DIO LI FA E POI LI ACCOPPIA Dal marzo del 1989 il Torino calcio, un tempo glorioso, ha un nuovo proprietario-presidente: l’ingegner Gian Mauro Borsano, uno spregiudicato finanziere amico del segretario del Psi Bettino Craxi (che fra l’altro tifa per il Toro). Pur di riportare la squadra granata ai vertici del calcio nazionale, magari per usarla a scopi finanziari e politico-elettorali (proprio come ha cominciato a fare con il Milan l’altro spregiudicato craxiano doc Silvio Berlusconi), Borsano è disposto a tutto. Infatti ingaggia Moggi come direttore generale. Lucianone ritorna a Torino ai primi di aprile 1991, portandosi appresso da Napoli un miniclan formato da Luigi Pavarese e Andrea Orlandini. Prendi uno, paghi tre. E Moggi e i suoi due àscari costano piuttosto cari.
Ma il presidente Borsano non bada a spese: anche lui, che di calcio non sa quasi niente, conosce assai bene la fama di Lucianone e le dicerie sulla sua influenza sugli arbitri (nazionali e internazionali), le sue mani sempre più lunghe sul mercato dei giocatori, la sua già notoria spregiudicatezza, quel suo potere inspiegabile. "Con Moggi abbiamo stipulato un contratto triennale, ma speriamo che il nostro rapporto con lui duri più a lungo", dichiara Borsano; e aggiunge che "per il Torino l’ingaggio di Moggi è una precisa scelta strategica, nell’ottica di un deciso rafforzamento della squadra". Lucianone ringrazia: "Vengo da un ambiente estremamente difficile come quello di Napoli, che mi ha dato però anche molti momenti felici". Il comico Piero Chiambretti, acceso tifoso granata, accoglie l’arrivo del nuovo direttore generale con una battuta delle sue: "L’arbitro Baldas è un ottimo arbitro, Moggi lo sta seguendo da tempo e penso che lo compreremo".
In effetti, la questione arbitri-Moggi diventa subito di attualità anche a Torino. La Federcalcio, infatti, sospende l’arbitro salernitano Pietro D’Elia, di professione assicuratore: un fischietto internazionale, in serie A dal 1981, ritenuto al momento il miglior arbitro italiano. Perché? Perché la sera di domenica 5 maggio, subito dopo avere diretto a Milano la partita Inter-Sampdoria, D’Elia si è recato a Torino, dove ha cenato in un ristorante insieme a Lucianone. Il Toro chiude il campionato 1990-91 con un buon quinto posto. E quando, il 3 agosto, i computer del Coni compilano il calendario della stagione successiva, Lucianone non gradisce, e commenta alla sua maniera: "Il nostro è un calendario complicato... Eravamo teste di serie, ma siamo stati trattati come teste di cazzo".
In autunno, all’inizio del nuovo campionato, Moggi entra nel mirino del vicepresidente della Fiorentina, il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori: "Ho letto da qualche parte che sarebbe Moggi a consigliarci gli ingaggi, ma è falso: con lui né mio padre Mario né io abbiamo alcun tipo di rapporto. Moggi io l’ho sentito una sola volta: quando mi ha telefonato per raccomandarmi un’attrice amica sua". L’amico dell’attrice, intanto, lancia subito un avvertimento agli arbitri: "In appena due giornate di campionato, noi del Torino siamo già in credito di due punti per errate decisioni arbitrali!" tanto per mettere le mani avanti.
Più che allo scudetto, che ha nel Milan di Capello il super favorito, il Torino moggiano punta alla Coppa Uefa. Ma anche in campionato i granata, allenati da Emiliano Mondonico, si fanno valere con grinta talvolta eccessiva. A novembre, durante il primo derby con l’odiata Juventus, due giocatori granata (Pasquale Bruno e Roberto Policano) si fanno espellere, e la Juve vince 1-0. Il giudice sportivo, ovviamente, li squalifica. Ma Moggi non ci sta: "È una sentenza ridicola! Al danno si unisce la beffa!". Lucianone viene subito deferito e poi punito con una multa e una squalifica "per giudizi lesivi della reputazione del giudice sportivo".
Affiancato dal suo braccio destro Pavarese, promosso grazie a lui segretario generale granata, Lucianone si allarga, e diventa ben di più di un semplice general manager. Specialmente quando, a febbraio del 1992, comincia a circolare la voce che potrebbe lasciare il Toro per passare alla Lazio o alla Fiorentina. "Moggi avrà poteri più ampi nella società", si affretta ad annunciare il presidente granata Borsano, "e mi auguro che rimanga per molti anni al Toro perché lui è abile, e dà molta serenità all’ambiente. In più è anche un tipo fortunato". I giornali scrivono che se Borsano verrà eletto deputato del Psi nelle imminenti elezioni politiche, Lucianone verrebbe nominato presidente o amministratore delegato del Torino. Così l’interessato, in attesa della nomina ufficiale, si allena alla bisogna: smentisce, per esempio, le voci secondo cui le casse del Torino sarebbero gestite piuttosto allegramente, assicurando che "i bilanci della società granata sono più che a posto". Balle, come si vedrà.
Anche grazie ad alcune compiacenze e sviste arbitrali, il Torino diretto da Lucianone si piazza al terzo posto in campionato, e addirittura riesce a qualificarsi per la finale di Coppa Uefa: se l’aggiudica l’Ajax, ma nessuno fa tragedie. Solo il presidente Borsano, nel dopopartita, si abbandona a un momento di sconforto, e in presenza di testimoni mormora: "Abbiamo perso anche perché quel coglione di Moggi, invece di andare a trovare l’arbitro, ha perso tempo a giocare a poker con i suoi amici". Il direttore generale granata, da parte sua, ringrazia la squadra per la grande prova "che non è stata minimamente intaccata dall’esito finale".
Nell’estate del 1992, in pieno calciomercato, Lucianone si dà come sempre un gran da fare: compra, vende, tratta un po’ tutti, anche se stesso. Il patron della Lazio, il finanziere Sergio Cragnotti, sarebbe intenzionato ad acquistare il Torino per 50 miliardi: "Cragnotti", scrive un quotidiano, "ne avrebbe accennato ieri a Moggi, il quale avrebbe un ruolo importantissimo nel nuovo polo Toro-Lazio che emergerebbe dall’affare. La vicenda è coperta dal mistero". Ma Borsano non ha nessuna intenzione di vendere. "Cragnotti ci deve lasciare in pace... Mi sono stancato di dire che no, non vendo. Potrei disfarmi di altre cose, ma non del Toro, che è sinergico con le mie attività ", dichiara l’onorevole craxiano, e aggiunge: "Si dice che Moggi si prepari ad andare alla Lazio, ma sia lui sia Cragnotti mi dicono che non c’è niente di vero a cosa devo credere? Moggi non mi ha mai detto bugie, e mi interessa che faccia bene gli affari per il Toro come ha sempre fatto. Se poi dedica le sue attenzioni anche agli altri, pazienza!".
Al calciomercato Lucianone è un mercante scatenato. Arriva a importare dal Ghana tre giocatori sedicenni, al costo complessivo di un miliardo. L’operazione è irregolare, tant’è che li fa assumere da Borsano come fattorini della holding Gima. Il presidente della Figc Antonio Matarrese inorridisce: "Questo non è calciomercato, è tratta degli schiavi!", e impedisce al duo Moggi-Borsano di tesserare come calciatori i finti fattorini minorenni.
La campagna acquisti del Toro è comunque nel segno di Gianluigi Lentini. Il Milan e la Juve vogliono fortissimamente il fuoriclasse granata, ma il presidente Borsano lo dichiara incedibile perché "il Toro punta allo scudetto". E Lucianone è subito pronto a dargli manforte nella menzogna pubblica: "Non abbiamo ricevuto nessuna offerta per Lentini". Infatti, nel giugno 1992, dopo una lunga e oscura trattativa, seguita da una transazione con mazzette e pagamenti in nero, Lentini passa alla corte di Berlusconi. Moggi conferma pure che il Toro non si priverà dei suoi gioielli: altra frottola, visto che di lì a poco cederà Cravero, Benedetti e Policano. I tifosi granata inscenano manifestazioni di protesta con incidenti di piazza. Lucianone si chiama fuori: "Non parlo del caso Lentini. E se le proteste violente dei tifosi non cessano subito, faccio le valigie: contestino pure, ma in modo civile".
