A CAVALLO DEL TORO Lucianone alla corte granata non ci arriva da solo. Nella primavera del 1982 il nuovo presidente del Torino, Sergio Rossi, nomina amministratore delegato della società tale Luciano Nizzola, un avvocato che gli dà una mano nelle cause civili della Comau. Cuneese di Saluzzo, ex alpino, anche Nizzola come del resto Rossi di calcio capisce poco e niente. Così Lucianone, unico intenditore della compagnia, potrà fare il bello e il cattivo tempo.
I due Luciani legano subito, se l’intendono a meraviglia e diventano amiconi inseparabili: nell’ambiente li chiamano "il Gatto e la Volpe" (chi dei due sia la volpe, è facile da capire). Di giorno lavorano a stretto contatto. La sera fanno le ore piccole nei ristoranti sulla collina di Chieri (dove abita Nizzola) o nel centro di Torino, per lunghe partite a poker o a scopone.
A Torino, Moggi cambia un’altra volta pelle. Smette i panni romaneschi e provinciali e si inventa un look più sobrio e manageriale. Capisce la crescente importanza della tivù, e fa il possibile cioè poco per riverniciare la propria immagine. Si sottopone perfino a una dieta ferrea, e comincia a indossare abiti che almeno nelle intenzioni dovrebbero attagliarsi meglio a un rispettabile e telegenico manager pallonaro. Anche l’occhio, si sa, vuole la sua parte. Ma oltreché alla forma, il nuovo direttore del Toro bada soprattutto alla sostanza. Così si reca a Sarajevo, e il 29 aprile annuncia di avere ingaggiato la stella jugoslava Safet Susic. Peccato che anche l’Inter sostenga di aver acquistato quello stesso giocatore. In effetti, si scopre che Susic ha firmato due contratti, sia con l’Inter, sia col Torino.
La seconda prodezza di Lucianone in casa Toro è del maggio 1982. Moggi tratta l’acquisto del centravanti del Catanzaro Carlo Borghi. Raggiunto l’accordo con il giocatore e con la società calabrese, si passa alla stesura del contratto. Lucianone non è mai stato un gran conoscitore dei regolamenti, da buon italiano li considera inutili perdite di tempo. E benché si fregi del titolo di direttore sportivo, in quella circostanza dimentica che i contratti di ingaggio per la stagione successiva non possono essere sottoscritti prima del lunedì che segue la conclusione del campionato. Il torneo termina domenica 16 maggio (vincerà la Juventus fra roventi polemiche, staccando la Fiorentina di un solo punto all’ultima giornata): il contratto fra il Torino e il Catanzaro per Borghi porta invece la data del 14 maggio. Salva la frittata un provvidenziale intervento del segretario generale della società granata, Federico Bonetto, che ritocca la data sul documento: "Se presentiamo il contratto così, ci mettono tutti sotto inchiesta...". Il Torino cede poi al Catanzaro il mediano Giacomo Ferri, ma l’affare si complica perché il giocatore non accetta il trasferimento. E, secondo il presidente calabrese Adriano Merlo, quel gran rifiuto avviene "su istigazione della dirigenza del Torino, in particolare di Luciano Moggi".
Alla fine la trattativa sfuma. A giugno, Moggi e Nizzola volano in missione in Spagna nello stesso periodo del Mundial di Enzo Bearzot, a caccia di un grande campione da portare subito al Torino del danaroso e impaziente neopresidente Rossi. E non tornano certo a mani vuote. Il fuoriclasse scovato da Gatto e Volpe a Torremolinos, nel ritiro bunker dei campioni del mondo, è un argentino di nome Patricio Hernández, detto Pato. Un mezzo brocco, ma Lucianone lo spaccia ai quattro venti come un fuoriclasse della Nazionale argentina, il vice-Maradona. Anche perché l’operazione costa al Torino la rispettabile cifra di lire 5 miliardi.
L’inganno dura poco: ogni volta che la Nazionale argentina deve sostituire il Pibe de oro, manda in campo Valencia, o Calderón, o Barbas. Hernández mai: resta sempre in panchina. E il povero presidente granata ha dovuto sborsare per quel Carneade di Pato quanto ha speso il Napoli per l’olandese Krol, e l’Inter per l’austriaco Prohaska; per non parlare di Michel Platini, il genio francese comprato dalla Juventus per appena 150 milioni in più...
Da dirigente del Toro la notorietà di Lucianone cresce ancora. E intorno a lui chissà perché crescono anche i sospetti. Piccolo esempio: il dopopartita di Pisa-Torino (vinta dai granata per 1-0), il 2 gennaio 1983. Infuriato per un plateale calcio di rigore negato dall’arbitro romano Vittorio Benedetti alla sua squadra, il presidente del Pisa Romeo Anconetani sparacchia dichiarazioni di fuoco contro Moggi, che accusa di avere condizionato l’arbitro.
Scrive il quotidiano La Nazione: "Luciano Moggi, ex capostazione, approdato chissà come nel mondo del calcio, è dipinto da Anconetani (ma non soltanto da lui...) come personaggio potentissimo in quel di Roma, dove guarda caso risiedono i massimi vertici del mondo arbitrale. E l’arbitro di Pisa-Torino proveniva proprio dalla Capitale". Sono tempi difficili, quelli, per il nuovo Torino di Rossi, Nizzola e Moggi. Il pubblico si è allontanato dalla squadra, non sopporta la mezza classifica dopo avere lottato per cinque stagioni alla pari con la Juventus per lo scudetto.
Il Toro, nel campionato 1981-82, ha rischiato la retrocessione in serie B, e si è salvato in extremis solo grazie all’abilità di un allenatore emergente, reduce da una tormentata esperienza al Milan: Massimo Giacomini. Ma Giacomini, per la stagione 1982-83, passa al Napoli. Così Moggi decide di assumere Eugenio Bersellini, che ha esaurito il suo ciclo nell’Inter: Lucianone gli promette mari e monti, ma poi gli affida una squadra appena decente. E il campionato dei granata lascia molto a desiderare. All’epoca i posti-Uefa riservati ai club italiani sono solo due, e quando a fine stagione il Torino ne viene escluso, Bersellini diventa il capro espiatorio. Il quotidiano Tuttosport pubblica una tabella per dimostrare come le squadre allenate da lui crollino puntualmente nel girone di ritorno. Il tecnico s’infuria, ma i cronisti che seguono la squadra negli allenamenti al vecchio e glorioso stadio Filadelfia gli spiegano che il quotidiano sportivo torinese è diretto Piero Dardanello, uno dei migliori amici di Moggi. Infatti, dopo l’avvertimento a mezzo stampa, Bersellini viene puntualmente licenziato.
Liberatosi dell’incolpevole Bersellini, Moggi ingaggia Gigi Radice. Un ritorno pieno di significati: è l’allenatore dello scudetto granata del 1976, strappato alla Juventus dopo una rincorsa travolgente. L’unico scudetto degli ultimi 35 anni in casa Toro, che fa di Radice uno dei miti della tifoseria granata. E in effetti i risultati non si fanno attendere: il Toro chiude il campionato 1982-83 all’ottavo posto in classifica, quello 1983-84 al quinto, e quello 1984-85 (vinto a sorpresa dal Verona di Osvaldo Bagnoli) al secondo. Un secondo posto pieno di rimpianti: sarebbe bastato qualche piccolo ritocco, per esempio un portiere appena migliore di Silvano Martina, per battere il Verona dell’Osvaldo, amico sincero di Radice e, come lui, nato in quella grandiosa fucina di allenatori che è stato il Milan degli anni Cinquanta e Sessanta.
Mentre fa il direttore sportivo del Toro, Moggi si fa anche gli affari suoi. E allarga il proprio raggio d’azione, spingendo alcuni amici danarosi a entrare nel mondo del calcio: è il caso di Alvaro Amarugi, un imprenditore maremmano già presidente del Grosseto, che sollecitato da Lucianone acquista il Cagliari. Moggi, con Amarugi presidente cagliaritano, realizza numerose operazioni: emblematico il caso di un giocatore che va e torna dalla Sardegna a Torino, il centrocampista Danilo Pileggi, ceduto e poi riacquistato due volte dalle due società in un ping-pong incomprensibile. Il Cagliari nel 1983 finirà in serie B, Amarugi ci rimetterà svariati miliardi e sarà poi costretto a farsi da parte sull’onda dell’impopolarità dilagante presso i tifosi cagliaritani. Morirà qualche anno più tardi dimenticato da tutti.
