LUCIANONE, FISCHIETTI E SOFFIETTI
Nel mondo del calcio Lucianone ha sempre avuto un debole, anzi due. Non tanto per i calciatori, muscolosi e miliardari burattini; non tanto per i presidenti, salvadanai più o meno forniti; non tanto per i tifosi, banderuole decorative. Sono ben altre le categorie che da sempre stanno in cima ai suoi pensieri, nonostante il loro ruolo all’apparenza marginale: quella degli arbitri, e quella dei giornalisti. Gli arbitri, perché possono decidere il risultato di una gara, e perfino di un intero campionato; e i giornalisti, perché hanno il potere di censurare o inventare o alterare la realtà a propria discrezione, e talvolta possono essere eccellenti strumenti di pressione. Questo doppio debole moggiano per l’arbitro e per il giornalista ha trovato una degna sintesi e consacrazione pubblica sul finire del campionato 1997-98. Il 26 aprile 1998 è una domenica importante per il campionato italiano. È la trentunesima e quartultima giornata, e allo stadio Delle Alpi di Torino si gioca lo scontro al vertice tra la Juventus (prima in classifica con 66 punti) e l’Inter (che la insegue a 65). Una sfida decisiva per l’assegnazione dello scudetto: l’ultima vera occasione dei nerazzurri per superare la capolista chi vince l’incontro probabilmente si aggiudicherà il campionato.
L’arbitro designato è Piero Ceccarini, consulente finanziario di Livorno, ed è proprio lui più che le due squadre il vero protagonista della partita: con una serie di decisioni a senso unico, tutte a favore della Juventus, falsa il risultato finale, e assegna lo scudetto alla Juve. Lo scandaloso arbitraggio di Juve-Inter suscita grande scalpore, tanto più che è solo l’ultimo di una lunga serie di favoritismi arbitrali pro Juventus. Favoritismi che emergono anche da un semplice dato statistico: la squadra diretta da Moggi è stata la più fallosa (814 le scorrettezze fischiate dagli arbitri), ma è anche quella che ha subìto meno ammonizioni (terzultima, con 65 cartellini gialli) e espulsioni (penultima, con appena 3 cartellini rossi). Per la cronaca, alcuni degli arbitri pro-Juve Cesari, Collina e Ceccarini verranno poi messi sotto inchiesta dalla Federcalcio.
All’indomani di Juve-Inter lo scandalo dilaga su tutti i giornali e le televisioni, in Italia e all’estero. Le reazioni in casa interista sono furibonde: Ronaldo dice che è «una vergogna»; il presidente Massimo Moratti minaccia di dimettersi, e invita Nizzola il grande amico di Moggi a lasciare la presidenza della Federcalcio. Lucianone replica con la consueta eleganza: «Ronaldo ha imparato troppo in fretta l’italiano, ma in campo avrà toccato sì e no quattro palloni. Impari a star zitto e a segnare, invece!».
Sistemato il brasiliano, Lucianone diventa patetico: «Noi della Juve le cose le prepariamo per bene (sic) e i risultati si vedono (sic)... Per vincere la Juventus ha messo in campo tutto il suo repertorio (sic)». Poi Moggi spiega che si rifiuta di discutere del rigore su Ronaldo non fischiato dall’arbitro, perché la Juve non parla di moviole, «è una regola che ho stabilito io, figurarsi se la infrango», ma appena un minuto dopo dice che «il rigore su Ronaldo non c’era». Roberto Bettega, altro gentleman stile-Juve, sfodera la sua migliore arroganza: «Ho sentito quello che ha detto di noi Moratti, e gli auguro di non dover aspettare altri nove anni prima di vincere uno scudetto». Completa il simpatico quadretto l’augusto avvocato-presidente Vittorio Chiusano: «Non esiste vittoria più limpida di questa, il rigore su Del Piero è di un’evidenza scolastica, mentre quello su Ronaldo non si è visto». Basterebbe ammettere quello che tutti sanno, cioè che i bianconeri hanno beneficiato di un errore arbitrale, e invece no: la reazione della Juve moggiana è di quelle che autorizzano i peggiori sospetti. La triade Moggi-Bettega-Chiusano è spudorata. Lo dimostra il fatto che lo stesso quotidiano di casa Agnelli, La Stampa, a firma di Roberto Beccantini, prende una posizione molto netta: «La Juve o almeno quella costola di Juve meno faziosa faticherà a celebrare l’imminente titolo, se questo è il prezzo non da pagare, ma da far pagare... Il concetto di vergogna è stato ripreso, a tutta ugola, persino dal mite Ronaldo. È difficile, in casi del genere, non scottarsi al fuoco del sopruso patito... Non si può dire che nel corso della stagione la classe arbitrale abbia preso di petto la Juventus. Tutt’altro... Non si può rimanere indifferenti di fronte a certe coincidenze così singolari e, permettetecelo, così nutrite... C’è il sospetto che le regole non siano uguali per tutti, o che, comunque, per alcuni siano più uguali che per gli altri».