È subito evidente che intorno all’affare Lentini una oscura transazione segretissima di oltre 40 miliardi c’è del marcio. Infatti la Federcalcio apre un’inchiesta in tempo reale. Ma sarà la magistratura ordinaria a svelare i contorni di quel sordido affare permeato di criminalità finanziaria. Per sedare la ribellione della tifoseria, la coppia Borsano-Moggi allestisce la consueta messinscena. Lucianone ingaggia un giovane calciatore uruguaiano, Marcelo Saralegui, e tramite apposita conferenza stampa, con proiezione di videocassetta, l’onorevole craxiano e l’ex ferroviere presentano il nuovo arrivato come un fuoriclasse che farà dimenticare Lentini. "È un acquisto importantissimo, è la conferma che il Torino non intende smobilitare e che punta allo scudetto", esulta Borsano, perché "Marcelo è il nuovo fenomeno del calcio uruguaiano, già da tempo nel taccuino di Moggi... si tratta di un vero investimento". Lucianone annuisce. Inutile dire che Saralegui è una bufala, e che finirà tra le riserve.
Conclusa la campagna acquisti truffaldina, in casa del Toro ritorna un’apparente calma. A fine agosto Lucianone dichiara: "Rimango qui al Torino, dove mi trovo benissimo. Conosco la città, ho fiducia nella squadra, che ritengo possa fare ancora molto bene, non ho nessun motivo per andarmene. Spero così di mettere fine alle voci che mi riguardano e che mi vorrebbero in partenza per la Lazio". Balle anche queste. Di lì a poco, nuovi echi dell’affare Lentini turbano la società granata. Accade quando Borsano dichiara in televisione che "Moggi ha collaborato in pieno per portare a conclusione la trattativa col Milan" per la cessione del fuoriclasse. Traduzione: i tifosi granata se la prendano un po’ anche con il direttore generale, e non solo con il presidente... L’affare Lentini scotta ancora. Ma Lucianone si guarda bene dallo smentire Borsano. Si limita a dire: "Non vorrei che si dimenticasse che ho migliorato notevolmente la squadra, facendo pure incassare quattrini alla società".
In autunno, dopo le prime partite di campionato, il Toro è al secondo posto in classifica, e tiene testa alla capolista Milan. Ma i tifosi granata disertano ugualmente le partite casalinghe della squadra. Lucianone perde le staffe: "Lo stadio è vuoto? Vabbè, poi i nostri tifosi non si lamentino se per coprire i buchi di bilancio si dovrà ricorrere a qualche cessione". Ai primi di novembre, la Dinamo di Mosca elimina il Toro dalla Coppa Uefa. In mancanza di meglio, Moggi (spalleggiato da Borsano) attacca l’arbitro cecoslovacco Marko e i due guardalinee, accusandoli di avere danneggiato la squadra granata. L’eliminazione europea si ripercuote sul campionato, e il Toro va in affanno. Torna a circolare la voce che Borsano stia trattando la vendita della società. Lucianone smentisce, sibillino e minaccioso: "Circa le voci che circolano in questi giorni, voglio precisare che se qualcuno dichiarerà guerra a Borsano per impossessarsi del Torino può anche farlo. Ma non attacchi me, la squadra e l’allenatore Mondonico, perché troverà pane per i suoi denti... Mi pare di notare nell’ombra gli stessi personaggi che riuscirono a mandare il Toro in serie B. A quei tempi io non c’ero, ma adesso sono qui e non voglio proprio che la storia possa ripetersi".
Poi, in pieno impeto patriottardo, si lancia in una dichiarazione d’amore: "Il Toro è per chi l’apprezza e lo capisce. A quelli che non l’hanno capito, ricordiamo che la famiglia granata è una sola, nelle sconfitte e nelle vittorie". Prende la parola anche l’allenatore Mondonico: "Attorno al Toro si sta giocando una partita a poker. Non so chi bluffa e chi ha in mano il gioco migliore... È chiaro che vedere Moggi al tavolo è promettente, la società ha messo il giocatore giusto al posto giusto, perché lui sa e può giocare le sue carte".
Cosa vuol dire? Vuol dire che Borsano, per avere le mani più libere nelle trattative per la cessione del Torino, si appresterebbe a nominare Moggi presidente della società. "Accetterei volentieri questa nuova responsabilità", ammette Lucianone, "anche se si continuano a sentire voci su altre mie destinazioni. C’è un mercato per tutti, per i calciatori e anche per me. Proposte ne ricevo spesso, però una nuova avventura in granata con altri compiti mi stimola... Ma sia chiaro che uno come Moggi non può essere un paravento, proprio perché i problemi del calcio italiano io li conosco a fondo". Traduzione: sbrigatevi a nominarmi presidente, altrimenti cambio aria.
Nei primi mesi del 1993 il Torino è alla ribalta delle cronache più per i pasticci societari firmati dalla coppia Borsano-Moggi, che per i risultati della squadra. A gennaio si infittiscono le voci di un ritorno di Moggi al Napoli. Lui smentisce: "Io cambio società solo quando cambia il presidente che mi ha ingaggiato, perché penso che una nuova dirigenza ha il diritto di fare le sue scelte... Io sto qui al Torino, e me ne andrò solo se Borsano venderà la società... Al momento lui mi ha proposto di assumere la presidenza, e per me sarà un onore quando la proposta diventerà ufficiale".
Ai primi di febbraio Borsano vende il Torino al giovane notaio piemontese Roberto Goveani, ma Lucianone non se ne va. Anche perché il nuovo padrone del Toro è un semplice prestanome dello stesso Borsano, e lui lo sa bene. Un personaggio pieno di grinta, questo notaio-paravento, che appena insediato alla presidenza promette "trasparenza e chiarezza" perché consapevole "di avere assunto un impegno enorme in un mondo calcistico permeato di misteri, reticenze e falsità". Ma il nuovo assetto societario del Torino non prevede Moggi né come presidente né come amministratore delegato. "Tra me e il notaio Goveani c’è una piena unità d’intenti", assicura Lucianone. E il notaio: "Moggi gode di tutta la nostra fiducia, ci serve per costruire una squadra sempre più competitiva".
Invece, nelle segrete stanze, è in corso una sorda lotta di potere che presto sfocerà nel divorzio. Il 6 marzo, nei pressi dello stadio genovese di Marassi, la Mercedes guidata da Lucianone, con a bordo i fidi àscari Pavarese e Orlandini, viene assalita e danneggiata da un gruppo di teppisti. Pochi giorni dopo Goveani, deciso a ridurre le forti spese societarie, comunica a Lucianone che Pavarese e Orlandini sono in pratica licenziati. Così, le voci che vogliono Moggi in partenza per altri lidi (Napoli, Inter, Fiorentina) riprendono a circolare.
E fra l’ex ferroviere e il notaio è scontro duro. "Rimango qui, ho un contratto col Torino fino al 1995", dichiara Lucianone beffardo e bellicoso. Goveani si appresta ad allontanare anche il medico sociale, il dottor Roberto Bianciardi (altro esponente della corte di Moggi, che l’ha portato al Toro). La guerra dei nervi ingaggiata dal nuovo presidente ha un solo scopo: indurre Moggi a dimettersi. Se lo licenziasse, dovrebbe corrispondergli tutte le mensilità contrattuali, un patrimonio. "Si dice che il notaio abbia gli strumenti persuasivi per indurlo a dimettersi", ma si dice anche che Lucianone "abbia minacciato Goveani di fargli la guerra" se non potrà andarsene come e quando vorrà lui. Il fatto è che Lucianone, da direttore generale granata, ha già raggiunto in gran segreto un accordo di massima con la nemica Juventus per il 1994, e sta cercando un ingaggio annuale per occupare i mesi che lo separano dall’approdo alla corte degli Agnelli. Ma gli strumenti persuasivi del presidente-prestanome del Torino devono proprio essere robusti, perché a fine marzo Moggi lascia la carica di direttore generale con una separazione consensuale indorata da una buonuscita di oltre un miliardo.
