«La morte di mio fratello non c'entra con il calcio, ci tengo a ribadirlo». Nel giorno del secondo anniversario della morte di Gabriele Sandri, tifoso laziale ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente della polizia di Stato, il fratello Cristiano parla ai microfoni di CNRmedia e rilancia quanto in questi due anni la famiglia del giovane ha sempre ribadito.
«L'omicida di mio fratello - spiega il fratello - ha sempre detto che non sapeva se si trattava di tifosi, persone che litigavano per motivi stradali o altro. Collocare quella morte in ambiente da stadio ha fatto sì che molta gente con giudizi superficiali abbia potuto pensare che in qualche modo se la fosse cercata. E per questo in qualche modo si è annacquata la responsabilità di chi ha commesso il reato».
L'avvocato romano preferisce non parlare della vicenda Cucchi a cui è stata accostato il caso di Gabriele, ma osserva: «Su Stefano Cucchi c'è un'inchiesta della magistratura in corso però anche in altri fatti di cronaca in cui sono imputati esponenti delle forze dell'ordine, questi vengono liquidati con troppa facilità con il solito discorso delle mele marce. Forse bisognerebbe iniziare a fare una conta».
Ma ricordiamo tutti i fatti legati all'assassinio di Gabbo:
11 novembre 2007, poco prima delle 9, un'auto di tifosi juventini, nel piazzale di sosta, viene avvicinata da alcuni supporter laziali. Scoppia una rissa, l'incidente richiama l'attenzione di due pattuglie della Polstrada, che si trovano sul piazzale dello stesso autogrill ma dall'altra parte della carreggiata a oltre 50 metri di distanza. Gli agenti raggiungono il bordo della carreggiata e, da lì azionano le sirene delle loro automobili. Ma la rissa continua e, a questo punto, uno degli agenti decide di sparare. Il poliziotto spara due volte e un colpo raggiunge al collo Gabriele Sandri che si trova seduto in mezzo sul sedile posteriore della Megane Scenic. L'auto nel frattempo è partita, gli amici a bordo si accorgono che Gabriele sta male, rantola, si fermano al successivo casello e chiamano i soccorsi. Vengono raggiunti da una volante, arriva anche l'ambulanza. I sanitari cercano di rianimare il giovane, ma per Gabbo non c'è più niente da fare. Il ragazzo è morto. In giornata la notizia fa il giro del mondo e in alcuni stadi italiani scoppiano tafferugli generati da tifosi inferociti con la polizia. Quella sera, a Roma, esplode la violenza: centinaia di ultras di Roma e Lazio attaccano commissariati, la sede del Coni e lo stadio. Danno fuoco a cassonetti e autobus, e una ventina di agenti restano feriti.
Spaccarotella viene subito iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio volontario. Nei mesi successivi, tra i legali della vittima e del poliziotto scoppia la guerra delle perizie balistiche. Secondo una perizia presentata dagli avvocati di Spaccarotella, il proiettile è stato deviato dalla rete metallica che divide le corsie dell'autostrada. La perizia consta di cinque tomi contenenti dettagli dei reperti recuperati, studi sulla traiettoria dell'ogiva e studi di natura chimica sul proiettile. Subito si riapre lo scontro tra i difensori di Spaccarotella e gli avvocati della famiglia Sandri. «È stato dimostrato che il proiettile non impattò sulla rete di divisione e non venne deviato», è la replica del legale della famiglia Sandri, l'avvocato Michele Monaco.
Lo scontro fra gli avvocati di Spaccarotella e quelli di Sandri si concentra sulla traiettoria dello sparo. Per i primi, il proiettile venne deviato in maniera importante dalla rete che divide le due carreggiate. A dimostrarlo ci sarebbero due perizie. La prima, depositata a dicembre dal Cnr, secondo i difensori dell'agente evidenzia la presenza di tracce di zinco e alluminio sull'ogiva «dovute - spiega uno dei legali, Gianpiero Renzo - all'impatto con la rete».
