Un mutamento epocale del quale l'ex impiegato delle Ferrovie "con tendenze a trafficare" sarà fra i protagonisti assoluti.
METTI UNA SERA A CENA Roma per Moggi è una tappa fondamentale. A parte il fatto che diventa "commendatore", Lucianone nella Capitale costruisce una fitta rete di amicizie molto influenti. Allaccia rapporti con parlamentari (soprattutto democristiani di fede andreottiana), magistrati, diplomatici, ufficiali dell'esercito, medici, dirigenti Rai, gente dello spettacolo e ovviamente dello sport. Conosce i tecnici che curano il rigoglioso vivaio giallorosso (e sono quelli che gli segnalano i giovani migliori, come Carlo Ancelotti, futuro "nazionale"). Ma soprattutto, conosce giornalisti, tanti giornalisti, ai quali a Natale non fa mai mancare un gentile pensiero: una volta un pacco con un prosciutto e mezza forma di Parmigiano, un'altra volta bottiglie di champagne, un'altra ancora casse di vino doc; e poi, fuori stagione, orologi, capi di cachemire, biglietti per viaggi aerei... Perché Lucianone ha capito bene l'importanza dei giornalisti nel mondo del calcio, e dunque la necessità di arruffianarsene il maggior numero possibile.
Nella Capitale, l'ex ferroviere di Civitavecchia affina anche le sue già spiccate doti di uomo di mondo, e finisce per assumere movenze tipicamente andreottiane. Come i portaborse dello storico leader democristiano (da Sbardella a Evangelisti), diventa un vero fuoriclasse delle pubbliche relazioni intese come clientelismo: rozzo, colorito, disponibile, spiritoso, alla mano. E come Andreotti sa lavorare nell'ombra, trafficare dietro le quinte, muoversi sotto le foglie alla maniera dei serpenti. Una doppiezza che diventerà la caratteristica di fondo e la struttura portante del suo crescente potere nel mondo del calcio. Lucianone impara a non perdere mai la calma, a farsi concavo davanti alle situazioni convesse, convesso davanti a quelle concave.
Sa che è bene essere amici di tutti e di nessuno, che è il denaro a muovere il mondo, che le regole in Italia sono fatte di eccezioni, che il fine giustifica i mezzi, che la spregiudicatezza è un prerequisito del successo, che l’immagine pubblica può coprire qualunque vizio privato. E impara - ma questo forse già lo sapeva - che il calcio che avvince milioni di italiani e muove crescenti masse di denaro è quanto di più effimero esista in natura: basta un refolo di vento, l'errore millimetrico di un calciatore, una svista arbitrale, una qualunque minima "casualità", e molte prospettive mutano, molte fortune nascono e muoiono per un niente...
Quando Anzalone, nel 1979, cede la Roma al cavalier Dino Viola, la situazione per Lucianone si fa precaria. Il nuovo presidente romanista è l’anti-Boniperti, ma è molto simile al suo rivale juventino: non tollera altri galli nel pollaio. Oltretutto, Moggi non gli va per niente a genio, troppo ruspante per il suo stile da gran signore: si racconta che Viola, anziché la mano, gli porgesse addirittura il gomito (oppure solo tre dita), per marcare meglio le distanze... Però l'ex ferroviere è vendicativo ma non permaloso, e al gomito del presidente giallorosso contrappone metaforicamente l'italico "gesto dell'ombrello": perché Lucianone ha capito "che nel calcio, tra il proprietario della squadra, ricco ma spesso fesso, e il giocatore, vigoroso ma rozzo, c'è spazio per una nuova figura. Quella del direttore sportivo: uno che di pallone capisce più del presidente, e di conti più del calciatore".
In realtà, l'allergia epidermica di Viola per quel personaggio unticcio e invadente è solo metà del problema; l'altra metà è il fatto che il "consigliere" Moggi costa troppo. Il presidente giallorosso si sfoga con parenti e amici raccontando le pretese di grandeur di Lucianone e le sue mirabolanti note spese a base di costosissime bottiglie di champagne e soggiorni in principesche suite d'albergo. Per non parlare dei "sovrapprezzi", cioè delle lievitazioni improvvise dei costi dei giocatori trattati dall'ex ferroviere: Viola - che non è tirchio, ma oculato sì - li chiama "la tassa Moggi". Per cui nel dicembre 1979 decide di liquidare Lucianone perché, dice, "non me lo posso più permettere". Un benservito che ha un antefatto decisamente sgradevole, la goccia che potrebbe aver fatto traboccare il vaso.