Candido Cannavò direttore della Gazzetta dello Sport (gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, cioè Fiat-Mediobanca) non usa perifrasi: scrive di «vergogna allo scoperto», di «errori arbitrali a senso unico», della «comune paura che il gioco più amato dagli italiani non sia più credibile, che gioie e sofferenze siano pilotate dalla regia di un inganno». Cannavò conclude: «Solo Chiusano, Bettega e Moggi, con il loro spocchioso modo di reagire, negando l’evidenza, incassando e infischiandosi del resto, non hanno capito il danno che stanno procurando alla loro creatura».
Dopo Juve-Inter alcuni quotidiani pubblicano una fotografia molto interessante: ritrae tre personaggi seduti vicini nella tribuna d’onore juventina dello stadio Delle Alpi, durante l’incontro incriminato. Il primo è l’ex arbitro Fabio Baldas, triestino, funzionario della Regione Friuli e soprattutto designatore degli arbitri (subentrato all’altro ex arbitro Paolo Casarin l’11 luglio 1997). Il secondo è Danilo Di Tommaso, giornalista del quotidiano torinese Tuttosport, che da anni segue da molto vicino le vicende degli arbitri e del palazzo calcistico. Il terzo soggetto della foto, un tipo pittoresco e corpulento, è tale Fabrizio Carroccia, romano, più noto col nome d’arte Er Mortadella: è il capo degli ultrà della Roma, volato chissà perché a Torino e finito chissà come nella tribuna vip per assistere alla partita della Juve, anziché essere al seguito dei giallorossi; in realtà, più che della Roma, il Mortadella è tifosissimo di Lucianone.
Che il designatore arbitrale Baldas sieda in quel palco è cosa normale: rientra nei suoi doveri istituzionali visionare le partite per valutare le prestazioni degli arbitri. Stupisce invece, e molto, la compagnia del giornalista e dell’ultrà. Chi li ha fatti accomodare, visto che in quelle poltrone vip si accede soltanto a inviti, e questi inviti possono venire solo dalla Juventus e dalla Publigest (la società che gestisce lo stadio delle Alpi)? Er Mortadella dichiara: «Avevo avuto un biglietto da Luciano Moggi, di cui sono amico da anni». Ma la sera stessa, intervistato in Tv, il pittoresco ultrà romanista tenta una goffa marcia indietro: «Mi sono infilato lì nel palco vip da solo». Quanto a Di Tommaso, il mistero è fitto. L’unico dato certo è che nessun giornalista può avere né ha mai avuto accesso alle poltrone vip dello stadio torinese, e nessuno sa chi l’abbia invitato. «Non ce lo spieghiamo», fa sapere un portavoce di casa Juve, «noi certo non l’abbiamo invitato. Ma se il designatore si presenta con due ospiti, la sua compagna e Di Tommaso, noi li facciamo accomodare».
Baldas, in televisione, finge che si sia trattato di una semplice coincidenza: «Ho trovato lì Di Tommaso come a San Siro trovo Moratti o Facchetti», e spiega che, avendo posteggiato la propria auto lontano dallo stadio, ha incontrato Di Tommaso che passava di lì e ha accettato un passaggio sulla sua fiammante Lancia K fino al parcheggio della tribuna vip una specie di autostop di lusso... Il venerdì successivo la Publigest si addossa tutta la responsabilità: «Abbiamo invitato noi sia Di Tommaso sia Mortadella», ma lascia intendere che questa è una versione sollecitata dalla Juventus. Anche perché è stranoto che Di Tommaso è un altro amicone di Lucianone.
La Juventus è imbarazzata per le voci e i sospetti sorti intorno alla triangolazione Di Tommaso-Moggi-Baldas. Per cui tenta di prendere le distanze da Di Tommaso, anche perché il giornalista di quelle amicizie Baldas e Moggi non fa mistero. Così Lucianone si produce in uno dei suoi migliori pezzi: «La Juventus non è responsabile di ciò che una persona dice in giro, delle amicizie più o meno intime di cui chiunque si potrebbe vantare... La Juventus risponde soltanto dei comportamenti dei suoi tesserati». Ma fa notare la Gazzetta dello Sport «diversi giornalisti si sono lamentati con la Juventus perché Di Tommaso in alcune trasferte di Champions League ha viaggiato sul charter e alloggiato nell’albergo della squadra juventina, in vacanza da impegni professionali, pare da ospite».
