Ho cominciato a dubitare del futuro del calcio, temendo stesse imboccando una china apocalittica, quando l'attuale presidente del Consiglio, allora a capo del Milan, suo primo e vero veicolo di consenso popolare, designò chi assisteva alle partite, i tifosi, gli sportivi, gli appassionati, gli esteti, i fanatici, gli ultras e l'umanità più varia della tribù dello stadio con il termine, orribile e offensivo, di "clienti". Nella sua visione ottusa e commerciale della vita e del sentimento, dell'appartenenza e dell'emozione e, forse, praticamente di tutto, ognuno è cliente di qualcuno o di qualcosa. Dunque, come tale, diventa obiettivo di una strategia di marketing. Leggere, perciò, che la tessera del tifoso è uno strumento di fidelizzazione a beneficio delle società di calcio, sorprende solo quelli che nell'ultimo decennio sonnecchiavano senza accorgersi dei cambiamenti epocali di un ambiente diventato industria e azienda.
Nessun rimpianto di un passato arcaico e senza regole, quando il calciatore era merce di scambio e non aveva nemmeno il potere di accettare o meno un trasferimento. Nessuna nostalgia dei vecchi mecenati, tronfi e narcisi, che erano meglio degli attuali solo perché una stampa, autocensoria e trionfalistica, ne tralasciava i difetti lodandone solo il potere e il censo. Nessuna voglia di ripiombare in stadi cupi e senza vie di fuga, promiscui e grotteschi, dove comunque entrava di tutto, come testimoniano i morti di Salerno (Giuseppe Plaitano, 1963, Salernitana-Potenza) e all'Olimpico (Vincenzo Paparelli, 1979, durante il derby). No, niente di tutto questo. Oltre alla derubricazione del calcio a ramo della grande distribuzione, una sorta di prodotto omologato perché senza distinzioni e specificità, spaventa l'obiettivo di fondo: rendere lo sport, questo sport, un elemento per tifosi ufficialmente riconosciuti. Mi chiedo: e gli altri? Per esempio, i non tifosi, ma gli amanti del gioco? O gli appassionati puri? O quelli che si sono dimessi da tifosi? O le donne, sempre più numerose, che non sono categoria e nemmeno collettivo, sfuggendo a qualsiasi catalogazione? E gli interisti che, dopo Mourinho e la tripletta, si sono messi in sonno temendo di non poter rivivere un'altra stagione così trionfale? E i timidi, i puri, i deboli di tifo? Più che un'organizzazione per censire tutti gli spettatori, il progetto avrebbe dovuto tener conto della trasversalità che il calcio dona in misure diverse, e tutte rispettabili, ad una parte consistente dei suoi consumatori (termine etimologicamente diverso da clienti). Invece così si tende ad una semplificazione di massa che non sarà utile nemmeno ai club che vuole fidelizzarli. Intanto, perché inevitabilmente ne fidelizza solo una parte; poi, perché anziché avvicinarli allo stadio - allo spettacolo dello stadio, all'odore e al sapore dello stadio - li allontana. L'effetto di questa politica, anziché devastante come meriterebbe, non fa altro che spingere "clienti" verso la televisione a pagamento, il surrogato del botteghino, dove si affollano le masse, ignare di perdere la propria identità calcistica a beneficio di una visione della partita strumentale e, a volte, perfino manipolata. Parlo proprio della struttura del racconto, della consequenzialità delle immagini e della aderenza dei commenti al reale e al vissuto. Una prima, nemmeno troppo larvata forma di condizionamento.
La tessera del tifoso, in vigore dall'inizio della prossima stagione e contro la quale si organizzano manifestazioni, è l'altra faccia della card televisiva. Entrambe limitano (senza la tessera del tifoso non si potrà più seguire la propria squadra in trasferta, senza card non si vede la partita in tv), entrambe costano (la tessera dovrebbe aggirarsi sui dieci euro), entrambe identificano (nome e cognome utilizzabile per acquistare), entrambe saranno strumenti di marketing per rimpinguare ponderose mailing list dei "clienti" cui propinare ciarpame spacciato da merchandise.
Il resto è pretesto. Cosa significa sostenere che tra i vantaggi ci saranno i percorsi preferenziali all'interno degli stadi o di avere accessi con controlli limitati? Forse, com'è nella cultura del governo che l'ha concepita, che esistono tifosi di prima classe e tifosi di categorie inferiori?
E' probabile, se non fosse che siamo di fronte ad un controllo sociale con scopi di lucro e con l'intenzione di moltiplicare gli introiti di club sempre più famelici, disperatamente intenti a mantenere la propria sussistenza, spesso in pericolo. Da rifiutare, in toto, l'idea che la tessera stabilisca un senso di appartenenza e che chi vuol andare alle partite debba per forza aderirvi. Una volta, non esattamente nel Giurassico, per appartenere, sempre che lo si volesse, bastava l'abbonamento, un biglietto o una bandiera. Ora che serva la tessera, sembra solo una degenerazione, e nemmeno la più convincente. Diverso, anche se ambiguo, l'aspetto relativo alla sicurezza. Per ottenere la tessera del tifoso è necessario non essere sottoposto a Daspo, l'osceno acronimo che indica il divieto di accesso alle manifestazioni sportive, in base alle legge del 13 dicembre 1989. Cito l'anno, né per pedanteria, né per precisione. Ma perché la legge esiste da più di vent'anni e per applicarla non c'è bisogno di passare dall'invenzione della tessera. Strumentale, infine, che la si crei nel momento in cui aumentano a dismisura e, a volte, senza effettiva ragione di ordine pubblico, le disposizioni del Comitato di analisi per la sicurezza delle manifestazioni sportive (l'inutile e dannoso Casms, altro mostro prodotto dall'Osservatorio del ministero degli Interni): se, infatti, le trasferte sono sempre più vietate, a cosa serve la tessera per le trasferte? Tutto converge verso una burocratizzazione che scoraggia sia i veterani del tifo e della passione, sia i ragazzi, le ragazze e le fantomatiche famiglie che, in futuro dovrebbero scendere ad affollare lo stadio cinema-ristorante-supermercato, lo stadio mall della fantasia perversa di alcuni tecnocrati, mentre la partita c'è, oppure no, visto che l'importante è fare soldi in qualche modo. Perché allora tutta questa mobilitazione verso il tesseramento del tifoso? Forse, in fondo, per farlo recedere dall'andare allo stadio e aver avuto ragione a costruirne di piccoli, sempre più piccoli e adatti alle riprese tv. Forse per avere un motivo in più per dire che il calcio è sempre più e solo spettacolo televisivo. Dunque, da cambiare e da rendere sempre più affine a quel linguaggio, anche quanto a pause e interruzioni. Forse per arrivare ad un calcio inodore e insapore dove il pubblico altro non sia se non una quinta teatrale interpretata da attori scelti e fedeli. Affinché si compia l'oscura previsione del signor B. che, da presidente del Milan, a San Siro voleva solo i propri tifosi, capaci di interpretare gli osanna senza distinzioni e dissonanze.
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