Nel tardo pomeriggio di domenica 25 novembre '79, subito dopo la partita Roma-Ascoli (vinta dai giallorossi), il presidente Viola si reca negli spogliatoi per salutare il presidente ascolano Costantino Rozzi. Quest'ultimo è infuriato con l'arbitro della partita, Claudio Pieri, e prende Viola a male parole: "La partita l'abbiamo vista tutti! Non mi faccia dire cose che non posso dire! Credo che ci sia qualcosa da chiarire!". Il presidente giallorosso cade dalle nuvole, allora Rozzi gli dice: "Si faccia spiegare la faccenda dal suo consigliere Moggi!... Sappia che l'Ascoli avanzerà una protesta ufficiale nelle sedi opportune!". Viola cerca subito Moggi, "e i due hanno parlottato un po' fra di loro lontano da orecchi indiscreti". Così salta fuori che sabato sera, alla vigilia della partita, Lucianone è stato sorpreso in un ristorante romano in compagnia dell'arbitro Pieri e dei due guardalinee. Lo scandalo è inevitabile.
La reazione di Lucianone è un capolavoro di reticenza e ambiguità: "Non so chi abbia riferito al signor Rozzi del fatto che, sabato scorso, mi sono trovato a incontrare l'arbitro Pieri in un ristorante. Viste le gravi insinuazioni e le minacce che si è permesso di rivolgere sia a me che alla Roma, devo pensare che il suo informatore abbia voluto malignamente fargli perdere la testa". Anche la versione dei fatti raccontata da Lucianone è in piena sintonia col personaggio: "Alla vigilia della partita mi sono recato nel ristorante di cui sono abituale cliente... Ho incontrato per caso l'arbitro che stava già cenando con i guardalinee e alcuni suoi amici romani. È stato lo stesso Pieri, con un atto di cortesia, a salutarmi, a rivolgermi la parola, a invitarmi a bere insieme... Terminato il pasto, l'arbitro, i guardalinee e i loro conoscenti hanno lasciato il ristorante intorno alle ore 23; io sono rimasto ancora per una mezz'oretta. Tutto qui, solo una questione di buona educazione". E poi un bel finale, moggiano anche quello: "Le conclusioni del signor Rozzi sono offensive soprattutto nei riguardi dell'arbitro Pieri. Voglio sperare che il presidente dell'Ascoli si renda conto d'aver preso una cantonata e sappia scusarsi. Altrimenti, nell'interesse mio e della Roma, dovrò portarlo in Tribunale".
Il testimone-informatore della cena Moggi-Pieri è l'avvocato Luigi Girardi, legale dell'Ascoli calcio. Il quale racconta i fatti in modo ben diverso dalla versione fornita da Lucianone. "Sabato sera, verso le ore 23,45, insieme al consigliere dell'Ascoli Sabatini, al geometra Lattanzi e a un amico romano, sono entrato nel ristorante in questione", riferisce il legale ascolano. "Abbiamo dovuto aspettare un po' per trovare posto, poi ci hanno fatto accomodare in una saletta in fondo (cioè in una saletta appartata, ndr). Essendo io il legale dell'Ascoli, mentre ci stavamo sedendo mi hanno detto: dietro al vostro tavolo c'è un dirigente della Roma, Luciano Moggi, vostro avversario di domani - è seduto con l'arbitro Pieri. A quel punto mi sono girato e ho visto Moggi e Pieri con altri due o tre individui".