Gli strascichi polemici non mancano. L’epitaffio di Goveani è velenoso: "Che cosa ci mancherà di più di Moggi? Non ho mai sentito nessuno raccontare barzellette come lui". Il comunicato di Lucianone è degno del suo miglior stile, cioè denso di oscuri messaggi: "Io non c’entro niente con la cessione di Lentini, e non c’entro neanche con l’acquisto di Saralegui!", urla di fronte ai giornalisti picchiando i pugni sul tavolo. "La pulizia si fa quando c’è sporco, e nella mia gestione del Torino non c’è sporco: chi insinua che ci sia venga a ripeterlo qua se ha il coraggio!".
La dipartita di Moggi turba i giocatori granata più del lecito: il Toro infila quattro pareggi e due sconfitte, scivolando dal terzo al nono posto in classifica. Mondonico allibisce: "Possibile che dei ragazzi maggiorenni e vaccinati si sentano persi per il fatto che se ne è andato un dirigente?". La risposta è semplice: molti dei giocatori granata sembrano più interessati al calcio-mercato che alla classifica. Lucianone, disoccupato, attacca Mondonico in Tv. L’allenatore replica: "Che io dovessi stare attento alla mia panchina, Moggi me lo aveva già detto prima di andarsene...". Scrive un giornale: "Il calcio è proprio in crisi, se Moggi ancora non ha trovato una squadra". E la stampa dà addosso all’allenatore del Toro, additandolo come un traditore di Lucianone. "Continuano a scrivere che io sarei l’anima nera dell’affare Moggi", si lamenta Mondonico, e aggiunge: "Mani pulite non arriverà nel mondo del calcio finché i giornalisti sportivi non troveranno il coraggio che stanno dimostrando i loro colleghi che si occupano di politica".
L’ex ferroviere, al momento disoccupato, si affanna intanto a cercare una collocazione transitoria, in attesa di passare alla Juventus (per nulla turbato dalla reazione dell’amministratore delegato juventino, Boniperti, il quale dichiara: "Se qui entra Moggi, troverà le mie valige già pronte"). L’8 luglio 1993, finalmente, Lucianone trova la sistemazione che cercava: alla Roma, come consulente.
La rottura di Moggi con il Torino, proprio nel momento in cui sembrava destinato ad assumere un ruolo di vertice nella società granata, è inspiegabile e misteriosa. Tanto quanto enigmatico è stato l’avvento del presidente-prestanome Goveani. Interrogato dalla magistratura torinese alcuni mesi dopo, Lucianone ricostruirà la vicenda con una serie di bugie, ambiguità e reticenze. Una versione dei fatti, la sua, semplicemente ridicola: "Borsano mi aveva chiesto di fare il presidente del Torino, ma io avevo rifiutato in quanto non era quello il mio lavoro. Borsano mi aveva chiesto allora di aiutarlo a trovare un acquirente (del Torino calcio, ndr). Io gli avevo risposto che avrei fatto il possibile. Dopo una partita del Torino si presentò da me una persona, qualificandosi solo come Roberto e dicendomi che era interessato all’acquisto del Torino. Mi chiese quanto poteva costare il Torino e io gli risposi circa una ventina di miliardi. Gli consigliai di rivolgersi direttamente a Borsano. Borsano mi telefonò il giorno dopo in quanto aveva parlato con il Roberto al quale lui aveva chiesto molti soldi in più. Il Roberto seppi in seguito chiamarsi Goveani e che faceva il notaio (...). Fui io che decisi di andarmene dal Torino in quanto la situazione non mi piaceva più, poiché sia Borsano che Goveani si comportavano in modo non trasparente, tenendomi all’oscuro di tutto. In particolare ricordo che Goveani mi aveva detto che Borsano voleva fare assumere nel Torino 4 o 5 ex dipendenti della Gima (la holding delle società di Borsano, ndr) e di bloccare le assunzioni. Come io bloccai le assunzioni, Borsano mi chiamò dicendomi che lui continuava a contare nel Torino e facendomi pensare che anche il Governi fosse d’accordo su tali assunzioni. Ricordo che a un certo punto Goveani mi disse che si doveva fare un poco di nero (denaro occulto extrabilancio, ndr). L’unico modo di fare del nero era quello di cedere Marchegiani e Scifo (due tra i più quotati giocatori del Torino, ndr). Io capii che Goveani alludeva a tali vendite. Non posso però dire se il nero sia stato fatto o meno. Marchegiani valeva 15 miliardi e Scifo dagli 8 ai 10 miliardi. Il discorso con Goveani relativo al nero avvenne nel gennaio 1993, e prima che lui acquistasse il Torino. Da come ho inteso e visto nel prosieguo dei fatti, il Goveani intendeva procurarsi una riserva occulta non già a favore della società, ma propria personale: scoprendo successivamente che Goveani non aveva un soldo, ho pensato che questa somma gli giovasse a pagare il prezzo del Torino...".
Un racconto da far rizzare i capelli in testa a qualunque persona perbene. Anche a volerlo prendere per buono, infatti, emerge un dato inquietante: Moggi si è sentito rivolgere proposte di pura criminalità finanziaria (che nessuno avrebbe osato rivolgere a un dirigente integerrimo), ma non si è minimamente preoccupato né di contrastarle, né di denunciarle all’autorità giudiziaria. E si capisce bene perché: come appurerà la magistratura, nel loschissimo scandalo Borsano-Torino Lucianone è coinvolto fino al collo.
L’immunità parlamentare non basta a mettere Borsano al riparo dai guai giudiziari. La sua holding, la Gima che controlla decine di società, perlopiù scatole vuote o indebitate fino al collo è alla bancarotta, i creditori lo assediano. I magistrati torinesi Giangiacomo Sandrelli e Alessandro Prunas Tola, che scavano da mesi nei bilanci delle sue aziende-colabrodo, chiedono e ottengono dal Parlamento l’autorizzazione a procedere contro il disinvolto finanziere craxiano. E ben presto si imbattono anche nei disastrati libri contabili del Torino calcio. Sciolto all’inizio del 1994 il Parlamento degli inquisiti, Borsano rischia l’arresto, e per evitarlo decide di vuotare il sacco. Così finisce per mettere nei guai una bella fetta del calcio italiano: dal suo potentissimo ex direttore generale Luciano Moggi, ai club più titolati della serie A (Juventus, Milan, Inter, Lazio, Genoa, Napoli, per tacere dei minori).
Le prime avvisaglie della imminente tempesta arrivano la mattina del 29 agosto 1993, quando un abbronzatissimo Moggi entra alla chetichella nel portone principale della Procura della Repubblica di Torino, in via Tasso n° 1, a due passi dal Municipio. Lucianone è appena passato al servizio della Roma: cosa ci fa, a Torino, e per giunta al Palazzo di giustizia? "Sono venuto a trovare dei vecchi amici", dice ai giornalisti troppo curiosi. E l’uomo che lo accompagna all’ingresso, il procuratore capo di Pinerolo Giuseppe Marabotto, suo vecchio amico, sembrerebbe accreditare la storiella della visita di cortesia. In realtà, Moggi è stato convocato dal maggiore Stefano Rizzo del nucleo di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, che affianca i magistrati Sandrelli e Prunas nell’indagine sul Toro nero, per essere interrogato come testimone.
Si indaga su una quantità di compravendite di calciatori sospette: Dino Baggio dal Toro all’Inter via Juve; Gianluigi Lentini al Milan; Vincenzo Scifo dall’Auxerre al Toro e poi dal Toro al Monaco (Montecarlo); Roberto Policano al Napoli; Luca Marchegiani alla Lazio; Luis Muller dal Toro al San Paolo (Brasile); Pato Aguilera dal Genoa al Toro. Nel mirino dei magistrati, anche una lunga lista di calciatori più o meno inesistenti, valutati centinaia di milioni senza che abbiano mai visto un pallone. In agosto, i magistrati torinesi hanno spedito avvisi di garanzia a Borsano e al suo successore alla presidenza della società granata, il notaio Roberto Goveani: il primo è inquisito per falso in bilancio e fatture false, il secondo soltanto per il secondo reato. In settembre comincia la sfilata in Procura: giocatori delle Nazionali come Lentini e Dino Baggio, procuratori di primo piano come Dario Canovi e Antonio Caliendo. Poi, l’11 ottobre, scatta il blitz delle Fiamme gialle nei santuari del dio Pallone, con perquisizioni in tutta Italia.