I primi anni Ottanta sono gli anni d’oro del calciomercato, e Moggi si muove in quell’ambito come un padrino riverito e sempre più potente. Per gli amici, e per gli amici degli amici, diventa un gigantesco ufficio di collocamento ambulante: allenatori, dirigenti, procuratori, calciatori disoccupati o male in arnese, vanno da lui a postulare, e lui trova una sistemazione per tutti, una soluzione a ogni problema. All’inizio del 1985, mentre i granata si avviano a chiudere il campionato al secondo posto, Moggi stipula col Torino un nuovo contratto triennale: Lucianone sarà il direttore sportivo granata fino al 1988. A fine stagione, un referendum fra i lettori del settimanale Guerin Sportivo gli assegna il premio di "direttore sportivo più abile".
I due Luciani il Gatto e la Volpe fanno bene al Toro. E i tifosi granata, dopo il secondo posto, cominciano a crederci: ora vogliono lo scudetto, e pretendono una campagna acquisti adeguata all’obiettivo. Lucianone punta ad assicurarsi il forte attaccante dell’Inter Aldo Serena, ma stavolta la Juve è più scaltra e arriva prima. Per colui che passa come il re del calciomercato è uno smacco bruciante. E tenta di rimediare con un comunicato: "Il Torino calcio rende noto, per doverosa informazione verso i tifosi, che tutti gli sforzi effettuati per ingaggiare il giocatore Aldo Serena sono stati vanificati dai rapporti instauratisi fra Inter e Juventus, che hanno reso assolutamente impossibile alla società il raggiungimento del proprio obiettivo, nonostante la dichiarata disponibilità del Torino a corrispondere il prezzo richiesto dal calciatore".
Ma l’ira dei tifosi granata per il mancato ingaggio di Serena si abbatte ugualmente sulla dirigenza del Torino. Si radunano a centinaia davanti alla sede della società, sbandierano uno striscione con scritto: "Rossi-Nizzola-Moggi è ora di finirla, i tifosi del Toro non sono dei pirla!", e scandiscono slogan il più urbano dei quali definisce la triade "Servi degli Agnelli". Per i tifosi del Toro, infatti, al danno del mancato arrivo di Serena si unisce la beffa dell’ingaggio dell’attaccante da parte dell’odiata Juve. Nel campionato 1985-86 il Torino rimedia un modesto quinto posto, ma quel che è peggio è che la Juventus vince lo scudetto. Per cui la tifoseria granata accentua l’ostilità verso il presidente Rossi e verso il direttore sportivo Moggi.
Nell’autunno 1986, alla ripresa del campionato, molti dei sostenitori del Toro disertano le partite della squadra in segno di protesta. Nella società granata la situazione si fa critica. Mentre la squadra in campo traccheggia, il presidente Rossi comincia a meditare di passare la mano. I veri reggenti sono i due Luciani Moggi e Nizzola che, interpellati dalla stampa circa le voci di un cambio di proprietà, dichiarano: "Noi non ne sappiamo niente".
Crescono anche le tensioni fra Lucianone e l’allenatore. Gigi Radice è una persona seria, e non sopporta lo stile-Moggi. Di Lucianone, in particolare, non gradisce le promesse non mantenute, le operazioni di mercato avviate e non concluse, e soprattutto il rapporto privilegiato che il direttore sportivo intrattiene con alcuni giocatori. Un rapporto scorretto e ambiguo, che crea problemi all’allenatore e che non giova alla compattezza della squadra. È il caso del fuoriclasse brasiliano Junior, che Moggi ha comprato nel 1984 su richiesta di Radice, e che l’allenatore ha trasformato nel cardine della squadra: Lucianone, però, lo gestisce come cosa sua. Un giorno l’allenatore vieta a Junior di partecipare al famigerato Processo del Lunedì condotto dal giornalista Aldo Biscardi – uno dei più fraterni amici-confidenti di Moggi.
Informato in tempo reale dell’accaduto, Lucianone dimostra subito all’allenatore chi comanda: sequestra Junior e lo costringe a viva forza a intervenire nel programma dell’amico Aldo. Logico che i rapporti fra giocatore e allenatore si deteriorino. Pochi giorni dopo, sostituito durante una partita, Junior inveisce contro Radice, il quale dichiara: "Io sono un allenatore, non un assistente sociale". Il brasiliano ribatte a muso duro: "Se io ho bisogno di un assistente sociale, lui ha bisogno di uno psichiatra".
Nella classifica finale del campionato 1986-87, il Torino moggiano si piazza all’undicesimo posto. La tifoseria ritorna sulle barricate. "Vendete il meglio senza comprare noi la domenica andremo a sciare!", scandiscono gli ultras sotto la sede granata. E giù insulti e sberleffi per Rossi e Moggi. Nizzola tenta una patetica difesa d’ufficio: "Grazie alla gestione portata avanti dal cavalier Rossi, il Torino è una delle società più solide del calcio italiano. E il direttore sportivo Luciano Moggi ha la piena fiducia del presidente e del consiglio di amministrazione". Ma la contestazione dei tifosi non si placa: il sabato pomeriggio, lo stadio Filadelfia è un solo grido: "Moggi! Moggi! Quanti soldi rubi oggi?!".
L’ex ferroviere capisce che è meglio cambiare aria. E a fine maggio 1987, benché il suo contratto scada nel 1988, lascia il Toro. "Difficoltà ambientali e di lavoro sorte negli ultimi tempi nell’assolvere le mie funzioni non mi permettono di continuare la collaborazione con il Torino", comunica alla stampa. Poi aggiunge sibillino: "Sono comunque disponibile per dare ancora una mano, se mi sarà richiesto". Un’ora dopo, Sergio Rossi lascia la presidenza della società granata. Beppe Dossena, regista e bandiera della squadra, commenta: "È stato Moggi a informarmi che il Torino ha cambiato padrone, ma non ho capito perché anche lui se n’è andato". Lo si capirà nel giro di pochi giorni, quando il Napoli di Ferlaino e Allodi fresco vincitore dello scudetto 1986-87 grazie a Maradona annuncia ufficialmente il nome del suo nuovo direttore sportivo: Luciano Moggi.
Il presidente partenopeo Corrado Ferlaino è deciso a fare le cose in grande. Il Napoli, che ormai è la quarta potenza italiana in materia di tifo (alle spalle della Juventus e delle due milanesi), nella nuova stagione dovrà difendere lo scudetto e disputare la Coppa dei campioni. Insomma, urgono rinforzi, sia in campo sia fuori. Così, dal Brasile arriva sotto il Vesuvio, a suon di miliardi, il centravanti della Nazionale carioca Antônio Careca; e da Torino approda, a colpi di centinaia di milioni, il direttore sportivo Luciano Moggi. Del resto, Italo Allodi è molto malato, e il suo facente funzioni Pierpaolo Marino è troppo giovane; Moggi, allievo di Allodi, è ormai molto più potente di lui: si mormora che eserciti addirittura qualche influenza su alcuni arbitri. Il discepolo ha superato il maestro.
A Napoli, Moggi c’era già stato una volta, più di vent’anni prima: in viaggio di nozze, con la fresca sposa Giovanna, 60 mila lire in tasca e una scassatissima Fiat 600 comprata a rate. Nel giugno 1987 ci ritorna da miliardario, a bordo di una fiammante Mercedes. Stavolta intenzionato a mettere radici: di lì a poco comprerà una splendida villa sulla collina di Posillipo con vista sul Golfo, dove manterrà sempre la sua residenza, anche quando lascerà la squadra partenopea.
Sotto il Vesuvio Lucianone non ci arriva a mani vuote. Porta in dote al presidente Ferlaino un grazioso cadeau, il terzino granata Giovanni Francini. Un giocatore al quale sono interessate varie squadre, compresa la Juve, e che la Roma vuole fortissimamente: il presidente giallorosso Dino Viola (nemico giurato di Moggi) è pronto a sborsare ben più dei 5 miliardi offerti dal Napoli. Ma grazie a San Gennaro-Lucianone, Francini si accasa a Napoli. Il Torino ci rimette un bel po’ di denaro, la Roma perde un giocatore importante: l’unico che ci guadagna è Moggi, che si dimostra più potente di tutto e di tutti. Anche del denaro.