Alla Juventus non resta che confermare: «Se qualcosa del genere è accaduto in passato, da quest’anno non accadrà più». Altre voci, intanto, spiegano i rapporti all’amatriciana fra Er Mortadella e Lucianone. Una di queste ricorda il burrascoso passaggio di Moggi dalla Roma alla Juventus nell’estate 1994: una furiosa litigata, finita sui giornali, con il presidente Franco Sensi che accusava Lucianone di aver rubato alla Roma il difensore Ciro Ferrara e il centrocampista Paulo Sousa, i quali benché in trattative con la società giallorossa erano passati alla Juve al seguito di Moggi. Da allora Sensi era stato protagonista di epiche risse anche con Er Mortadella: polemiche finite addirittura in tribunale. Dopodiché il presidente capitolino era stato bersagliato da continue e spesso ingiustificate contestazioni dalla tifoseria romanista, tifoseria che guarda un pò aveva tra i suoi capi indiscussi proprio il signor Mortadella amico di Lucianone.
L’allenatore dell’Inter, Gigi Simoni, denuncia pubblicamente le gravi anomalìe di tutta la faccenda, e sollecita un’inchiesta sportiva. Alla fine, dopo molte titubanze, il presidente della Figc Luciano Nizzola "il vecchio amicone di Lucianone" è costretto ad aprire l’inchiesta. I fatti sono piuttosto chiari. Primo: l’arbitro Baldas è giunto allo stadio a bordo della "Lancia K" guidata da Di Tommaso (il quale ha il raro privilegio di posteggiare la fiammante ammiraglia nel parcheggio che allo stadio è riservato ai vip, mentre tutti i suoi colleghi devono accontentarsi di quello riservato ai giornalisti). Secondo: i due hanno assistito alla partita insieme, gomito a gomito, seduti nel box della tribuna d’onore. Terzo: Di Tommaso ha pubblicato su "Tuttosport", con largo anticipo, il nome dell’arbitro designato per Juve-Inter "Ceccarini, appunto" ben prima che il designatore Baldas ufficializzasse quella decisione. Quarto: Di Tommaso ha addirittura pubblicato, il martedì mattina successivo a Juve-Inter, su "Tuttosport", il referto testuale dell’arbitro Ceccarini, e ha anticipato il verdetto del giudice sportivo che l’indomani squalificherà Simoni (per 3 giornate), Ronaldo (2), Zé Elias (3), Zamorano (2) e Pini (1). Chi ha confidato al giornalista, fin dal lunedì pomeriggio, il referto dell’arbitro, decisivo ai fini di una sentenza che sarebbe stata emessa soltanto il mercoledì pomeriggio? Chi gli ha passato la notizia?
«Me l’ha passata un barelliere», ridacchia Di Tommaso, che "come il suo amico Lucianone" è un tipo molto spiritoso. Si sospetta che l’autore della "soffiata" sia l’arbitro stesso, o un guardalinee, o il quarto uomo, o qualche "gola profonda"... C’è qualche collegamento fra queste quattro "stranezze" denunciate da Simoni? Molti pensano di sì. Su Di Tommaso si addensa il sospetto di essere al centro di un canale privilegiato per l’accesso a informazioni riservate. Una posizione, la sua, che oggettivamente condiziona arbitri e società di calcio.
Molto amico di Baldas (che lo chiama "fratello"), di Luciano Nizzola, e soprattutto di Lucianone, il giornalista è diventato un interlocutore privilegiato del mondo arbitrale durante la gestione Casarin (ex arbitro molto gradito alla Juve, che nel 1990, attraverso Luca Cordero di Montezemolo, gli aveva offerto addirittura un posto da dirigente, ma lui lo aveva rifiutato in extremis per assumere incarichi federali). Da allora Di Tommaso segue come un’ombra gli arbitri, ai quali - scrivono vari quotidiani - telefona col cellulare nell’intervallo dalla tribuna stampa per informarli sulle azioni più contestate riviste in tempo quasi reale ai monitor della tribuna. Il che, se fosse vero, condizionerebbe gli arbitraggi, inducendo i direttori di gara a "bilanciare" nel secondo tempo gli errori eventualmente commessi nel primo.