Scene che non si vedevano dal famigerato marzo 1980, quando i finanzieri irruppero negli stadi per lo scandalo del calcio-scommesse. Questa volta la Guardia di finanza visita la sede della Lega nazionale calcio, poi perquisisce gli uffici delle varie società coinvolte, infine mette sottosopra le abitazioni e gli uffici di un gran numero di calciatori, procuratori, presidenti e dirigenti di serie A e B. Il più perquisito è proprio Luciano Moggi, anche perché possiede case e uffici un po’ dappertutto: i finanzieri bussano alla porta della sua villa nella natìa Monticiano (Siena), mentre altri entrano nella residenza napoletana di via Petrarca (dove Moggi ancora risiede) e nel suo nuovo ufficio di Trigoria (alla periferia di Roma).
Il 18 ottobre 1993 Lucianone riceve un avviso di garanzia per reati fiscali: "fatturazioni per operazioni inesistenti, in concorso" con Borsano e Goveani. Deve trovarsi un avvocato, e nomina Vincenzo Siniscalchi, principe del Foro di Napoli, lo stesso che difende Diego Armando Maradona (e che verrà poi eletto deputato nelle liste del Pds). "Io sono tranquillo", dice spavaldo l’inquisito, "non ho niente da nascondere né da temere, non ho commesso irregolarità, dimostrerò ai giudici che è tutto chiaro". Dalle carte dell’inchiesta risulta l’esatto contrario: spulciando fra le montagne di documenti sequestrati dalla Guardia di finanza, i magistrati ne stanno scoprendo sul conto di Moggi di tutti i colori.
LUCIANONE COSCIALUNGA Le carte più interessanti sono quelle che le Fiamme gialle trovano nell’abitazione torinese di Giovanni Matta, il settantenne ragioniere che fino al gennaio 1992 è stato il contabile del Torino calcio, prima di essere licenziato in tronco in seguito a contrasti con il presidente Borsano. Al momento del divorzio, Matta è riuscito a portarsi a casa le copie dei libri mastri, le agende della contabilità occulta della società, e soprattutto il diario dove annotava e commentava giorno per giorno gli aspetti più grotteschi e sconcertanti delle entrate e delle uscite "non documentate". Quella che i giudici, nel loro pudìco burocratese, chiameranno "gestione fiscalmente riservata".
Tra quelle carte, ci sono fra l’altro gli estremi di un conto bancario top secret, nome in codice Mundial, aperto da Borsano presso una filiale della Banca Brignone per giostrare i fondi neri e pagare i fuoribusta a dirigenti, giocatori, procuratori e allenatori. Fra le tante voci coperte ci sono anche le cosiddette "pubbliche relazioni-accompagnatrici". Decine di milioni spesi lo si scoprirà poi per accogliere e omaggiare degnamente le terne arbitrali internazionali delle partite di Coppa Uefa disputate dal Torino: gioielli, orologi, abiti firmati, e soprattutto prostitute, regalate dal Toro moggiano alle giacchette nere.
Sfogliando il diario di Matta, alle pagine del dicembre 1991 si legge: "Ieri si è presentata una certa Riva, faccia, fisico e abbigliamento di puttana di alta classe: voleva 6.300.000 per le prestazioni amorose sue (?) e di colleghe per gli arbitri Aek Atene. Nessuno mi aveva avvisato e perciò l’ho rimandata...". Matta viene subito convocato in Procura per spiegare quello e altri appunti scottanti. E davanti ai magistrati, sciorina due anni di incredibili maneggi: "Ammetto il fatto di pagamenti a favore di terne arbitrali. Trattasi di pagamenti che compiacenti signore vennero a chiedermi, sia nel caso della terna arbitrale di Aek Atene sia in altri due casi, per un arbitro turco e per uno svedese. L’importo fu sempre lo stesso e le signore compiacenti erano sempre le stesse... Era stato Moggi a combinare questi incontri... Una volta avevo mandato via la signora, ma Moggi mi disse che aveva ragione (a chiedere di essere pagata, ndr) e liquidai il compenso".
Le partite del Toro caratterizzate dalla intima accoglienza arbitrale sarebbero state almeno tre, tutte nella prima fase della Coppa Uefa 1991-92. E precisamente: Torino-Reykjavik del 2 ottobre 1991, finita 6-1 e diretta dall’arbitro jugoslavo Colic con i guardalinee Ciee e Klepic; Torino-Boavista del 24 ottobre 1991, finita 2-0 e affidata all’inglese Hackett, coadiuvato dai signori Watson e Rennie; Torino-Aek di Atene dell’11 dicembre 1991, finita 1-0 e arbitrata dal belga Goethals assistito dai signori Veermesch e Bosschaert.
"Torino-Aek", racconta Matta, "ci costò quasi 10 milioni per intrattenere piacevolmente gli arbitri. Era chiaro che Moggi si occupava delle prestazioni amorose per gli arbitri. Pavarese (il braccio destro di Moggi, ndr) per Torino-Aek Atene mi disse che l’arbitro e i due guardalinee erano costati 2 milioni e 100 mila lire ciascuno (6,3 milioni in totale). So e ribadisco che venivano impiegati quasi 10 milioni per intrattenere piacevolmente arbitri e guardalinee. Ripeto che tali incontri erano organizzati da Moggi. L’accompagnatore (del Toro) per arbitri e funzionari Uefa era Bruno Broglia, che conosceva le lingue. Gli arbitri venivano anche accompagnati nei negozi per acquistare oggetti di valore di circa 700-800 mila lire a testa per ogni arbitro. Ma qualche volta si superò detta soglia... La persona che provvedeva a pagare gli acquisti e accompagnava la terna arbitrale (non era Broglia, delegato al funzionario Uefa) si faceva rimborsare dal Torino. Da ultimo, però, questi acquisti erano direttamente fatturati dal negozio alla società... La scelta di chi accompagnasse la terna arbitrale era demandata a Moggi e Pavarese. Il più delle volte io diedi il denaro a Moggi o a Pavarese a saldo di tutte le spese, in via forfettaria e senza una distinta analitica".
In un successivo interrogatorio, l’anziano ex contabile della società granata precisa: "Ribadisco che il Torino non disponeva di interpreti... Io seppi del pagamento delle donne per la terna arbitrale in via esplicita soltanto l’ultima volta, quella da me annotata e riferita alla partita Torino-Aek Atene. In precedenza ricordo di aver dato a Pavarese del denaro, a sua richiesta, per l’organizzazione della partita e per qualcosa che atteneva agli arbitri. Non ci feci eccessivo caso, al momento. Soltanto dopo, quando venni a sapere espressamente della destinazione della somma, io ricollegai il fatto alla finalità che mi venne detta da ultimo". Matta cita "tre partite (del Torino) per le quali Pavarese e Moggi chiesero il rimborso: il Reykjavik, il Boavista, l’Aek". La terza volta "il Pavarese mi disse che gli arbitri erano costati a testa lire 2.100.000". Dopodiché "io non seguii più altre partite Uefa (del Torino), essendomene andato nel gennaio 1992 e avendo disputato la squadra altre partite (Uefa) solo a far data dal marzo 1992".