E dalla seconda, quella balistica, arriverebbe la «conferma della deviazione», secondo l'altro difensore, Francesco Molino. Per i difensori di Spaccarotella, Molino e Renzo, l'agente non avrebbe mirato verso l'auto dei tifosi laziali e lo sparo sarebbe partito accidentalmente, dopo un primo colpo in aria per fermare una rissa fra tifosi laziali e juventini. In base ad alcune testimonianze raccolte dalla procura, invece, Spaccarotella avrebbe sparato a braccia tese.
Il 30 settembre del 2008, dopo mesi di silenzio, Luigi Spaccarotella chiede perdono ai familiari di Gabriele Sandri. «Ho ucciso il loro figlio: dire che mi dispiace, che non volevo, non può essere sufficiente. Vorrei incontrarli, anche se so che non sarebbe facile». Una richiesta che viene respinta al mittente dai famigliari della vittima. «Il perdono? È tardi. La richiesta arriva con una tempistica processuale ineccepibile - replica Cristiano Sandri , fratello di Gabriele - che fa sorgere qualche perplessità. Non suona come vera».
«Correvo - ha raccontato l'agente - il colpo è partito accidentalmente, poi è stato deviato. Non ho mirato all'auto: come si può pensare che abbia voluto uccidere qualcuno? Voglio pagare per quel che ho fatto, ma pensare che sia stato un omicidio volontario è troppo. Quel maledetto 11 novembre è morta anche una parte di me. Pochi giorni dopo, chiesi al vescovo di Arezzo di far arrivare ai Sandri il mio cordoglio. Lui si mise in contatto con persone vicine alla famiglia di Gabriele ma, non so perchè, gli fu risposto che i tempi non erano maturi. Rimettermi la divisa, quando sono tornato al lavoro, non è stato facile, non ho più voluto impugnare una pistola, nè salire su un'auto della polizia».
«Richiesta di perdono dall'agente? Non abbiamo mai ricevuto nessun contatto, solo tramite la stampa - commenta Giorgio Sandri, papà di Gabriele -. Non c'è mai stata una telefonata o una lettera di perdono, niente di tutto questo. Se fosse arrivato nei tempi giusti avrei fatto fatica a perdonare, non avrei perdonato, ma mi sarei fatto un'immagine diversa di questo individuo, così ho una visione ampia di come possa essere. Per me la morte di Gabriele è inaccettabile, il perdono non potrò mai darglielo. La solidarietà della gente, dal mondo del calcio, ci dà forza per andare avanti. Così ci sentiamo senz'altro vicini tutti quanti e ci aiuta, soprattutto per la madre che è quella che ha più bisogno. È sempre dura, è difficile andare avanti».
Lo scorso 14 luglio, nel pronunciare la sentenza, i giudici non hanno accolto la tesi del pm, Giuseppe Ledda, che aveva chiesto 14 anni per omicidio volontario. Quando il presidente della Corte, Mauro Bilancetti, ha pronunciato «condanna a sei anni», dal pubblico si sono levate grida e insulti: «Buffoni, maiali, vergogna». Per qualche decina di minuti, la bagarre è continuata fuori dal tribunale.
C'è voluto l'intervento del fratello di Gabriele, Cristiano Sandri, a riportare la calma. «Me l'hanno ammazzato una seconda volta - è stato il commento, quel giorno, della madre di Gabbo - con quale coscienza i giudici hanno fatto una cosa del genere? Stasera, quando andranno a casa, come faranno a guardare i loro figli?». Mentre il padre di gabriele, Giorgio, ha parlato di «una vergogna per l'Italia», affermando di «non credere più nella giustizia». Spaccarotella, invece, che in aula non c'era, quando ha saputo della sua condanna a 6 anni, ha telefonato a uno dei suoi avvocati, Federico Bagattini: «Piango di gioia - gli ha detto - ho fatto bene a credere nella giustizia» |