Al Napoli c’è un giovanotto di belle speranze, Luigi Pavarese, un tipo che ha fatto la gavetta come galoppino della segreteria dell’Avellino calcio e che nel 1985 è finito alla corte di Ferlaino con i gradi di segretario. Pavarese diventa subito il braccio destro di Moggi, e fra i due nasce un sodalizio che lascerà il segno. Chi invece non gradisce l’arrivo di Moggi è il general manager della società partenopea Pierpaolo Marino, il quale benché invitato da Ferlaino a restare si dimette perché, dice, "i miei metodi sono diversi da quelli di Moggi".
Lucianone non si scompone: "Ho scelto di venire al Napoli perché l’ambiente mi affascina e perché conosco Ferlaino da tantissimi anni", dichiara serafico, "e sono qui per lavorare e non per litigare. So che il Napoli è sotto gli occhi di tutti perché ha vinto scudetto e Coppa Italia, ma io sono un tipo coraggioso per natura". L’allenatore partenopeo è Ottavio Bianchi, un uomo dal caratteraccio leggendario: difficile che possa andare d’accordo con un tipo come Moggi. Tanto più che Lucianone come ha già imparato a fare a Torino non sa stare al suo posto, si comporta da vero e unico padrone della squadra. Infatti anche a Napoli comincia subito a scavalcare l’allenatore allacciando rapporti diretti e preferenziali con alcuni giocatori. Primo fra tutti il numero uno: Diego Armando Maradona, personaggio intrattabile, divo capriccioso e impossibile. Ma anche con lui Lucianone riesce a entrare in perfetta sintonìa.
Scaramantico come ogni buon napoletano, il presidente Ferlaino ha ingaggiato Moggi a peso d’oro non solo per la sua onnipotenza, ma anche per l’alone di fortuna che si porta appresso. Una fortuna che tuttavia non si manifesta nella calda giornata del 9 luglio 1987, quando l’urna di Ginevra decide il calendario del primo turno di Coppa dei campioni: il sorteggio accoppia subito il Napoli al temutissimo Real Madrid, una delle favorite al successo finale.
A settembre il Napoli affronta lo squadrone spagnolo, e ha l’agio di giocare la partita d’andata in un Santiago Bernabeu deserto: l’incontro, infatti, si disputa a porte chiuse per punire le gravi intemperanze dei tifosi madridisti nella stagione precedente. Ma la squadra partenopea non sfrutta l’occasione favorevole: è fuori forma, rinuncia a giocare, e incassa due gol senza segnarne nessuno. Dopo la partita, Moggi spalleggiato da qualche giocatore, come Salvatore Bagni lamenta provocazioni da parte degli spagnoli e apre il fuoco sul Real a mezzo stampa.
Polemiche gratuite e strumentali, che Lucianone alimenta col preciso obiettivo di far lievitare l’attesa già grande per la partita di ritorno. Al San Paolo, il Napoli per mezz’ora è padrone dell’incontro: va in gol con Francini, sfiora il raddoppio; ma sul più bello, quando la rimonta sembra a portata di mano, subisce il pareggio di Butragueño. È la fine del sogno europeo. Un duro colpo alla fama di portafortuna che accompagna Lucianone.
Rimane il campionato, e il Napoli è la squadra favorita per il nuovo scudetto. Anche perché Maradona & C. hanno un solo possibile rivale: il Milan berlusconiano di Arrigo Sacchi, che però parte male. Così la squadra partenopea prende subito il comando della classifica, anche se il suo gioco non incanta. A Milanello, di tanto in tanto, l’allenatore del Milan esterna le sue perplessità sul regolare andamento del torneo: confida addirittura di temere, più del Napoli di Maradona, il direttore sportivo Moggi per la sua vicinanza al mondo arbitrale.
Il fatto è che la squadra diretta da Lucianone dispone del più grande fenomeno calcistico in circolazione, Maradona, grazie al quale ha già vinto il primo scudetto; ma il fuoriclasse argentino è tanto genio in campo quanto sregolatezza fuori dal campo, è praticamente ingovernabile. "Il problema-Maradona non esiste", proclama Moggi dopo l’ennesima intemperanza del Pibe, "la verità è che tutte le squadre vorrebbero avere il problema di gestire Diego". Lucianone sa bene che anche le sue fortune di direttore sportivo partenopeo dipendono in gran parte dal piede dorato del fuoriclasse argentino.
Ai primi di ottobre il Napoli perde 1-0 sul campo del Pisa. Ma subito inoltra reclamo perché, durante la partita, un piccolo oggetto metallico lanciato dagli spalti dello stadio pisano ha colpito un suo giocatore, Renica. Moggi già pregusta la vittoria a tavolino per 2-0, e la notizia che il giudice sportivo, prima di pronunciarsi, ha disposto un supplemento di indagine lo innervosisce. "Sono meravigliato... La giurisprudenza non lascia dubbi sull’esito del verdetto", sibila Lucianone in veste di raffinato giurista. Il Pisa è di parere opposto, e la polemica si fa rovente. Quando infine il risultato del campo viene ribaltato con l’assegnazione della vittoria al Napoli, il presidente pisano Anconetani protesta: dice che è "una vergogna", e sostiene che il verdetto del giudice sportivo è stato sollecitato "da una campagna di stampa orchestrata a senso unico", alludendo ai tanti amici giornalisti di Lucianone.
A novembre, piccolo giallo con polemiche. Alla vigilia della partita della Nazionale contro la Svezia, che si giocherà a Napoli, molte migliaia di biglietti, anziché essere messi in vendita nei canali ufficiali, finiscono nel giro del bagarinaggio e del mercato nero. Risulta che circa 10 mila tagliandi siano stati regalati dalla Federazione ai Napoli club "per garantire alla Nazionale azzurra il calore del pubblico, a cominciare dai settori più popolari". La polemica coinvolge il Napoli, che ha smistato i biglietti, ma Lucianone è perentorio: "Noi del Napoli non c’entriamo niente: ci siamo limitati alla distribuzione tecnica del carico dei biglietti".
All’inizio del 1988, il Napoli è saldamente al comando della classifica, e di partita in partita il suo vantaggio sul Milan che insegue al secondo posto tende ad aumentare: a fine marzo arriva a 4 punti. Ma, a partire da aprile, accade l’incredibile. In tre domeniche consecutive, la squadra diretta da Moggi comincia improvvisamente a perdere punti su punti. Il vantaggio del Napoli sul Milan si riduce da +4 a +1. Poi c’è lo scontro diretto, nella data storica del 1° maggio 1988. Il Napoli è in fibrillazione, metà della squadra è contro l’allenatore Bianchi. E benché giochi la partita-scudetto in casa, nella bolgia amica del San Paolo, perde l’incontro(per 2-3) e lo scudetto.
L’inopinata débacle del Napoli culmine di un rapido e inspiegabile crollo della squadra suscita polemiche a non finire. Voci, sospetti, illazioni: si parla di partite combinate e di scudetto venduto. Poi, qualche anno dopo, un’inchiesta giudiziaria per traffico di droga fornirà alcuni elementi che potrebbero spiegare l’inspiegabile. A tutta prima, i giocatori tentano di fare dell’allenatore il capro espiatorio del clamoroso crollo partenopeo. La società, invece, addossa tutte le colpe a quattro giocatori (Bagni, Ferrario, Giordano e Garella), nessuno dei quali quando si dice il caso! è fra quelli che sono nelle grazie di Lucianone.
La squadra, che da tempo mal sopporta quel galantuomo dal forte carattere che è Ottavio Bianchi, diffonde un incredibile comunicato contro l’allenatore: una rivolta collettiva mai vista prima nel mondo del calcio. Il direttore sportivo Moggi che dovrebbe fare da trait d’union fra la squadra e la società tace. In realtà Lucianone, sotto sotto, sta dalla parte dei giocatori, mentre il presidente Ferlaino sta con Bianchi. Così la società partenopea si limita a definire quella gravissima iniziativa "inopportuna" a dirsene "rammaricata" e a sollecitare "una serena riflessione".
Una presa di posizione ponziopilatesca voluta da Moggi, dal momento che il presidente "ribadisce la fiducia nell’allenatore Bianchi". In perfetto stile andreottiano, Lucianone tenta di far quadrare il cerchio mediando tra Ferlaino che vuole tenere Bianchi, e la squadra che lo vuole cacciare: lo fa attraverso una messinscena a base di colloqui a quattr’occhi con tutti i giocatori, ricevuti uno a uno nel suo studio presso la sede del Napoli calcio, come se fosse un presidente della Repubblica alle prese con le consultazioni. E mentre Moggi consulta i giocatori, la sede sociale è presidiata dalla polizia: i tifosi, schierati con Bianchi e inferociti per la perdita dello scudetto e per l’incredibile comunicato, inveiscono contro i giocatori in particolare contro i quattro capri espiatori al grido di "venduti" "traditori", "pagliacci", "ladri".