Matta racconterà così il suo primo incontro con una delle signore compiacenti, tale Riva: "La Riva mi disse: Ma come, non le hanno parlato dei nostri servizi con gli arbitri?. Io risposi di no. Lei mi disse che le donne (da pagare) erano in tutto tre. Io risposi di no. Poi chiamai Pavarese e gli chiesi che cosa fosse quella storia. Il Pavarese mi disse che si era dimenticato di dirmelo. Non parlò di prestazioni sessuali. Ma la natura delle prestazioni la desunsi dall’abbigliamento un po’ troppo giovanile (della signora Riva), e dalla sua persona nel complesso... Ammetto di aver fatto qualche battuta con Pavarese sulla donna che mi chiedeva il rimborso, mentre facevo delle rimostranze per la spesa in sé. Alle mie battute, Pavarese disse: Bisogna fare così, lascia perdere, e allargò le braccia". Borsano, davanti ai magistrati, non ha difficoltà ad ammettere anche quel particolare settore di attività fuori legge, precisando chi ne era l’artefice: "Era Moggi a occuparsi dell’ospitalità per gli arbitri internazionali. Li faceva portare in giro per negozi e per la città, e faceva pagare gli acquisti (dagli accompagnatori della società, ndr). Anche delle prostitute si occupava Moggi, Pavarese è un mero esecutore di Moggi: non ha alcuna autonomia decisionale".
Rintracciare la misteriosa signora Riva non è facile, di donne con quel cognome, sull’elenco telefonico di Torino, ce n’è una legione. Il maggiore Stefano Rizzo riesce a risalire a una certa "Adriana Riva, nata (...) e residente a Torino". Sull’elenco telefonico figura sotto un altro nome di battesimo. La donna è stata per anni titolare di una ambigua "agenzia di Pr e di hostess accompagnatrici", e fisicamente corrisponde alla pittoresca descrizione fornita dal ragionier Matta, il quale infatti la riconosce subito.
Il 21 gennaio 1994 questa signora Adriana Riva di quasi cinquant’anni, bionda ossigenata, vistosa, formosa, elegante, molto giovanile rispetto alla sua età entra in Procura per essere ascoltata come testimone dai magistrati Sandrelli e Prunas. Ma è piuttosto reticente. Ammette solo quello che non può negare: cioè che Pavarese la ingaggiò per allietare la permanenza a Torino di qualche arbitro internazionale: "Il fatto si ripeté due o tre volte", precisa. Ma quando i magistrati le chiedono di Moggi, le si secca la lingua, e tace anche l’identità delle colleghe che la accompagnavano nelle varie missioni arbitrali.
Forse qualcuno le ha fatto sapere che il silenzio è d’oro, ma davanti ai magistrati il silenzio diventa sinonimo di guai, tant’è che la Riva viene incriminata per false dichiarazioni al Pm (un reato che nel 1993 poteva ancora portare all’arresto in flagranza). Invitata a trovarsi un buon avvocato, l’8 marzo la signora viene riconvocata in Procura. Si presenta in compagnia dell’avvocato Giampaolo Zancan, e stavolta è molto più loquace ("Mostrava lealtà e sincerità", scriveranno i magistrati). La musica per Moggi e Pavarese cambia decisamente. Adriana Riva racconta di due diverse partite. Per la prima, lei venne ingaggiata per una sera soltanto, quella della vigilia (il martedì sera): "Partecipò anche la mia amica brasiliana, che non sta a Torino e di cui preferisco non fare il nome. Non vive in Italia".
Per la seconda partita, invece, le serate furono due: il martedì e il mercoledì. Il martedì erano in quattro: Adriana per l’arbitro, due amiche e colleghe la torinese Marisa Viscio, e la milanese Vittoria Marini per i guardalinee, la brasiliana per il delegato Uefa. Il mercoledì sera, invece, erano soltanto in tre brasiliana esclusa. Come erano state reclutate? "Non conoscevo il Pavarese", risponde la Riva. "Fu lui a telefonarmi, presentandosi come il segretario di Moggi e del Torino. Moggi lo conoscevo casualmente per averlo visto nei ristoranti, e lo salutavo perché era accompagnato da qualche comune amico. Pavarese mi chiese se avevo delle amiche che potessero fare da interpreti. Io parlo francese, anche se non sono padronissima della lingua. Quando si conclusero le intese la prima volta, Pavarese mi disse che avrei dovuto essere disponibile per il dopo-cena. Ma sono abbastanza adulta per capire il tipo di richiesta, anche se non mi venne proprio specificata. La frase era univoca, nel senso di accettare anche le richieste di prestazioni amorose. Il prezzo era sempre concordato preventivamente con Pavarese: la prima volta, ci accordammo per il prezzo di lire un milione". Un milione a testa, s’intende, più le spese ("Le cene non furono a carico nostro, e neanche l’albergo").
Adriana Riva ricorda bene la seconda partita, Toro-Boavista: "La prima delle due serate rimanemmo soltanto a tavola. Vi era qualcuno che parlava inglese e molte persone italiane. Costoro erano amici di Moggi... ma non vi era nessun arbitro. Moggi e Pavarese non vennero alla cena... Poi non andammo all’albergo: a mezzanotte eravamo tutte a casa". La sera successiva, il mercoledì, mentre gli arbitri ancora sgambettavano allo stadio, solita cena delle ragazze con gli amici di Moggi. Dopodiché "una persona ci disse di trovarci al Turin", cioè al Turin Palace, uno dei più lussuosi alberghi della città, a due passi dalla stazione Porta Nuova. E lì, servizio completo fin sotto le lenzuola: "Qualcuno nella hall ci diede le chiavi delle stanze degli arbitri. Quando salimmo nelle camere non c’erano ancora gli arbitri, ma soltanto i loro bagagli. Arrivarono dopo un quarto d’ora, o qualcosa in più. Non so dire se ci aspettassero...". Sta di fatto che la giacchetta nera destinata alla Riva "non mi prese per una ladra, non mi mandò via, non fece alcun gesto per chiedermi chi fossi... Quando lui entrò nella camera, ero completamente vestita... So che parlava in francese (era uno dei due guardalinee dell’arbitro belga Goethals, ndr). Ma non parlammo molto. Bevemmo qualcosa al frigobar. Poi facemmo quanto avevo pensato...".
Contemporaneamente, in una stanza attigua, l’arbitro Goethals mandava in bianco la Marini: "Quella sera lui non c’è stato... la Marini non combinò niente con l’arbitro". L’inappuntabile giacchetta nera, infatti, non gradì la compagnia che la dirigenza granata gli aveva apparecchiato nel letto: rifiutò e congedò cavallerescamente la signora con un mazzo di rose. Che cosa accadde dopo la calda notte di Toro-Boavista? Lo racconta ancora Adriana Riva: uno o due giorni dopo "andai agli uffici del Torino calcio. La persona con cui parlai (il ragionier Matta, ndr) mi disse che non vi era niente per me... Costui non sapeva chi io fossi e io gli lasciai il mio nome. Dissi: Sono Riva, e me ne andai". Qualche ora dopo, al massimo l’indomani, "ripassai in sede, trovai Pavarese, e mi presi i soldi convenuti".
A questo punto, i due magistrati vogliono qualche spiegazione in più sulle cifre. E la Riva li accontenta con precisione ragionieristica. Ma la questione pecuniaria non era stata così semplice e automatica: "Io concordai la tariffa con Pavarese: le prime volte fu una somma aggirantesi sul milione e 200 mila lire a testa più le spese (queste ultime rappresentate dal costo del viaggio della mia amica Marini da Milano a Torino)... L’ultima volta visto che il Pavarese continuava a chiamarmi io ritenni possibile alzare un po’ il prezzo, fino alla somma di lire 2 milioni a testa, più le spese della Marini quantificate in 300 mila lire". Anche se l’ultima tariffa, quella maggiorata fino al doppio,era "comprensiva di due sere consecutive". È controverso se l’accoglienza arbitrale a luci rosse avesse riguardato solo due, oppure tutte e tre le partite incriminate.
Ma potrebbe essere tranquillamente proseguita per tutto il resto della stagione Uefa, dal marzo al giugno 1992: Matta non ne avrebbe saputo più nulla, essendo stato licenziato nel gennaio 1992. Ovviamente, Moggi sosterrà in mancanza di prove contrarie di avere interrotto le accoglienze particolari dopo Torino-Aek... Il programma della serata era comunque collaudato: cena al ristorante I due mondi (uno dei prediletti da Lucianone e dai giocatori del Toro). Dopocena al night club Bogart, caratteristico pianobar sotto i portici di via Sacchi, a due passi da Porta Nuova, e dall’hotel Turin Palace, dove alloggiavano le terne arbitrali con tutti i comfort proprio tutti.
