"Che il calcio sia globalizzazione è ormai cosa nota. Lo è nei soldi che investe, nel potere che hanno le persone che ci lavorano, nelle ripercussioni che ha nella vita sociale: è specchio dei tempi. E in tempi come questi, dove il profitto conta più della media inglese, dove quotarsi in borsa ti impedisce di giocare con lo zemaniano 4-3-3 e dove al bar non si parla più del valore di un esterno sinistro ma di aggiotaggio e plusvalenze, l’idea romana di immaginare un azionariato popolare è nuovissima e antica insieme. Nuova perché nessuno pensa realmente ai bisogni di chi fa il calcio, la gente. E se lo fa, lo fa sempre e solo in termini di merce-consumo. Antica perché è un’idea che tutela la cosa più antica del mondo, la cosa di cui è fatta la gente e che la rende unica e folle a contatto con la vita. La passione. La passione è un diritto e ha dei diritti. Questo la globalizzazione non lo sa. Non le interessa. E allora più sono le cose che non riguardano le nuove leggi di mercato e più associarsi e utilizzare la forza dei numeri, delle professioni, la forza della gente, diventa necessario. Per prendere coscienza di chi, di quanti, di quali siamo e di quanto possiamo essere forti. Per far sentire la responsabilità ai mille governi del calcio di sapere con chi devono confrontarsi. Unirsi veramente, riuscire a determinare delle cose (non acquisti ma strategie sì), a impedirne delle altre (tessera del tifoso), essere parte in causa come non lo si è mai stati è un dovere e un diritto. Lo facciamo per noi e per nessun altro. Perché la passione non costa nulla, è gratis, o si ha o non si ha. Ecco perché oggi non interessa più a nessuno".
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