Alla fine prevale la linea di Ferlaino, e l’allenatore resta al suo posto. Pur "con qualche perplessità" per una situazione che rimane "difficile e pericolosa", Bianchi accetta di rimanere, ma precisa: "È necessario che ci sia chiarezza da parte di tutte le componenti della società Napoli... Ognuno deve fare il suo mestiere, senza tentare di fare il mestiere degli altri" forse le orecchie di Lucianone fischiano... Quanto all’improvviso crollo della squadra, Bianchi dice di non essere "in grado di trovare una spiegazione, mi domando solo come sia possibile che una squadra come questa possa perdere 4 partite di seguito". Infine precisa che accetta di restare al Napoli solo per "il rapporto molto buono che ho col presidente Ferlaino". Il direttore sportivo non viene mai nominato, come non esistesse. Invece Lucianone esiste, eccome, e si dedica ai quattro agnelli sacrificali, additati come responsabili del grande pasticcio e gettati in pasto alla tifoseria.
La prima stagione di Moggi al Napoli è dunque fallimentare. La squadra partenopea è stata eliminata al primo turno dalla Coppa dei campioni, e ha perso Coppa Italia e scudetto in maniera indecorosa. Lucianone viene accusato di non aver saputo governare la situazione interna alla squadra, proprio lui che si vanta di fare spogliatoio. In quello spogliatoio napoletano anarcoide e rissoso, con calciatori che sembrano giocare soprattutto contro l’allenatore, Moggi non ha saputo combinare niente. Colui che avrebbe dovuto rappresentare il valore aggiunto fuoricampo del Napoli si è rivelato un incapace. Per Lucianone è un brutto passo falso, un vero smacco per la sua immagine, anche se lui fa finta di niente, spaparanzato nella sua splendida villa-vista-mare a Posillipo, con codazzo di amici potenti sulla spiaggia di Capri.
Il problema cruciale del Napoli è ancora e sempre Maradona, perché l’asso argentino è sinonimo di gioie e dolori, vittorie e grattacapi, incassi e grane. Diego si allena quando gli pare, talvolta rifiuta perfino di seguire la squadra in trasferta. Fra capricci e polemiche, fa il bello e il cattivo tempo, in campo e soprattutto fuori. Senza orari e senza regole, si dà alla pazza gioia, tra donne e cocaina. Ma il suo enorme talento calcistico resta indispensabile per il Napoli e per Napoli. Nessuno è in grado di governare le sue bizze, men che meno chi dovrebbe farlo, cioè Moggi.
Quando la stella del fenomeno argentino si sarà spenta, Lucianone dirà: "Non ho mai saputo niente di quello che faceva Maradona fuori dal campo" salvo poi dichiarare l’esatto contrario: "Se non lo avessi saputo, non sarei stato un buon dirigente... sapevo, ma avevo possibilità di intervento limitatissime. Fuori dal campo, Maradona non era gestibile". Dunque, com’è ovvio, Moggi sa tutto di quello che Maradona combina negli spogliatoi e soprattutto nella vita privata: anche perché Lucianone è culo e camicia con molti giocatori napoletani, con i quali manterrà rapporti di grande confidenza anche in futuro (esempi: Massimo Crippa, Massimo Mauro, Ciro Ferrara). Ma fa finta di niente, perché Maradona serve anche a lui.
Pecunia non olet. Il fatto è che lo spogliatoio partenopeo è simile a un malfamato nightclub, dove circolano cocaina e sesso a volontà. Vizi che porteranno Maradona sotto inchiesta sia penale che sportiva e lo costringeranno a espatriare prima che le cose si mettano davvero male. Ma Lucianone asseconda il campione argentino in tutti i suoi voleri e capricci. Trova perfino il modo di sistemare suo fratello minore, Hugo, all’Ascoli dell’amico Rozzi, solo perché Maradona si è messo in testa di avere un altro campione in famiglia; in realtà Huguito, come lo chiama qualche buontempone, è un fior di brocco, già scartato da squadre di mezzo mondo prima di approdare in Italia.
Nel bel mezzo della bolgia napoletana, Moggi non perde il vizietto di servire più padroni, cioè di farsi soprattutto gli affari suoi. Anche da Napoli, dunque, continua a fare da consulente dietro le quinte per le società amiche: come il Taranto e la Salernitana, che dalla serie C salgono in B. Del resto, per Lucianone il Napoli è una cosa, e la sua personale carriera affaristica un’altra. Legarsi a tutti senza sposare nessuno è uno dei suoi motti preferiti.
Nell’estate del 1988 Moggi tenta un primo riscatto d’immagine attraverso la sua specialità, il calciomercato, dove ormai è considerato The Boss. Alla fine, "ancora una volta la Borsa del calcio si inchina davanti a Luciano Moggi: con due mosse dell’ultima ora, il general manager del Napoli è riuscito ad aggiudicarsi il granata Crippa e il brasiliano Alemão... Due botti arrivati per ultimi, quelli che hanno fatto più rumore, e come sempre a provocarli è stato lui, il despota del calciomercato.
Nell’ultima notte di mercato, Moggi è volato con un aerotaxi fino a Madrid, si è incontrato con il presidente dell’Atlético Madrid Jesús Gil, e ha comprato Alemão per circa 4 miliardi e mezzo". Come sempre, i botti di Lucianone Alemão e Crippa sono seguiti da lunghi strascichi polemici. Firmato il contratto per Alemão, il presidente dell’Atlético Madrid definisce Moggi "un despota con atteggiamenti da Humphrey Bogart nel ruolo di un gangster... Lui è venuto a Madrid con l’idea che qui siamo tutti coglioni". Il direttore sportivo della Roma interessato a comprare il granata Crippa, che però il Torino aveva definito incedibile, salvo cederlo subito dopo al Napoli di Lucianone commenta: "È stata confermata la coerenza e la moralità di certi personaggi".
Concluso da par suo il calciomercato, Moggi nell’agosto 1988 è a Madonna di Campiglio, nel ritiro precampionato del suo Napoli. E lì sfodera il pugno di ferro: non con Maradona o con i giocatori amici suoi, ma con il difensore Moreno Ferrario. Già incluso nel quartetto dei capri espiatori della rivolta anti-Bianchi e dello scudetto regalato al Milan, e quindi escluso dalla preparazione estiva, Ferrario viene deferito dalla società partenopea alla Commissione disciplinare della Lega calcio per avere rilasciato un’intervista polemica. A quel punto il giocatore chiede la rescissione del contratto che lo lega al Napoli. Il 23 settembre la Commissione disciplinare respinge le richieste di sospensione del giocatore avanzate dal Napoli, e condanna la società partenopea a risarcirgli i danni. Lucianone monta su tutte le furie: "È un verdetto assurdo, una decisione senza precedenti che ci lascia molto sorpresi... Vorrà dire che in futuro, in situazioni del genere, daremo medaglie al giocatore anziché prendere altre decisioni". Poi annuncia un ricorso al Coni, un ricorso al Tar, e per non sbagliare anche una causa giudiziaria in sede civile.
Un’altra delle quattro vittime sacrificali di Moggi è Salvatore Bagni, escluso dalla rosa e parcheggiato in attesa di essere ceduto. Dopo mesi di tira e molla, a novembre Moggi vende Bagni all’Avellino, benché fino all’ultimo sembrasse intenzionato a dirottarlo al Torino. La dirigenza granata messa di fronte al fatto compiuto attacca Lucianone. Il giocatore rivela: "Mentre Moggi parlava in Tv di un mio passaggio al Torino, sapeva che io lo stavo aspettando in un albergo di Caserta per firmare il contratto con l’Avellino". Alla fine di gennaio 1989 l’ex attaccante del Napoli Bruno Giordano terzo capro espiatorio ceduto da Moggi all’Ascoli nell’estate 1988 rievoca la stagione precedente, quella dello scudetto regalato al Milan: "Hanno dato alla gente quattro nomi da accusare. La verità è che qualcuno (Moggi, ndr) aveva già deciso di liberarsi di noi a fine campionato... Ci hanno fatto firmare una dichiarazione (con su scritto) che non volevamo scendere in campo, ma non era vero: in cambio ci hanno promesso un aiuto, ci avrebbero trovato una sistemazione". E a proposito delle consultazioni moggiane: "Moggi ha convocato i suoi giocatori al mattino, e ha dato un appuntamento a noi quattro nel pomeriggio. Abbiamo trovato la piazza piena di tifosi inferociti, e io ho detto a Moggi che quei trucchetti non li doveva fare. I tifosi hanno individuato in noi dei colpevoli, ma credo che poi abbiano capito la verità". E ancora: "Poco tempo fa, dopo la sconfitta del Napoli all’Olimpico, ho incontrato Moggi e gli ho chiesto: Chi l’ha venduta, stavolta, la partita?"; secondo l’ex attaccante del Napoli, di quel periodo "molte cose non si possono dire". Le dichiarazioni di Giordano inducono la Federazione ad aprire un’inchiesta. I giocatori del Napoli, per protesta, proclamano il silenzio stampa. Lucianone fa finta di niente.