La Viscio e la Marini confermano punto per punto il racconto della Riva. Compresa la richiesta di "disponibilità per il dopocena" e gli "incontri di natura sessuale" in albergo. Nonché le tariffe. Marisa Viscio parla di 2 milioni per ciascuna delle due serate: "Mi interpellò la Riva per intrattenere persone a cui il Torino era interessato... Almeno in un’occasione vi fu un incontro sessuale... La Riva mi aveva detto che erano arbitri o guardalinee. Io avevo capito subito che era compreso tra le possibilità un incontro amoroso". Stesso ritornello per Vittoria Marini, la milanese: gli incontri a cui partecipò furono tre, nel senso di un doppio martedì-mercoledì al Turin, più un’altra serata limitata al ristorante. In almeno un’occasione ebbe un rapporto sessuale con uno straniero che poi scoprì essere un arbitro. Veniva pagata un milione.
I magistrati rintracciano e interrogano perfino il portiere dell’albergo, tale Vitiello, che il 28 maggio 1994 racconta una circostanza ancora più pittoresca. Una sera era di mercoledì, verso le ore 23, poco dopo la fine della partita fu lui stesso, d’accordo con Pavarese, a consegnare alle tre donne le chiavi delle stanze delle giacchette nere. Le tre signore salirono. Ad attenderle, di sopra, non c’era ancora la terna arbitrale, che in quel momento stava tornando dallo stadio; c’era invece il braccio destro di Lucianone, Pavarese, il quale si era presentato con il solito lasciapassare ("Sono il segretario di Moggi e del Torino") ed era salito in camera. "Se fecero qualcosa, fu proprio una sveltina", commenta impietoso il portiere Vitiello. Pavarese ridiscese nella hall poco dopo, anche perché arbitro e guardalinee stavano arrivando. Vitiello non ricorda, invece, chi avesse comunicato alla terna femminile il numero delle stanze di quella arbitrale; ricorda però che la presenza delle signore non venne registrata come prescrive la legge sul registro presenze dell’hotel...
E il duo Moggi-Pavarese come si difende? Raccontando un sacco di balle. O, per dirla con il linguaggio tecnico del pubblico ministero Sandrelli, esponendo "difese in buona misura smentite". "Il Pavarese", scrive il magistrato, "ha cercato di presentare l’iniziativa come innocua necessità organizzativa, scevra di connotazioni ambigue, ascrivendo alla Riva una condotta difforme da quanto egli si era rappresentato". In pratica, sarebbe stata la signora Adriana a esagerare, infilandosi di sua iniziativa nel letto degli arbitri, senza che nessuno del Torino glielo avesse chiesto.
Quanto a Moggi, i magistrati scrivono: "Ha opposto ignoranza sul senso delle prestazioni offerte dalle donne, ritenendolo un supporto ufficiale alla ospitalità gravante sul Torino calcio verso personalità sportive: ha ammesso di aver intuito di che si trattava realmente soltanto quando il rapporto fu esaurito". In pratica Lucianone, interrogato per la prima volta sul sexy-scandalo il 6 dicembre 1993 come indagato per favoreggiamento della prostituzione (la legge è la celeberrima Merlin sulle case chiuse), dice inizialmente che le tre signore erano semplici interpreti: "Agli arbitri delle partite internazionali che il Torino doveva svolgere io mettevo a disposizione così come alle altre numerose persone che arrivavano insieme agli arbitri delle interpreti. Inoltre facevo in modo che queste persone (arbitri, delegato Uefa, dirigenti della squadra ospite: una quarantina di persone) avessero degli oggetti del Torino. Per oggetti intendo coppe, distintivi, portachiavi e ricordi vari della squadra. Non so se le spese dell’albergo per gli arbitri fossero pagate o meno dal Torino". Sì, ma le signore compiacenti? "Nulla so con riferimento a delle donne, che l’Ufficio mi dice essere state pagate dal Torino, che incontravano gli arbitri e i guardalinee la notte successiva all’incontro di calcio... Le uniche donne che io ho procurato alle persone che arrivavano con la squadra estera, compresi arbitri e delegato Uefa, sono le interpreti. Non so quanto percepissero queste interpreti".
Poi, a scanso di equivoci, scarica tutto sul suo portaborse: "Io mi limitavo a dire al segretario Pavarese di provvedere in merito, e cioè di mettere queste interpreti a disposizione delle menzionate persone. Non so come ciò avvenisse in concreto". Luigi Pavarese, "nato ad Avellino il 23 marzo 1965, geometra e dirigente sportivo, celibe", viene interrogato in Procura il 1° marzo 1994. Indagato anche lui per lenocinio, si presenta accompagnato dagli avvocati Gianaria e Mittone, guarda caso gli stessi legali che assistono anche Moggi, il suo spirito guida.
Ecco il racconto di Pavarese, identico a quello di Lucianone: "Ho conosciuto Adriana Riva in quanto una persona che non ricordo chi sia mi diede il suo numero in quanto cercavo un’agenzia di interpreti e accompagnatrici, dopo la scarsa organizzazione mostrata dal Torino nel ricevere la squadra del Reykjavik. Io mi presentai alla Riva come segretario del Torino e non di Moggi". Pavarese tiene a illustrare la sua devozione al Capo: "È grazie a Moggi che sono arrivato al Torino. Io sono un fedelissimo di Moggi". Poi prosegue: "Io invitai la Riva nella sede del Torino e la stessa si disse disponibile a soddisfare le nostre esigenze, pur non avendo più una agenzia". Che tipo di esigenze? vogliono sapere i magistrati, e qui si sfiora il grottesco: secondo Pavarese, "la Riva doveva accompagnare i dirigenti delle squadre ospiti e anche le loro mogli se del caso (sic)... si doveva occupare anche dei delegati Uefa e degli arbitri". Comunque, la dama bionda si sarebbe limitata ad "accompagnare" gli ospiti e ad "andare a cena con gli arbitri", alla vigilia delle partite con il Boavista e con l’Aek Atene.
Subito dopo, però, Pavarese perde il controllo e si contraddice: "Relativamente al compenso, il ragionier Matta venne da me dicendomi che una donna gli aveva chiesto oltre sei milioni... Io insieme a Matta mi recai dal Moggi per chiedere cosa fare, in quanto era comunque lui che doveva dare l’autorizzazione al pagamento. Il Matta era molto seccato e fece qualche battuta. Anche io ho pensato che vi potesse essere stato un incontro sessuale. Il Moggi, per evitare problemi, ci disse di pagare. Si risentì moltissimo con me nell’occasione, e mi disse di non usufruire più di un tale servizio, né dalla Riva, né da altre persone. Non mi risulta che il Moggi conoscesse la Riva".
Moggi torna in Procura il 1° marzo 1994 e, dopo il pasticcio combinato dal povero Pavarese davanti ai magistrati, cambia versione. Anche perché adesso i due pubblici ministeri gli contestano pure il reato di illecito sportivo "per aver offerto utilità e vantaggi agli arbitri di alcune partite internazionali (certamente la partita Torino-Aek Atene) al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione". Lucianone stavolta è più loquace, gli è tornata la memoria. E la prende un po’ alla lontana: "Dopo la prima partita disputata dal Torino con il Reykjavik, il Pavarese mi disse che era emersa una certa disorganizzazione con riferimento all’accoglimento (sic) e al soggiorno della squadra ospite, dei dirigenti, del delegato Uefa e degli arbitri. Io dissi al Pavarese di provvedere affinché le cose migliorassero, di provvedere nel migliore dei modi e di prendere delle hostess come accompagnatrici. Le hostess avrebbero dovuto accompagnare la comitiva per la città e rendere piacevole il soggiorno". Quanto piacevole?, s’incuriosiscono i magistrati. "Mai io dissi al Pavarese, o mai vi fu tra di noi l’intesa, di reclutare delle hostess che avessero un rapporto sessuale con gli arbitri. Il mio scopo era quello di far fare bella figura al Torino nell’ambito Uefa".