Verso l’1,15 nel ristorante è arrivato il segretario dell'Ascoli, Leo Armillei, che ha raggiunto il tavolo di Girardi. "Quando Armillei ha guardato verso il tavolo di Moggi e Pieri, tutti loro si sono alzati precipitosamente e sono usciti in gran fretta dal ristorante. Dopo qualche minuto, Moggi è rientrato da solo, ci ha raggiunto e ha salutato Armillei chiedendogli chi fossero quelle persone sedute al tavolo con lui, cioè noi, e Armillei ha risposto che eravamo suoi amici. Poi Moggi se n'è andato. Di fronte a questa situazione che mi è apparsa anomala, ho invitato il segretario della società a riferire al presidente Rozzi".
L'avvocato Girardi precisa ancora: "Durante la cena, durata almeno un'ora e mezza, cioè fino a quando non è entrato nel ristorante Armillei che essi conoscevano, al tavolo di Pieri e Moggi c'è stata sempre viva cordialità. Quando l'arbitro e gli altri, che Armillei ha riconosciuto nei guardalinee, se ne sono andati in tutta fretta e Moggi è rientrato per salutare, anche noi ci siamo alzati per andarcene. Era, ripeto, l'1,15 circa. E poiché nel frattempo anche fra di noi si era aperta una discussione in merito al da farsi di fronte a un fatto così, il proprietario del locale ci si è avvicinato dicendosi dispiaciuto di averci fatto accomodare proprio in quella saletta. Questi sono i fatti come sono realmente accaduti".
Del resto è difficile credere a un Moggi che cena solitario, di sabato sera, nella saletta riservata di un ristorante. Tanto quanto è difficile credere a una terna arbitrale che, nella stessa sera e alla stessa ora, capita per caso nello stesso ristorante e nella stessa saletta appartata... Infatti la testimonianza dell'avvocato Luigi Girardi - che sbugiarda Lucianone perfino in fatto di orari - viene pubblicata dal "Messaggero" il 28 novembre, e Moggi si guarda bene dal contestarla. Memore dei trascorsi ferroviari, Paletta ha un debole per i fischietti, e aspira al ruolo di manovratore.
LUCIANONE CIECO E SORDO All'inizio del 1980 Moggi lascia la Roma, ma non se ne va lontano: come ogni mercenario che si rispetti, passa direttamente alla concorrenza, all'odiata Lazio di Umberto Lenzini. I contorni del trasloco di Moggi da una sponda all'altra del Tevere non possono che essere sfumati, nebulosi, ambigui. Il personaggio, infatti, è già doppio e triplo, già aduso a muoversi nell'ombra e pro domo sua. Comincia a lavorare per la Lazio in maniera ufficiosa, mentre si vocifera che stia per essere ingaggiato dal Napoli; poi, nel successivo maggio, viene ufficializzato come nuovo "direttore sportivo" della società laziale. Un mestiere inedito, questo: una specie di "mediatore", di trait d'union fra il presidente e i giocatori, un mestiere inventato proprio da Moggi. Un ruolo perfettamente consono al suo inventore: quello del supermanager-maneggione che affronta e risolve i più delicati problemi interni della squadra, che anticipa i rivali nel calciomercato, che coccola i giocatori, blandisce gli arbitri, si arruffiana i giornalisti a colpi di omaggi e gentili pensieri... Un vero factotum del presidente, schierato in primissima linea.
Il momento in cui Lucianone fa il saltafosso capitolino coincide con l'infittirsi delle voci che parlano di un calcio italiano ammorbato dalle scommesse clandestine, dal "Totonero". Fin da gennaio, il quotidiano romano "Il Messaggero" va scrivendo di "scandalo delle scommesse", e denunciando che "la credibilità del Campionato è scossa da voci che danno per possibile la manipolazione dei risultati con la collaborazione attiva degli stessi calciatori"; secondo il quotidiano romano, "fra le partite più chiacchierate" ci sono "Milan-Roma di Coppa Italia e Milan-Lazio del 6 gennaio", il cui risultato sarebbe stato manipolato. Le voci corrono da mesi, e i sospetti si appuntano in particolare sulla Lazio, cioè la nuova squadra di Lucianone.