Inoltre - scrivono ancora i giornali - molti arbitri sono soliti telefonare a Di Tommaso a fine partita, per avere da lui un giudizio "autorevole" sulla qualità del loro arbitraggio e qualche particolare in più sulle immagini televisive delle azioni più contestate, in modo da "ritoccare" i referti prima di consegnarli alla giustizia sportiva (referti che dovrebbero basarsi soltanto sulle cose viste sul campo, e non riviste alla moviola da qualche solerte consigliere). In effetti Di Tommaso, oltre che un giornalista è anche una specie di compiacente public relations man dei fischietti: non solo perché si occupa di loro tutto l’anno sul suo quotidiano sportivo e in televisione, ma anche perché a fine partita è solito avvicinare uno per uno i colleghi in tribuna stampa, raccomandandogli di «trattare bene l’arbitro» nelle pagelle e nei commenti.
Insomma gli arbitri hanno fondati motivi di riconoscenza e timore reverenziale nei suoi confronti, il che accresce il potere del giornalista verso l’intera categoria. Si racconta che, un giorno, un arbitro torinese allontanò Di Tommaso in malo modo perché infastidito dalla sua petulanza: poche ore dopo, l’arbitro venne severamente redarguito dall’allora designatore Casarin. Mai maltrattare l’"amico Danilo", infatti gran parte delle giacchette nere ha capito l’antifona e intrattiene con lui affettuosissimi rapporti. "La Gazzetta dello Sport" riferisce che «Di Tommaso è stato visto spesso al ristorante "La Terrazza" di Posillipo in compagnia di alcuni fischietti quotati, in particolare Treossi e Collina. Sono frequenti anche le sue uscite con Braschi e con Messina. Con Rodomonti ultimamente si sarebbe "rotto qualcosa". Non ci sarebbe tanta intesa con i torinesi Pairetto e Trentalange».
Di Tommaso verrebbe sistematicamente a conoscenza delle designazioni arbitrali con largo anticipo, come raccontano alcuni suoi colleghi di "Tuttosport". Così, giocando un po’ sull’equivoco, sarebbe in grado di fornire la lieta notizia in anteprima agli arbitri: «Domenica ti facciamo arbitrare la Juve...»; oppure alle società, per esempio la Juve dell’amico Lucianone: «Domenica vi mandiamo Tizio...». Lo conferma un ex arbitro ormai in pensione, il romano Giuseppe Rosica: «Beh, prima che uscisse il comunicato ufficiale delle designazioni, lui (Di Tommaso) già le conosceva. A volte le anticipava persino a noi. Spesso giocava tra il serio e l’ironico a millantare credito con frasi come "Ad arbitrare Roma-Milan ci mandiamo..."».
D’altronde, prosegue Rosica, «Di Tommaso era sempre presente ai nostri raduni. L’80 per cento degli arbitri e dei guardalinee aveva rapporti con lui (compreso me). Era l’amico di noi arbitri, quello che ci difendeva. So che è stato spesso ospite a pranzo dei miei colleghi. Noi arbitri accettavamo questa situazione, perché ci sentivamo in qualche modo legittimati dallo stretto rapporto che aveva con Paolo Casarin, designatore fino al 1997». E sul caso Baldas? «So di qualche mio collega arrivato allo stadio con lo stesso taxi (di Di Tommaso, ndr). Solo una volta ha viaggiato con me durante un’edizione del torneo anglo-italiano. L’ho incontrato all’aeroporto di Milano e Di Tommaso mi disse che doveva fare un’intervista a un giocatore inglese. In realtà per tutto il tempo si è intrattenuto con la mia terna e quella dell’arbitro Treossi, cosa del tutto anomala. Quando le società ci mandavano a prendere dall’interprete per portarci al ristorante, lo trovavamo già là».
Che ne pensa, Rosica, della coppia Baldas-Di Tommaso allo stadio Delle Alpi? «Non è normale che un commissario che va allo stadio per giudicare un arbitro si sieda accanto a un giornalista». È vera la voce delle telefonate nell’intervallo e alla fine delle partite? «A fine partita telefonavamo all’amico giornalista per sapere come avevamo arbitrato. E molti colleghi, me compreso, chiamavano proprio Di Tommaso».