All’inizio del 1989 il Napoli moggiano lotta testa a testa con l’Inter per lo scudetto, ed è in corsa per la Coppa Uefa. Ma altre polemiche, con voci e sospetti, lo accompagnano come un’ombra. A febbraio, per esempio, al termine di Napoli-Como, i lariani sconfitti accusano l’arbitro, il quale ha ritenuto valido un gol fantasma di Careca e in più ha espulso il giocatore Lorenzini costringendo il Como in inferiorità numerica. "Abbiamo avuto contro anche l’arbitro... Certe squadre forti devono vincere per forza", dichiara il direttore sportivo della squadra lombarda.
A marzo, per i quarti di finale di Coppa Uefa, si gioca Napoli-Juve: vince il Napoli grazie a un gol juventino annullato dall’arbitro tedesco Kirschen, per un inesistente fuorigioco, durante i tempi supplementari. Nel dopopartita, l’allenatore bianconero Dino Zoff accusa l’arbitro di avere influenzato il risultato. E il difensore juventino Pasquale Bruno dichiara: "L’arbitro ha preso decisioni che non riesco proprio a spiegarmi". La Juve inoltra una protesta ufficiale, l’Uefa apre una inchiesta interna, e Kirschen non arbitrerà più partite internazionali: è evidente il sospetto di un arbitraggio irregolare.
A maggio si gioca la finale di andata della Coppa Uefa tra Napoli e Stoccarda. Vince il Napoli, grazie a un inesistente calcio di rigore inventato dall’arbitro greco Germanakos. Il presidente della squadra tedesca Gerard Mayer Vorfelder attribuisce la sconfitta all’arbitraggio. "L’arbitro ha visto episodi che nessuno ha visto, né in campo né sugli spalti", gli fa eco l’allenatore, l’olandese Arie Haan. Poche ore dopo la partita, alle 4 della notte, i giornalisti Roberto Beccantini e Stefano Bizzotto (della Gazzetta dello Sport) vedono l’arbitro Germanakos e i suoi due guardalinee rientrare in uno dei migliori alberghi di Napoli, l’Excelsior, con tre avvenenti accompagnatrici: è il metodo-Moggi (ragazze squillo per gli arbitri) che verrà poi replicato a Torino.
Anche grazie agli aiuti arbitrali, il 17 maggio il Napoli conquista la Coppa Uefa, primo trofeo internazionale della storia partenopea e primo alloro vinto da Lucianone. "Questa è la migliore risposta a chi ci critica!", esulta Moggi, commosso fino alle lacrime. E durante la premiazione riceve i complimenti del presidente della Lega calcio: il suo ex sodale torinista Luciano Nizzola.
Sul versante del campionato, l’Inter ha ormai vinto lo scudetto con alcune giornate di anticipo, visti i punti di vantaggio che ha sul Napoli. È un finale senza storia. Ma la squadra diretta da Moggi riesce ugualmente a tenere accesa la fiamma del sospetto. A metà giugno si gioca Ascoli-Napoli (la squadra marchigiana è in lotta per non retrocedere in serie B). Il Napoli si presenta sul campo di Ascoli privo di ben sette titolari (compreso Maradona), e durante la gara fa entrare in campo il secondo portiere, Di Fusco, schierandolo addirittura nel ruolo di centravanti. Risultato: vince l’Ascoli per 2 a 0, e il Torino, anch’esso in lotta per non retrocedere, scatena polemiche e solleva sospetti sul gentile omaggio del Napoli alla società presieduta da Rozzi, buon amico di Moggi.
La Federcalcio apre un’inchiesta. "Il Napoli ha sempre onorato i suoi impegni al meglio delle sue possibilità", protesta Lucianone. "Chi cerca di gettare fango su questa verità lo fa solo per coprire gli errori gravissimi compiuti in passato durante la campagna acquisti (riferimento al Torino, ndr), e dovrà risponderne in altra sede... Il Napoli si riserva ogni azione a tutela della onorabilità della società e della professionalità dei propri calciatori".
Benché la stagione 1988-89 si stia chiudendo con il Napoli secondo in campionato e vincitore della Coppa Uefa, sotto il Vesuvio non c’è pace. Bianchi e Moggi, ormai, litigano pubblicamente. L’attaccante brasiliano Antonio Careca dichiara: "Non mi diverto più: qui al Napoli ogni giorno c’è una polemica, e se la società non interviene io me ne torno in Brasile".
Allora Lucianone sfodera il suo miglior andreottismo: "Io conosco Careca: attraversa un momento di sconforto che supererà presto". Anche Maradona, fischiato dagli spettatori durante una delle ultime partite, si scatena: "Quelli che mi hanno fischiato sono ignoranti e cretini". Finito il campionato, Ottavio Bianchi esausto se ne và. Al suo posto viene ingaggiato Alberto Bigon, fedelissimo di Moggi.
L’estate 1989 è tutta uno show Maradona-Moggi. Il fuoriclasse argentino tornato in Sudamerica per le vacanze non si presenta al ritiro precampionato del Napoli, e non dà più notizie di sé. Lucianone butta acqua sul fuoco: "Sono tranquillo: Diego e Coppola (il procuratore di Maradona, ndr) non mi hanno mai tradito, e non lo faranno neanche stavolta". Di settimana in settimana, Maradona da Buenos Aires annuncia e rimanda il suo ritorno in Italia. E Lucianone, di settimana in settimana, si arrampica sugli specchi: "Non sappiamo cosa sia successo a Diego, ma deve avere dei problemi seri, forse di natura psicologica... Io e Diego abbiamo un ottimo rapporto personale, per cui io, nonostante tutto, sono convinto che ritornerà fra noi al più presto".
Maradona però sostiene di non poter tornare in Italia perché a Napoli ha ricevuto minacce telefoniche e altri pesanti avvertimenti. Lucianone fa lo stupito: "Noi, di queste minacce, non ne sapevamo niente". Qualche giornale scrive di camorra e di droga, ma Lucianone è come Alice nel Paese delle meraviglie: "Il Napoli non era a conoscenza di ciò, e abbiamo ritenuto nostro dovere informarne immediatamente gli organi di polizia". Il tira e molla prosegue per tutto il mese di agosto. Maradona: "Io continuo ad andare d’accordo con Moggi, ma non vado più d’accordo con il presidente Ferlaino, per cui non torno... Moggi è una persona eccezionale, straordinaria, ma in questa faccenda non può fare niente per risolverla... È solo Ferlaino che può risolverla". Lucianone è compiaciuto ma fa finta di arrabbiarsi: "A Diego siamo andati incontro in ogni maniera, ma adesso non lo cerchiamo più. Diego sa che, come tutti i calciatori, ha dei diritti, ma anche dei doveri".
Finalmente, il 10 settembre, il divo argentino torna in Italia. E ricomincia con le bizze, i capricci, le polemiche. Siccome non si allena, viene escluso da alcune partite. Ma Lucianone con lui è sempre pieno di comprensione: "Non c’è nessun risentimento nei riguardi di Maradona. Io sono il primo a soffrire quando Diego non c’è". Mezza Italia vocifera che l’asso argentino sniffi cocaina, che sia ormai tossicodipendente, che frequenti ambienti camorristici ma il direttore sportivo del Napoli non ne sa niente. Del resto Lucianone, per Diego, è un vero amicone. A novembre, quando Maradona ritorna a Buenos Aires per sposarsi (con Claudia Villafañe, l’eterna fidanzata), Moggi presenzia alla fastosa cerimonia in rappresentanza del Napoli calcio. La megafesta nuziale è un’apoteosi di pacchianeria e pessimo gusto. Qualche giornale osa scriverlo. Lucianone insorge subito in difesa del suo pupillo multimiliardario: "Esprimiamo solidarietà a Maradona per gli attacchi di cui è stato fatto oggetto in occasione del suo matrimonio. Noi saremo al fianco di Diego in tutte le azioni che riterrà di fare a tutela della sua immagine e della sua personalità". All’inizio del 1990 il Napoli è al primo posto in classifica, tallonato solo dal Milan: anche lo scudetto 1989-90 sarà una contesa a due.