Domenica 23 marzo 1980, con un blitz della Guardia di finanza in sei stadi di serie A subito dopo la fine delle partite, scoppia il primo grande scandalo del calcio italiano moderno. Sei sono le squadre coinvolte nella mega-truffa delle scommesse clandestine e delle partite truccate su cui indagano i sostituti procuratori romani Ciro Monsurrò e Vincenzo Roselli, che hanno disposto l'operazione giudiziaria: Milan, Perugia, Avellino, Genoa, Palermo, e soprattutto Lazio. Durante il clamoroso blitz i finanzieri arrestano ben quattro giocatori laziali: Giuseppe Wilson, Bruno Giordano, Massimo Cacciatori e Lionello Manfredonia.
Tutta "colpa" di un fruttivendolo romano con l'hobby delle scommesse clandestine, il trentaduenne Massimo Cruciani, che il 1° marzo ha presentato un esposto alla Procura di Roma contro alcuni calciatori che gli hanno fatto perdere un sacco di milioni, tradendo la promessa di "addomesticare" i risultati di certe partite. Anche il suo amico Alvaro Trinca, 45 anni, titolare del ristorante "La Lampara" della centralissima via dell'Oca - dove ogni giovedì sera lo scaramantico presidente laziale Umberto Lenzini va a cenare con mezza squadra e qualche dirigente, e dove sono soliti ritrovarsi i giocatori della Lazio - ci ha rimesso un bel po' di quattrini.
La notizia dell'esposto di Cruciani viene spifferata da una provvidenziale gola profonda al "Corriere dello Sport", che la pubblica l'indomani (2 marzo), compromettendo così gran parte dell'inchiesta. Ma quello che fa in tempo a emergere ha comunque dell'incredibile: giocatori di grido, e miliardari, che si vendono le partite per qualche decina di milioni, spesso d'accordo con i loro dirigenti, talvolta scommettendo sulla sconfitta della propria squadra. Alla fine la Lazio e il Milan verranno retrocessi in serie B dalla giustizia sportiva, che squalificherà quasi tutti i giocatori tirati in ballo da Cruciani e Trinca, per un totale di 56 anni di astinenza forzata dai campi di gioco". Tra i deferiti dall'ufficio indagini della Federcalcio c'è anche il direttore sportivo del Bologna Riccardo Sogliano, ex calciatore del Milan e ottimo amico di Moggi.
In questo scandalo epocale che scuote il mondo del calcio italiano fin dalle fondamenta, e che ha in alcuni giocatori laziali il suo epicentro, Lucianone non c'entra niente: il nome di Moggi, infatti, non comparirà una sola volta nelle migliaia di carte processuali, e neppure nei monumentali faldoni raccolti dal capo dell'ufficio indagini della Federcalcio Corrado De Biase, neanche in veste di testimone. Ed è naturale, visto che Lucianone è arrivato alla Lazio quando già la toto-truffa era in corso, e da tempo. Certo è strano che l'ex ferroviere, già così ambientato nelle retrovie del calcio, già così ricco di agganci e rapporti e contatti, già così occhiuto é orecchiuto nell'ambiente, non abbia mai sentito niente, non abbia mai saputo niente. Anche perché, in quei primi mesi del 1980, sono in molti a sapere, o almeno a sospettare. A cominciare dallo stesso allenatore della Lazio, Bob Lovati, passando per il medico sociale Renato Ziaco e il segretario generale Ferdinando Vona.
Del resto, come si potrà leggere nella sentenza del Tribunale di Roma sullo scandalo-scommesse, "già nel gennaio 1980 alcuni quotidiani... iniziavano a pubblicare vistosi servizi giornalistici su una vasta e ramificata attività di scommesse clandestine sulle partite di calcio, con possibili alterazioni dei risultati concordate tra calciatori e gestori delle scommesse". Strano che Lucianone non sappia niente, non abbia sentito niente, non abbia niente da dire, perché lui nel calcio ci vive e del calcio romano sa tutto: ha molti amici nelle redazioni dei giornali e degli uffici della Federazione, conosce bene e anche benissimo giocatori, allenatori e presidenti...