In ogni caso sempre a scanso di equivoci "io mi occupavo della squadra e quindi è stato il Pavarese a trattare l’ingaggio delle hostess e l’orario che le stesse dovevano osservare. Pavarese mi disse che aveva concertato che le hostess si tenessero a disposizione della squadra ospite, dei delegati Uefa, degli arbitri". Tanto sforzo venne ripagato da sicuro successo: "La seconda partita col Boavista fu organizzata dal Pavarese in modo che il Torino potesse fare una migliore figura con l’Uefa. Io ricordo che Pavarese reclutò due o tre hostess e Pavarese mi disse che tali hostess erano costate due milioni, due milioni e mezzo circa complessivamente. Io chiesi a Matta e feci pagare alle hostess tale cifra".
Prosegue Moggi: "La terza partita del Torino fu con l’Aek Atene. Dopo la partita seppi che tale Adriana Riva, che io conosco a malapena e solo di vista, aveva chiesto a Matta circa 6 milioni di lire. Io rimasi sorpreso da tale richiesta e dissi a Matta ugualmente di pagare per non avere problemi. Tuttavia, visto il notevole aumento rispetto alla volta precedente, dissi a Pavarese di non contattare più queste hostess per i successivi incontri del Torino. Così avvenne, e il Torino non si avvalse più della collaborazione di queste hostess. Io non volli più avvalermi di queste hostess in quanto le stesse facevano le furbe, e inoltre la spesa per il Torino era troppo elevata".
In pratica, nel primo interrogatorio Moggi ha mentito. Ha mentito quando ha parlato di semplici interpreti, visto che ora parla di hostess. E ha mentito quando ha detto ai magistrati di non saper niente del prezzo d’ingaggio, visto che ora ammette di averne sollecitato il pagamento a Matta. Senza contare che Adriana Riva, nel 1991, non era titolare di nessuna agenzia di hostess: "Tenni un agenzia di hostess e di sfilate nel 1980, per un anno e mezzo o due", ha precisato la signora ai magistrati. E ha sbugiardato Lucianone: "Il Pavarese, in un primo tempo, ci chiese se fossimo state disponibili ad accompagnare quelle persone anche di giorno a comprare dei souvenir. Poi però nessuno ci chiamò, di giorno". Di notte invece sì.
Il 5 luglio 1994 nuovo interrogatorio di Moggi. Il quale parla ancora di hostess per la dirigenza delle squadre avversarie. Ma riceve un’altra raffica di smentite. Susanna Paroletti, segretaria addetta al personale del Torino calcio, dice di non avere mai visto né interpreti femminili, né tantomeno hostess o accompagnatrici: "Se ce ne fossero state, lo avrei saputo". Non solo: Moggi, scriverà il pubblico ministero Sandrelli, "ha inizialmente negato ogni profilo sospetto della storia, per poi ammettere la conoscenza dell’ingaggio a opera del Pavarese, indicando al Matta la sussistenza di una pretesa in capo alla Riva e l’opportunità del suo pagamento".
Tutte balle: "Queste versioni non sono proponibili, alla luce delle risultanze assunte. Esse anzi hanno finito per costituire una traccia processuale che si è torta a discredito della loro affidabilità e sincerità. È dato infatti sicuro che mai il Torino calcio spa ebbe necessità, per le incombenze di ospitalità connesse alle partite Uefa e nelle ore ufficiali (diurne, ndr), di accompagnatori, di interpreti, di personale di supporto, essendo già tutto previsto e predisposto dall’efficiente macchina organizzativa presieduta da Moggi e condotta da Pavarese... La versione difensiva, quindi, circa la pretesa necessità di integrare un vuoto organizzativo, è destituita di fondamento (salvo, certamente, per il dopo cena, su cui nessuno dei testi escussi poteva interloquire, venendosi a creare in un periodo in cui gli accompagnatori ufficiali portavano la terna arbitrale in albergo). La compagnia procacciata alla terna arbitrale non era, quindi, riferibile agli aspetti confessabili della gestione". Inoltre, se non avessero avuto nulla da nascondere, Moggi e Pavarese avrebbero fatto iscrivere nei libri contabili i pagamenti alle hostess; invece, osserva ancora il magistrato, "la spesa non venne sostenuta dalle riserve ufficiali della società e nessuno degli organizzatori fu messo (al corrente) dell’iniziativa... o informato delle donne compiacenti".
Ma chi era il vero regista delle dolci accoglienze arbitrali? Pavarese si assume tutte le responsabilità, cercando di tenere fuori il più possibile il Capo. Ma secondo i magistrati, "le carte sono apparentemente univoche (sulla) certezza che questo piano di assistenza femminile alla terna arbitrale fosse da ascriversi al Moggi e non già all’esecutore materiale Pavarese... Pavarese, per sua stessa ammissione, era un fedele esecutore degli ordini del suo diretto superiore, senza grande discrezionalità e pacificamente senza possibilità di avviare un rapporto così imbarazzante come l’assunzione di meretrici al soldo della società". Le carte, dunque, parlano chiaro: Moggi il mandante, Pavarese l’esecutore materiale. Lo conferma anche il ragionier Matta: "Era stato Moggi a combinare questi incontri ".
Lo ripete il presidente Borsano: "Per alcuni arbitri internazionali confermo che sono state pagate delle somme per procurare loro delle donne. Se ne occupava sempre Moggi... Non ho dei ricordi precisissimi: forse Moggi me ne aveva parlato, o forse aveva fatto dei sottintesi abbastanza espliciti". E lo ribadisce l’accompagnatore ufficiale Bruno Broglia: "Escludo che il Toro avesse delle donne interpreti. Non so nulla di prostitute, ma Pavarese non godeva di autonomia decisionale: lui si occupava di organizzazione... Se è vero che sono state ingaggiate delle prostitute per gli arbitri, sicuramente la decisione è stata presa dal Moggi, anche se il Pavarese può aver curato l’organizzazione".
Ma Lucianone è proprio nato con la camicia. Le certezze a suo carico acquisite dai magistrati, in relazione all’accusa di favoreggiamento della prostituzione, ai fini processuali valgono pochino. "È una presunzione generale", scriveranno i magistrati, "un mero convincimento ovvero un superfluo passaggio logico". Manca la prova provata a carico di Moggi. Ci sono, è vero, le sue contraddizioni, la sua "menzogna e reticenza davanti al pubblico ministero", ma non necessariamente per occultare un favoreggiamento della prostituzione: Moggi potrebbe avere taciuto e mentito per coprire "un gesto corruttivo che violava le regole di lealtà di un esponente del mondo sportivo... la turpitudine del movente e lo scandalo di quell’idea che, se conosciuta, avrebbe portato discredito sia al direttore sportivo del Torino calcio sia all’intera compagine calcistica torinese".
Scrivono ancora i magistrati: "Questo agreament verso gli arbitri, vietato dalle norme di comportamento e proteso a un favoritismo sleale, era la prima causale per un uomo del calcio che induceva a una manovra sommersa a mezzo di provvista finanziaria chiaramente extracontabile. Il fatto che questo favore fosse quello carnale e non la sola compagnia di entraîneuses vivaci, è fatto secondario: nessuno avrebbe mai potuto negare il basso livello della manovra, la sua spregiudicatezza e la conseguente necessità di mantenerla nell’ombra, nella riservatezza e in un contesto in cui i controlli predisposti dall’organizzazione Uefa si ritenevano affievoliti. Basta e avanza il fine fraudolento agli occhi della giustizia e correttezza sportiva per spiegare i tratti salienti del comportamento di Moggi".