Domenica 11 febbraio lo scontro diretto Milan-Napoli finisce con un perentorio 3-0 per i rossoneri, che così scavalcano la squadra di Maradona al comando della classifica. Nonostante sia stato chiaramente battuto sul campo, il Napoli polemizza con l’arbitro Tullio Lanese che ha diretto l’incontro. Maradona, imbufalito, sbotta: "Non fatemi parlare dell’arbitro!"; Lucianone è più sottile: "Come i giocatori, anche gli arbitri possono sbagliare. L’arbitro Lanese è stato il peggiore in campo, ma sia chiaro che lo ritengo in buona fede". L’indomani Il Giornale di Napoli, sotto il titolo "Sospetti sul Milan-sprint che ha travolto il Napoli", scrive: "Un paio di frasi pronunciate da Bigon e Moggi sollevano molti dubbi sulla straripante forza agonistica dimostrata domenica dai rossoneri. La dichiarazione di Bigon è: Siamo stati battuti da una squadra disumana. E quella di Moggi: La cosa che più ci ha lasciati perplessi è la differenza di rendimento che il Milan ha avuto (fra la precedente partita) e quella di domenica con noi". "Nei tifosi più accesi", conclude il giornale napoletano, "è nato subito il sospetto che dietro la super-prestazione dei rossoneri contro il Napoli non ci sia soltanto l’allenamento. Sospetto alimentato dal fatto che domenica a San Siro non è stato effettuato (per sorteggio) il controllo antidoping".
Tanto per completare il panorama, Lucianone invia un telegramma di protesta al presidente della Federcalcio Antonio Matarrese, al suo amico Nizzola presidente della Lega calcio, e al designatore arbitrale Giovanni Gussoni, lamentando che l’arbitro Lanese avrebbe danneggiato il Napoli. Il successivo 4 marzo, dopo l’incontro Napoli-Genoa (vinto a fatica dai partenopei per 2-1), il presidente genoano Aldo Spinelli è arrabbiatissimo: "È stata una partita incredibile. I miei giocatori hanno fatto di tutto per far vincere il Napoli, in pratica la vittoria gliel’abbiamo regalata noi!". L’allenatore del Genoa lamenta invece l’ingiusta espulsione di un suo giocatore, e sostiene che il primo gol del Napoli "è stato fatto con una mano".
L’8 aprile, a Bergamo, il Napoli affronta l’Atalanta. A 10 minuti dal termine, sullo 0-0, il centrocampista partenopeo Alemão viene colpito al capo da un oggetto lanciato dagli spalti, forse una monetina. Segue una sceneggiata napoletana, con protagonisti il giocatore, il pittoresco massaggiatore Salvatore Carmando e Lucianone dalla panchina, per drammatizzare le condizioni di Alemão. Il quale viene fatto rientrare precipitosamente negli spogliatoi come se l’avesse investito un Tir. È il pretesto che occorre a Lucianone per inoltrare ricorso e chiedere la vittoria a tavolino. Pochi giorni dopo il giudice sportivo assegna ai partenopei la vittoria per 2-0, e il Napoli può così raggiungere il Milan in testa alla classifica. Uno dei pochi giornalisti sportivi non soggetti al fascino di Lucianone, Gianni Melidoni, dirà: "Moggi è uno spregiudicato manovratore. Chi non ricorda la sceneggiata della monetina che colpì il centrocampista del Napoli Alemão, con Moggi che dalla panchina gridava al giocatore di restarsene a terra? Con quella moneta la società partenopea conquistò uno scudetto".
In effetti, questo è l’episodio-chiave che permetterà al Napoli di aggiudicarsi il suo secondo scudetto, il primo dell’era Moggi. L’Atalanta parla di "slealtà, scorrettezza e illecito sportivo". Il Milan protesta. Ma Lucianone si frega le mani. Il 14 aprile, allo stadio San Paolo, il Napoli batte il Bari per 3-0; primo gol su calcio di rigore, un rigore molto generoso e vivacemente contestato dai pugliesi. Nel dopopartita, il centrocampista del Bari Maiellaro dichiara: "Qui le partite si perdono prima di andare in campo. Gli arbitri sono succubi dei fuoriclasse del Napoli".
Mancano due partite alla fine del campionato, e lo scudetto è ormai del Napoli. Tutto merito della prontezza di un grande fuoriclasse: Lucianone, che dopo aver vinto una Coppa Uefa grazie alla compiacenza arbitrale, ora porta a casa il trofeo più ambito grazie a una provvidenziale monetina caduta dal cielo. Meglio di San Gennaro.
L’inizio del nuovo campionato 1990-91, a settembre, non promette niente di buono. Una delle prime partite, Napoli-Cagliari, finisce 1-2, e Moggi dà subito la colpa all’arbitro: "Io non critico mai gli arbitri (sic!), perché come possono sbagliare i giocatori possono sbagliare anche gli arbitri. Ma oggi c’è stato qualche errore arbitrale di troppo, e si è visto come questo possa far perdere una partita". Il Napoli comunque è in evidente crisi, e i risultati deludenti si susseguono; Lucianone se la cava come può: "Le vecchie cornacchie sono ritornate e hanno ricominciato a parlare male del Napoli".
Un settembre nero, per l’ex ferroviere, anche lontano dagli stadi. Infatti trapela la notizia che "all’ultima riunione dell’Associazione italiana procuratori, svoltasi lo scorso 28 agosto a Milano, Antonio Caliendo (il manager di Baggio e Schillaci) ha accusato Luciano Moggi, direttore generale del Napoli". Di cosa si tratta? "Caliendo dichiara di essere in possesso di inequivocabili prove di situazioni di connivenza fra il procuratore Bruno Carpeggiani e il direttore generale del Napoli Luciano Moggi. Il consigliere Caliendo, dopo aver dichiarato di essere a conoscenza di costosi regali fatti da Carpeggiani a Moggi (quali una autovettura Espace, due motori marini e un orologio del valore di venti milioni di lire) chiede che venga verbalizzata la seguente dichiarazione: Il consigliere Antonio Caliendo, facendo seguito alle generiche segnalazioni fatte nel precedente Consiglio del 7 giugno 1990, denuncia al Consiglio per le eventuali decisioni disciplinari in merito, il collega Bruno Carpeggiani per scorrettezze professionali che costituiscono atteggiamento non consono al ruolo di Procuratore sportivo, in particolare cito i casi Dell’Oglio, Eranio e Polonia tutti legati a interventi e pressioni del signor Luciano Moggi, direttore generale del Napoli".
Come se ciò non bastasse, Maradona ha ricominciato coi suoi capricci: diserta gli allenamenti, polemizza, scompare, si dà malato. Il 7 novembre, quando il Napoli si reca a Mosca per disputate la partita di Coppa dei campioni contro lo Spartak, il fuoriclasse rifiuta di partire: "Non ne ho voglia", spiega. Lucianone, sempre molto paziente con il divo argentino, "si precipita a casa di Maradona, ma non viene ricevuto. Per tentare di convincerlo a recedere dalla sua posizione, Moggi fa convocare dall’aeroporto, dove erano già in attesa dell’imbarco, i tre compagni di squadra più vicini a Maradona, e cioè Ferrara, De Napoli e Crippa, ma il loro viaggio a bordo di un taxi è inutile. Maradona non riceve neppure loro, e anche ai compagni di squadra fa dire dal manager e dal preparatore atletico che non intende muoversi da casa. I motivi che inducono l’argentino a prendere questa decisione sono sconosciuti".
Lucianone si sente un po’ tradito dall’amico Maradona, così scarica la sua irritazione sugli altri, incolpevoli giocatori: "Non immischiatevi in questa faccenda! Tacete anche se Diego dovesse arrivare a Mosca in extremis! Lasciate che questa storia la gestisca solo la società". In effetti, due giorni dopo il fuoriclasse argentino vola a Mosca, ma precisa: "Sono venuto qui per turismo, e non per giocare". Moggi capisce che Maradona non è più lui, che è ormai arrivato al capolinea e che, insieme all’asso argentino, al capolinea è arrivato anche il Napoli. Così ricomincia a guardarsi intorno.