Trinca e Cruciani - aggiunge il Tribunale - hanno frequentato assiduamente gli -allenamenti della Lazio a Tor di Quinto, i ritiri prepartita tanto a Roma (la squadra biancazzurra si ritirava a Villa Pamphili alla vigilia di ogni partita casalinga) quanto in trasferta. Una sera - è lo stesso difensore laziale Wilson a confessarlo - Cruciani aveva raggiunto la Lazio in albergo alla vigilia di Milan-Lazio del 6 gennaio 1980 per consegnare un assegno di 15 milioni a Cacciatori. E Maurizio Montesi - uno dei calciatori laziali estranei allo scandalo - racconta ai giudici le avances di Cacciatori per indurlo a partecipare alla combine: profferte che lo avevano disgustato al punto da indurlo a simulare un infortunio d'accordo col medico sociale Ziaco (che in tribunale conferma tutto) per non giocare l'indomani la partita truccata contro il Milan.
In pratica Moggi, già con le mani in pasta in diverse società, già con le antenne "dritte e sensibili" che si è sempre vantato di avere, risulta essere ignaro di tutto. Per mesi e mesi calciatori di varie squadre si sono venduti le partite, hanno finto di sbagliare gol e di non riuscire a impedire le reti degli avversari, hanno giocato "a perdere" o "a pareggiare", hanno incassato assegni e frequentato bookmaker all'amatriciana. Da mesi e mesi il mondo del calcio era scosso da stranezze, ambiguità, maneggi, le voci si rincorrevano ricche di dettagli, ma lui, l'onnipresente e onnisciente Lucianone, non ha mai sentito niente, non s'è mai accorto di niente, non ha mai sospettato niente. Anche perché nessuno lo ha interrogato. Le conseguenze dello scandalo, per la Lazio, sono devastanti: la giustizia sportiva la retrocede in serie B e ne squalifica alcuni dei giocatori più rappresentativi. Il verdetto coglie Lucianone, ormai ufficialmente direttore sportivo, in mezzo al guado. Ma lui non è tipo da scoraggiarsi, anzi è proprio nelle avversità e negli scandali che dà il meglio di sé.
Il nuovo allenatore Ilario Castagner, prenotato da Moggi per la nuova stagione laziale, gli chiede di ingaggiare il centrocampista della Nazionale olandese Willy Van de Kerkhof. Lucianone l'accontenta subito, solo che - forse per sbaglio, forse per risparmiare - compra un altro Van de Kerkhof, il fratello René, anche lui della Nazionale olandese, ma attaccante. L'arrivo di René Van de Kerkhof a Roma, per la presentazione ufficiale alla stampa, coincide con la notifica della retrocessione in B della Lazio. In serie B i calciatori stranieri non possono giocare, e comunque non è in serie B che il campione olandese vuole finire la sua carriera; così gira i tacchi e se ne torna in Olanda senza neppure incontrare i giornalisti. L'esordio ufficiale del general manager Lucianone Moggi in casa della Lazio non potrebbe essere più sciagurato.
Intanto, in coda allo scandalo-scommesse, fa scalpore la denuncia dell'avvocato vicentino Ugo Dal Lago (che da anni assiste squadre e calciatori in vari processi, sportivi e non), il quale dichiara fra l'altro ai magistrati: "Seppi dal presidente dell'Ascoli Costantino Rozzi che circolavano voci circa l'interessamento del presidente della Federcalcio Artemio Franchi (che un anno più tardi risulterà tra -gli affiliati alla Loggia P2, ndr) e dell'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone per la salvezza della Lazio".
Nell'occasione, Dal Lago cita anche le confidenze del direttore sportivo del Brescia, Nardino Previdi, su presunti condizionamenti di alcune partite "a opera dell'arbitro fiorentino Gino Menicucci". Raggiunto da comunicazione giudiziaria (e in seguito prosciolto da tutte le accuse), Menicucci replica con una querela. Previdi viene addirittura arrestato per reticenza, dopo aver negato di aver detto le cose riferite da Dal Lago. Secondo l'avvocato veneto, Previdi gli aveva parlato di presunti debiti di gioco di Menicucci, la qual cosa rendeva l'arbitro particolarmente vulnerabile sul piano patrimoniale: fatto peraltro noto - sempre secondo i de relato di Dal Lago - ad "almeno dieci direttori sportivi, tra cui quello del Parma, Borea, e quello del Napoli, Vitali. Previdi aggiunse che sul piano tecnico Menicucci arbitrava molto bene e che, quando non c'era niente da guadagnare, arbitrava in modo eccellente". D'altra parte, per via di un suo dirigente che aveva regalato un orologio proprio a Menicucci (alla vigilia della partita casalinga col Milan nel campionato 1974-75), il Foggia era stato penalizzato di 6 punti e di conseguenza era retrocesso in serie B.