Per queste ragioni sarebbe difficile ottenere dal Tribunale la condanna di Moggi per violazione della legge Merlin (la n° 75 del 1958), mentre è lampante sempre secondo la Procura che Lucianone sia colpevole del reato di illecito sportivo. Il favoreggiamento della prostituzione prescrive rigorosi requisiti fissati dalla giurisprudenza della Cassazione. E, anche per Pavarese, è difficile dimostrare che in questo caso esistano: l’accordo tra Moggi e Pavarese e poi tra Pavarese e la Riva e infine tra la Riva e le amiche si giocò tutto con il classico dire e non dire, fra strizzatine d’occhio e sottintesi ("la definizione della prestazione richiesta è affidata alla sfumatura della voce e al sottinteso"). Senza contare che il passaggio sotto le lenzuola era per così dire facoltativo, a discrezione degli arbitri. E le signore venivano pagate anche per il resto della serata, a cena e al night.
"Si osservi", scrivono ancora i magistrati torinesi nel lungo documento conclusivo inviato al Gip, "che la scelta della Riva non stava a significare un’opzione condizionante: in passato la Riva era stata titolare di una agenzia di sfilate e di hostess". È vero che Moggi la conosceva fin da prima del 1991, ma è anche vero che "non risulta da nessuna parte che Riva, all’epoca della conoscenza del Moggi, fosse proclive all’antico mestiere". Lei stessa ha dettato a verbale: "Preciso che io non svolgo attività professionale di meretricio". Insomma, difficile ottenere da un tribunale la condanna della coppia Moggi-Pavarese per violazione della legge Merlin, visto che si erano limitati "alla segnalazione di occasioni di lavoro" per Adriana Riva e le sue amiche. Cosa che, per esempio, fanno ogni giorno molti quotidiani, anche prestigiosi, ospitando gli annunci a pagamento tipo A.A.A., per sedicenti massaggiatrici molto affettuose, e ciò osservano i magistrati non comporta "l’incriminazione per lenocinio del direttore responsabile, per ogni inserto pubblicitario".
A questo si aggiunge il fatto che gli episodi accertati sono relativamente pochi (tre sere per due partite, più forse un altro episodio), per cui viene meno la "abitualità della condotta criminosa", presupposto indispensabile per configurare il reato di favoreggiamento della prostituzione. Certo, se il ragionier Matta non fosse stato cacciato così in fretta, avrebbe magari potuto annotare qualche altro episodio successivo al dicembre 1991... "Pertanto", concludono i magistrati Sandrelli e Prunas al Gip Piera Caprioglio, "si richiede l’archiviazione per quanto attiene alla posizione di Moggi", e "con qualche maggiore perplessità, per Pavarese".
Resta in piedi, per i due imputati Moggi e Pavarese, l’ipotesi di illecito sportivo. Non c’è alcun dubbio, per la pubblica accusa, che l’ingaggio delle squillo quali che fossero le consegne impartite dai due fosse finalizzato ad ammorbidire le terne arbitrali per ottenere trattamenti di favore per il Torino e di sfavore per i suoi avversari di Coppa Uefa: "L’atteggiamento del Torino calcio spa fu improntato a sleale e pesante interferenza sulla lealtà arbitrale". E questo comportamento non è vietato soltanto dalla giustizia sportiva, è anche un reato penale, punito dalla legge 401 del 1989 (che, dopo i celebri casi del calcio-scommesse, introdusse il reato di "frode nelle competizioni sportive" nel Codice penale).
Su questo fronte, i magistrati torinesi sono decisi ad andare fino in fondo. Ma Lucianone è molto, troppo fortunato. I difensori suoi e di Pavarese estraggono dal cilindro una carta a sorpresa: in quella legge c’è un buco grosso così. Punisce chi trucca le competizioni riconosciute dal Coni (il Comitato olimpico nazionale italiano), ma non quelle organizzate dall’Uefa (l’Unione delle federazioni europee di calcio), che è indipendente e autonoma, dunque non riconosciuta dal Coni. Tant’è vero che le squalifiche comminate dalla Federcalcio non valgono per le coppe internazionali, e le varie squadre che partecipano alle competizioni dell’Uefa aderiscono autonomamente al suo regolamento, senza passare per il Coni e per la Figc.
Dunque, per la Coppa Uefa la legge italiana sull’illecito sportivo è "inapplicabile". "Conclusione", scrivono i magistrati, "che palesa un’evidente lacuna legislativa, ma che impone la richiesta di archiviazione per le posizioni di Moggi e Pavarese". A questo punto ci sarebbe da aspettarsi un severo, esemplare intervento dell’Uefa, che dispone di tutti gli strumenti disciplinari per punire chi ha palesemente violato le più basilari regole di lealtà e correttezza sportiva. Il 16 aprile 1994 la Commissione controllo e disciplina dell’Uefa si riunisce a Zurigo. Interroga l’arbitro Goethals, che ovviamente nega tutto. Hackett non c’è, e non si trova il tempo di aspettarlo. Ci si accontenta di interrogare i suoi guardalinee, che manco a dirlo negano anche loro.
Poi tocca a Moggi e Pavarese, i quali, va da sé, negano tutto. Ma il segretario della Commissione René Eberle, intervistato dai giornalisti presenti, fa il duro: "Non possiamo e non vogliamo archiviare, il caso Torino è molto complesso... Ci basiamo sugli articoli di giornale, dato che la Federcalcio italiana non ci ha inviato nulla. Ma acquisiremo tutte le prove, non abbiamo fretta, non archivieremo". Venti minuti dopo, il duro Eberle è già molle come un budino, e la Commissione archivia il caso su due piedi ("Non doversi procedere"), senza neppure aver richiesto gli atti alla Procura di Torino.
"Dagli interrogatori", recita la grottesca motivazione rifilata alla stampa dal portavoce Uefa, Salvatore Cuccu, "non è emersa alcuna prova a carico del Torino. Non risultano tentativi di illecito o presenze femminili sospette". "Il caso è chiuso", annuncia disinvolto e frettoloso Eberle, "è inutile continuare, non c’era una sola prova. Non riapriremo il caso neppure se Moggi e Pavarese verranno rinviati a giudizio". E così sarà. Per cui Lucianone potrà subito riprendere la sua arrampicata ai vertici del calcio italiano, seguito a ruota dal fido Pavarese. Come se niente fosse. Eppure il decreto giudiziario di archiviazione del sexy-scandalo risulterà quasi più duro di una condanna. E conterrà un ritratto impietoso, definitivo del personaggio Moggi. Eccolo, a futura memoria:
"(...)Le versioni fornite dal Pavarese e dal Moggi, a cui l’iniziativa dell’intrattenimento degli ospiti andava fatta risalire, opponevano, il primo che la Riva avrebbe equivocato l’incarico a lei assegnato, il secondo l’avvenuta presa di coscienza della natura dell’intrattenimento solo a cose esaurite. Dunque non può essere revocato in dubbio che un piano di assistenza femminile degli illustri ospiti fu concepito e messo in atto. È sicuramente aderente alle carte processuali rilevare... che la necessità di interpreti o altre figure delegate alle pubbliche relazioni con gli ospiti stranieri, non fu assolutamente una necessità, potendo contare il Torino calcio su una struttura organizzativa di sicura efficienza che già annoverava validi collaboratori con funzioni di interprete. Così appare assolutamente conforme a quanto emerso nel corso dell’indagine la circostanza... che la scelta di connotare l’ospitalità con presenze femminili sia riferibile al Moggi, essendo stato conclamato come il Pavarese ben poche iniziative fosse in grado di assumere autonomamente, e meno che meno avrebbe potuto assumere una iniziativa quale quella in discorso, i cui costi sarebbero stati sopportati facendo ricorso a riserve extracontabili. (...) Quanto argomentato (ai fini della archiviazione, ndr) non toglie nulla però sul severo giudizio che vien fatto di esprimere sulla lealtà dei dirigenti della squadra in discorso. L’iniziativa di rendere più ameno il soggiorno degli arbitri a Torino, in occasione di partite di coppa Uefa, qualunque siano state le reali finalità dell’ingaggio di avvenenti signore addette al dopo cena, rivela una chiara volontà di addolcire la severità degli arbitri, rendendoli obbligati verso la città che li ospitava con tanto riguardo e quindi sicuramente meno liberi nell’esercizio del loro incarico. La lesione degli interessi sportivi, nonché la frustrazione delle regole che animano il gioco del calcio e qualunque altro tipo di competizioni sportive si stagliano in modo anche troppo evidente (...)".
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