Ha contatti con la Fiorentina, interessata ad affidargli la direzione sportiva, ma l’accordo sfuma. E siccome l’abboccamento è finito sui giornali, Moggi sfodera la migliore faccia tosta per smentire categoricamente: dice di trovarsi benissimo al Napoli e di non avere nessuna intenzione di cambiare aria. Molti si domandando per quale ragione Maradona possa continuare a fare i propri comodi senza che Moggi riesca a mettergli un freno, e allora Lucianone spiega: "Un club non ha armi per difendersi in casi come questo". Poi rivolge un ridicolo appello "al capo della Federazione e all’Associazione calciatori perché anche loro si interessino del comportamento di Maradona. Per situazioni fuori dall’ordinario si può trovare un intervento straordinario".
Il fatto è che Maradona è un calciatore ormai finito, per cui Moggi ha deciso di scaricarlo: il vecchio amico Diego non serve più, né a lui né al Napoli. "Se Maradona resta al Napoli me ne vado io!", tuona Lucianone facendo la voce grossa. Diego replica: "Forse Moggi dimentica che io ho un contratto con il Napoli fino al 1993... Quando gli conviene, Maradona è meglio che resti al Napoli, quando non gli conviene più allora è meglio che vada via... Pensavo che una delle persone del Napoli che potevo rispettare era Moggi, ma adesso mi ha deluso, perché a me lui non ha mai detto in faccia niente del genere". Il povero Lucianone viene raggiunto anche dagli strali del critico televisivo Aldo Grasso, che ha assistito a due sue comparsate televisive: "Per ben due sere di fila, a Pressing e al Processo, Luciano Moggi ha tenuto banco. Ha detto e non detto. Forse ha parlato in codice, forse i suoi silenzi erano più significativi delle parole... Moggi è inquietante: per questo tutti lo temono, per questo gode di grande rispetto. Lui non parla: allude; non discute: attacca; non interviene, intimorisce... Sembra il fratello di Tano Cariddi, il faccendiere mafioso della Piovra".
Lucianone avrà tanti difetti, ma è un professionista serio. E benché abbia ormai deciso di lasciare il declinante Napoli, fino all’ultimo non fa mancare alla squadra partenopea il suo fondamentale apporto. Il 6 gennaio 1991, per esempio, dopo la sconfitta rimediata dalla sua squadra a Torino contro la Juventus, spara a zero contro l’arbitro Fabio Baldas (rimediando un deferimento alla Commissione disciplinare).
Poi, per arginare la contestazione dei tifosi napoletani innescata dallo stesso Lucianone contro gli arbitri (contestazione programmata allo stadio San Paolo a colpi di striscioni), incontra e ammansisce i rappresentanti degli ultrà. Il Napoli si ritrova al fondo della classifica, di fatto è in lotta per non retrocedere in serie B. "Si divertono tutti sulla pelle del Napoli", piagnucola Lucianone, "vogliono vederlo distrutto. Ma il Napoli è un bene del calcio e in serie B non ci andrà". La città è in subbuglio, e a febbraio la tifoseria inscena il primo sciopero del tifo non recandosi a Cagliari per seguire la trasferta del Napoli. Poi comincia a contestare apertamente Maradona, Moggi e Ferlaino. Il 10 marzo il presidente del Torino Gian Mauro Borsano, rispondendo alla domanda di un giornalista su un possibile ritorno di Moggi al vertice della società granata, conferma che è tutto vero: "Restano da definire solo alcuni dettagli". L’8 aprile è ufficiale: Lucianone lascia il Napoli per ritornare al Torino. Pochi giorni prima il 17 marzo Maradona è risultato positivo all’esame antidoping...
CALCIO, CAMORRA E COCAINA Alcuni degli incredibili retroscena che hanno caratterizzato il quadriennio 1987-90 della squadra partenopea diretta da Moggi emergono alcuni anni dopo, grazie a un’inchiesta giudiziaria avviata dalla Procura della Repubblica di Napoli. Il 12 gennaio 1995 vengono arrestati due camorristi, Rosario Viglione e Vincenzo Buondonno; il manager di Maradona, Guillermo Coppola, evita l’arresto dandosi alla latitanza in Sudamerica. Tutto nasce dalle ammissioni di due pentiti della camorra: Pietro Pugliese, ex autista del fuoriclasse argentino, e Mario Fienga, ex narcotrafficante. I due raccontano di grandi sniffate collettive con alcuni calciatori del Napoli: droga-party in locali notturni molto simili a postriboli, ma anche nelle abitazioni di boss come i Giuliano e i Lo Russo, e a bordo di navi (come la Achille Lauro) e yacht privati. Lunghe piste di neve con le quali alcuni giocatori del Napoli festeggiavano le vittorie e dimenticavano le sconfitte.
"Secondo l’accusa, Coppola seppe vendere il piede più famoso del mondo (Maradona, ndr) alla camorra, che ne fece un tossico da ricovero e un gingillo di lusso da esibire in pubblico. Ma dal nauseabondo pentolone esce ben altro". Saltano fuori una dozzina di nomi dei calciatori partenopei accostati al giro della cocaina: oltre a Maradona, Crippa, De Napoli, Carnevale, Ferrara, Francini, Mauro, Ferrario, Careca, Giordano, Bigliardi, Puzone... "Sono comparsi tutti davanti ai giudici della direzione investigativa antimafia, interrogati con le loro mogli e, in alcuni casi, con i papà. In qualità di testimoni, sia chiaro, anche se alcuni di loro figurano come consumatori più o meno abituali di droga".
Francini è l’ex granata che Moggi si è portato appresso dal Toro al Napoli. Ferrara è il terzino del Napoli e della Nazionale che Moggi porterà con sé alla Juventus. Giordano è l’attaccante ex laziale che era stato fra i protagonisti dello scandalo scommesse scoppiato nella Lazio. Pure e semplici coincidenze, si capisce: perché di tutto quel giro di cocaina intorno ai suoi giocatori, alcuni dei quali suoi amici personali, Lucianone non ha mai saputo niente. E infatti l’inchiesta giudiziaria nemmeno lo sfiora.
Fra i calciatori partenopei coinvolti nello scandalo, "avrebbero ammesso (l’uso di cocaina) Crippa e Francini, riscontri forti graverebbero su De Napoli, Renica, Bigliardi e Carnevale, sugli altri la polizia sta svolgendo altri accertamenti". Maradona e Pugliese, imputati del reato di traffico di droga insieme a Coppola e processati a Roma, verranno assolti nel dicembre 1995. Ma sul fatto che quei fiumi di coca scorressero in casa del Napoli non c’è il minimo dubbio. Possibile che il direttore generale, il trait d’union fra la società e la squadra, l’uomo dello spogliatoio, il confidente-amicone-consigliere dei giocatori, insomma l’attentissimo e occhiutissimo Luciano Moggi, non si sia mai accorto di niente?, non gli sia mai arrivata nemmeno una voce, non abbia mai avuto nemmeno un sospetto? Strano, molto strano, dal momento che sapeva tutto perfino il sindaco della città, Nello Polese: "Che Maradona prendesse la droga lo si sapeva da tempo".
Eppure Lucianone ingenuo com’è non sapeva niente. Mai un sospetto, mai una voce, niente di niente. I due camorristi pentiti non parlano solo di droga. Parlano anche e soprattutto di partite combinate, e di uno scudetto regalato in extremis dal Napoli al Milan, nel 1988, perché le cosche che controllano il Toto clandestino volevano così. È questo il capitolo più interessante dell’inchiesta dei magistrati napoletani Luigi Bobbio e Luigi Gay. Anche perché, se le ipotesi accusatorie fossero confermate, si configurerebbe un illecito sportivo grande come il Vesuvio.
L’antefatto è nello scudetto del 1987, vinto dal Napoli di Maradona (ma non ancora di Moggi), senza avversari essendo la Juve in declino. A fine anno, il Giornale di Napoli e Il Sole-24 Ore avevano titolato in prima pagina: "Lo scudetto del Napoli sbanca la camorra". La spiegazione è semplice: sulle ali dell’entusiasmo, migliaia di napoletani si erano precipitati a puntare forti somme sulla vittoria della squadra azzurra presso i bookmaker del Totonero, che da quelle parti è gestito direttamente da alcune cosche camorristiche. Le quali, a fine stagione, avevano dovuto pagare molti miliardi di vincite. La stagione seguente, nel solo girone di andata, la camorra aveva accettato scommesse per 20 miliardi sulla nuova vittoria del Napoli, con quote fino a uno a tredici (chi punta un milione ne vince 13): in pratica, se lo scudetto l’avesse rivinto il Napoli, i bookmaker della malavita avrebbero dovuto sborsare qualcosa come 260 miliardi.