La stagione 1980-81 della Lazio retrocessa in serie B per lo scandalo del "Tototruffa" è un calvario. Il presidente Lentini si ammala, e la società è allo sbando. Non vengono pagati i "premi partita" ai calciatori, e gli stessi stipendi, nel dicembre 1980, cominciano a essere versati in ritardo, perfino con assegni a vuoto. La squadra, per protesta, proclama un clamoroso sciopero: senza stipendio, i calciatori laziali minacciano di non entrare in campo.
Di questa caotica situazione Lucianone tenta di approfittare per ottenere pieni poteri dalla dirigenza. E per agevolare la propria investitura, non esita a schierarsi dalla parte della società inadempiente e contro i giocatori protestatari: "Di scioperi non ne voglio neanche sentir parlare!", tuona, e aggiunge minaccioso: "Ho già convocato la squadra Primavera!" - se non giocheranno i titolari in sciopero, lui manderà in campo i ragazzini...
Ma tanto zelo non viene adeguatamente ripagato. Nel febbraio 1981, infatti, la dirigenza laziale affida pieni poteri all'ex arbitro Antonio Sbardella. Per Moggi è uno schiaffo, un'onta, una mortificazione. La sua reazione è tipica del personaggio: "Mi sento come un cane bastonato", dichiara. "Se la società è in una situazione catastrofica non è certo colpa mia. Comunque, fino alla fine dell'anno la direzione della squadra spetta a me. Dopo vedremo: se qualcuno sarà stato più bravo di me, o se non mi sarà più possibile lavorare, me ne andrò in punta di piedi come sono arrivato, anche se ho un contratto triennale. Naturalmente anche in questa circostanza la società si è comportata male con me... Avrei potuto essere avvisato prima, dell'arrivo di Sbardella, invece di saperlo dai giornali! I rapporti nella Lazio non sono leali, sembra che ci siano dei partiti [fazioni, ndr], qualcuno mi ha visto amico di qualcuno, mentre io sono amico di tutti".
Al termine del campionato 1980-81, la Lazio rimane in serie B. Nell'estate 1981, in pieno calciomercato, Lucianone perde le staffe: "Io alla Lazio sono solo il fedele esecutore di quello che mi viene ordinato", poi avverte: "Sia chiaro che nessuno mi dovrà ritenere responsabile della campagna acquisti della Lazio!". È evidente che è stato completamente scavalcato ed emarginato. La sua carica di direttore sportivo laziale si è ridotta a pura etichetta.
Roma per Moggi, è ormai una seconda pelle. Il toscano di Monticiano ha assorbito perfino la parlata romanesca. Tutti i rapporti che potevano servirgli li ha già allacciati. Ma le squadre, nella capitale, sono soltanto due: la Roma e la Lazio. E lui le ha già cavalcate entrambe. Gli occorre una nuova sponda, un nuovo palcoscenico.
Fra i tanti amici romani di Lucianone c'è Ezio De Cesari, vicedirettore del "Corriere dello Sport", toscano come lui. È proprio De Cesari che gli dà l'imbeccata giusta: il Torino calcio, ceduto dal vecchio commendatore dello scudetto, Lucio Orfeo Pianelli, a Sergio Rossi, un manager che guida la Comau (una società dell'indotto auto, area Fiat). Torino è una piazza meno tumultuosa, più discreta, l'uscita di sicurezza ideale dal vicolo cieco di Roma. Un'occasione imperdibile per salvare la faccia. Il Torino di Rossi è una società dalle rinnovate ambizioni ma di scarso rischio: se vince è un miracolo, se perde nessuno si scandalizza. Così, nell'aprile 1982, mentre la Lazio lotta per la promozione, Moggi in serie A ci ritorna per i fatti suoi: come direttore sportivo del Torino.
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