"C'era una porta nera con un piccolo finestrino senza vetro, ero solo dentro la cella, e ho sentito rumori. C'era il ragazzo e qualcuno dava calci, faceva rumore con i piedi. Sentivo che il ragazzo era caduto in terra e stava piangendo. Poi ho guardato da quel finestrino e ho visto che loro lo mettevano dentro la cella. Loro, prima di pcchiare, parlavano, non capivo le parole ma la polizia diceva di entrare dentro e il ragazzo non voleva entrare dentro. Il ragazzo voleva sempre uscire, non so se voleva andare al bango o dal Giudice....". L'immigrato africano, detenuto nel sotterraneo del tribunale di Roma nella mattinata del 16 ottobre scorso, aspettava anche lui di essere chiamato per il processo, quando ha assistito dallo spioncino della sua cella al pestaggio di Stefano Cucchi, il trentunenne arrestato la notte prima alle 23.30 e morto, denutrito, disidratato, con le vertebre rotte, traumi alla testa e sospette bruciature di sigaretta sul corpo, all'alba del 22 nel padiglione carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. Per la sua morte tre medici sono indagati per omicidio colposo e altrettanti agenti penitenziari per omicidio preterintenzionale. "Guarda cosa mi hanno fatto le guardie", ha confidato Stefano Cucchi al detenuto africano. "No", ha precisato il supertestimone, "non mi ha detto chi fossero gli aggressori e neanche ho chiesto se i carabinieri lo avessero picchiato, ma lui non mi ha parlato dei carabinieri". Così, si infittisce il mistero dopo i risultati dell'inchiesta del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria che ha escluso il coinvolgimento dei suoi uomini nell'aggressione nelle celle del tribunale di Roma. |