Una prospettiva che atterriva i capiclan, i quali proprio dal Totonero (oltre che dalla droga) ricavano gran parte dei loro guadagni. Per questo era necessario che il Napoli perdesse lo scudetto 1987-88: per recuperare i quattrini perduti l’anno precedente, e per evitare un nuovo salasso. A dicembre l’auto di Maradona, sebbene supersorvegliata, era stata danneggiata; negli stessi giorni Salvatore Bagni l’altro calciatore simbolo della squadra scudettata aveva subìto due furti in casa e uno in auto. Messaggi camorristici? Chi può dirlo. Sta di fatto che, dopo 25 giornate da primato, la trionfale galoppata del Napoli verso la riconquista dello scudetto si era interrotta nella primavera 1988 in modo brusco e inspiegabile.
Intervistato dal Corriere della Sera nel marzo del 1994, un anonimo scommettitore rivelerà: "Già prima della sconfitta con il Milan, quella del 1° maggio, fu chiaro tutto. Quando il Napoli cominciò a perdere punti di vantaggio in poche partite, dopo averne accumulati così tanti durante il campionato, noi del giro intuimmo che si era venduto lo scudetto. La vittoria del Napoli veniva data a mezzo quando la squadra di Maradona aveva ancora 5 punti di vantaggio. Una quota bestiale, folle: giocando un milione te ne davano cinque. Era chiaramente un regalo. Tutti lo giocavano, ci mettevano milioni su milioni, il rischio sembrava minimo". Un sistema che pareva fatto apposta per attirare schiere di polli da spennare; poi l’improvviso crollo del Napoli: "Moltissime persone ci rimisero decine di milioni". I bookmaker, invece, guadagnarono decine di miliardi.
Il narcotrafficante Rosario Viglione, dopo il suo arresto, racconta ai magistrati di non conoscere niente della faccenda del Totonero. Ma aggiunge che, dopo avere perso lo scudetto in quel modo incredibile, alcuni giocatori del Napoli andarono a sfogarsi con lui, e gli raccontarono che la combine partita-scudetto era il frutto di un accordo di vertice: il presidente napoletano Ferlaino cedeva lo scudetto a Berlusconi in cambio di alcuni immobili di Milano 3. Ma i calciatori erano d’accordo?
Secondo Viglione, no; ma aggiunge: "Gli amici mi dissero che i giocatori erano stati allenati male, e spompati per bene prima delle partite decisive".
Tutt’affatto diversa la versione del pentito Pietro Pugliese. La camorra dei bookmaker, secondo lui, c’entra eccome. "Sì, la cocaina ha a che fare con questa storia (dello scudetto perso dal Napoli, ndr), e c’entra pure la camorra. Ma all’epoca ci furono anche interessi diversi. Ci fu un accordo politico per fare perdere lo scudetto al Napoli. Ferlaino fu vittima di una amicizia politica... Ho riferito tutto ai magistrati, a novembre. Ora continuare a parlare solo di cocaina e camorra fa comodo a qualcuno".
E aggiunge: "Maradona ha usato continuativamente la cocaina per sette anni, eppure è risultato positivo al doping soltanto dopo l’ultimo anno (il 17 marzo 1991, ndr). È un fatto molto singolare, di cui bisognerebbe chiedere conto a Matarrese". Pugliese riferisce anche ciò che gli raccontò Salvatore Lo Russo, un suo compare e amico di Secondigliano. Lo Russo gli avrebbe detto che Berlusconi teneva a quello scudetto del 1988 "per motivi di immagine", e che per vincerlo non esitò a rivolgersi al suo amico Bettino Craxi, che ne avrebbe parlato con la Trimurti del Caf napoletano: Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino e Giulio Di Donato. I tre, "forti dei loro saldi legami" con ambienti dell’illegalità campana, si sarebbero mossi e alla fine, complice la camorra, il Napoli "riuscì a esaudire le aspettative di Berlusconi".
Ferlaino smentisce sdegnato: "Non è vero niente, io per rivincere lo scudetto avrei pagato anche 100 miliardi!". Anche Berlusconi nega: "Sono assurdità tali che non vale nemmeno la pena di smentirle". Ma intervistato da Panorama nel febbraio 1995, Pugliese dice ancora di più: "Allo stadio San Paolo comandavamo noi: la camorra Spa", la quale gestiva direttamente il bagarinaggio, i biglietti di tribuna e gli abbonamenti. Pugliese si sarebbe affacciato nel mondo del calcio grazie alla presentazione di un uomo politico e di un magistrato: "Il senatore missino Antonio Rastrelli (futuro presidente della Regione Campania per il Polo, ndr) e il giudice Carlo Foglia, che è mio cugino... Mi portarono dal presidente Ferlaino... che pochi giorni dopo mi mandò a chiamare e mi affidò all’amministratrice di una sua società di costruzioni".
I nomi fatti da Pugliese a proposito del disegno politico che avrebbe determinato la truffaldina sconfitta del Napoli e la conseguente vittoria del Milan sono tutti in un verbale datato 19 novembre 1994 e redatto da un ufficiale della Guardia di finanza. Un verbale che però dopo accurate indagini non troverà alcuna conferma, e verrà dunque archiviato come inattendibile. Restano comunque assodati alcuni dati di fatto certi, connessi allo scudetto 1987-88 inopinatamente perso dal Napoli e sorprendentemente vinto dal Milan, tali da rendere verosimili i peggiori sospetti.
Il primo elemento inoppugnabile sono le minacce che, dopo quell’incredibile sconfitta, cominciarono a subire i giocatori più rappresentativi del Napoli. Minacce, secondo molti, finalizzate a impedire eventuali pentimenti e ammissioni. Alcune le ricorda Pugliese: "A Maradona rapinarono i trofei e i gioielli che aveva in banca. Fu un avvertimento, poi glieli restituirono. Io stesso l’ho accompagnato otto volte a casa di Salvatore Lo Russo, che allora era agli arresti domiciliari, durante la trattativa per fargli riavere la roba rubata. Poi c’è la storia del figlio di Salvatore Bagni: il bambino morì in un incidente stradale e dopo qualche tempo la salma fu portata via (trafugata dal cimitero, ndr). Anche quello fu un avvertimento e io l’ho spiegato ai magistrati. Non era mai successo che qualcuno pigliasse una creatura da sottoterra. E il corpo non è mai stato trovato, né sono stati pagati soldi. Un movente vero non c’era, se non quello che io conosco bene. Volevano farli tacere...". Il 26 ottobre 1989 alcuni rapinatori avevano svaligiato le cassette di sicurezza della Banca di Provincia, compresa quella dove Maradona teneva i suoi trofei. Tre clan si erano poi attivati per fargli riavere il tesoro, che alla fine era stato riconsegnato al legittimo proprietario. I magistrati hanno tentato di interrogare Maradona su quegli sconcertanti episodi, ma lui non si è presentato.
Il secondo dato certo sono i contatti di alcuni giocatori del Napoli dunque non del solo Maradona con alcuni boss della camorra napoletana: rapporti e contatti dimostrati sia dalle fotografie scattate dagli agenti della Questura partenopea, sia dalle ammissioni degli interessati. Decine di foto immortalano il fuoriclasse argentino in compagnia di capiclan, a cominciare dal suo amico Carmine Giuliano. Ci sono le deposizioni di alcuni calciatori (e delle rispettive consorti), che ammettono di aver frequentato case e barche di vari boss, con o senza contorno di cocaina: come il party organizzato secondo la moglie di Renica dal capo-tifoseria Gennaro Montuori detto Palummella a casa dei boss di Forcella, i Giuliano, per festeggiare con piste di neve il secondo scudetto del 1990. O come l’altro party di cui parla la moglie di Francini, allestito per l’occasione dai fratelli Lo Russo, boss della cosca dei Capitoni. Rapporti fra boss camorristici e calciatori del Napoli così plateali da lasciare interdetti. Eppure il direttore della squadra partenopea, l’attentissimo Moggi, non se ne è mai accorto. Grandi sniffate di droga, grandi feste a casa dei mafiosi, delle quali il responsabile della squadra, l’informatissimo Moggi, non ha mai saputo niente. Intimidazioni, voci, sospetti intorno a uno scudetto perso dal Napoli per cause di forza maggiore: ma lo scaltrissimo Lucianone non ha mai visto né sentito niente. Complimenti. |