Che lo strano giornalista "amico degli arbitri" Di Tommaso e il direttore generale della Juve Moggi siano amiconi lo sanno tutti. I due si conoscono da anni, fin da quando il giornalista era un giovane corrispondente dal Golfo per "Tuttosport" e Lucianone era il direttore sportivo del Napoli calcio. I due amiconi cenano spesso insieme, una bella e antica abitudine cominciata a Napoli e proseguita a Torino, dove Di Tommaso e Lucianone approdarono in tempi diversi (Moggi come dirigente del Toro di Sergio Rossi, poi del Toro di Borsano, e infine della Juve di Giraudo; Di Tommaso come redattore e inviato di "Tuttosport"). Locali preferiti dai due sotto la Mole: "Ilio - I due Mondi" e "Urbani", nel quartiere San Salvario.
Secondo vari cronisti sportivi, Di Tommaso è solito rendere visita agli arbitri destinati alla Juventus la sera prima delle partite (sia per quelle casalinghe, sia per quelle in trasferta, che il giornalista seguirebbe privatamente, come "ospite", a bordo dell’aereo della Juventus). Tutti particolari, questi, che spiegano la strana reticenza con cui Baldas risponde alle domande circa il "passaggio" offertogli dal Di Tommaso sulla "Lancia K" per Juve-Inter. Interrogato per ben cinque volte sul punto dai direttori di due quotidiani sportivi (Candido Cannavò della "Gazzetta dello Sport" e Mario Sconcerti del "Corriere dello Sport"), Baldas rifiuta ripetutamente di ammettere la circostanza, peraltro confermata da quattro giornalisti testimoni: si limita ad ammettere «un normale rapporto di conoscenza con Di Tommaso, come con altri suoi colleghi che si occupano di arbitri». Una reticenza tanto imbarazzata quanto imbarazzante. E sospetta.
Anche Di Tommaso, per giorni e giorni, non fornisce alcuna spiegazione sui fatti contestati: ha preferito volare alle Hawaii per una settimana di vacanza. Poi, finalmente, si fa vivo con un esilarante editoriale da Honolulu, pubblicato da "Tuttosport" il 4 maggio: «Ce l’hanno con me perché ho le notizie in anteprima e faccio gli scoop, tutta invidia», scrive il cronista amicone di Lucianone. Per il resto, autoincensamenti, messaggi trasversali ai colleghi-nemici e nessuna spiegazione plausibile, quindi il saluto finale: «Aloha» una vera anguilla, di quelle che piacciono un sacco a Moggi.
Intanto i quotidiani concorrenti continuano a pubblicare note biografiche non proprio benevole sul conto di Di Tommaso. "Il Giornale" lo chiama «faccendiere». Il direttore della "Gazzetta dello Sport", Cannavò, lo dipinge come «confidente degli arbitri, loro punto di riferimento per consulenze, referti, designazioni e stati depressivi», uno che contemporaneamente «lavora o ha appena lavorato per un giornale, per una moviola, per Casarin (il suo padre putativo), per alcune federazioni... e si vanta di essere la scorta di Giraudo in Lega e di andare spesso a cena con Nizzola, Moggi, Baldas e compagnia bella»; poi Cannavò si scaglia contro «i faccendieri che si agitano, senza un ruolo, ma con grande confidenza equamente spartita tra gli arbitri, i loro capi e taluni dirigenti di società».
Qualcuno va a scavare nei trascorsi sportivi dell’intrigante giornalista, e scopre che sono piuttosto burrascosi. Ex arbitro di calcio. Ex giudice internazionale di scherma allontanato in circostanze rimaste misteriose (secondo "La Gazzetta dello Sport", Di Tommaso venne addirittura «radiato o allontanato alla chetichella» ma l’interessato nega: «Se trovate un solo elemento che provi questa falsità, vi pago una cena»).
Ex dirigente del Posillipo pallanuoto di Napoli (1986-88). Ex responsabile delle relazioni esterne della Federazione italiana pallanuoto (dal 1991 al gennaio 1998). Ma, nel 1997, uno spiacevole contrattempo: i dirigenti del Posillipo pallanuoto, che l’avevano cacciato anni addietro, lo accusano di essersi vendicato convincendo l’arbitro Caputi - suo fraterno amico, con il quale aveva cenato giusto la sera prima - a danneggiare la squadra partenopea nella decisiva finale-scudetto contro il Pescara. Lo dice Paolo De Crescenzo, tecnico del Posillipo, che oltre a rivelare l’episodio della cena, aggiunge: «Di Tommaso è molto, molto amico del presidente del Pescara Gabriele Pomilio». Ancora arbitri, ancora dirigenti, ancora amicizie molto strette, ancora sospetti e errori a senso unico. Anche in piscina...
Lo scandalo Juve-arbitri ha due seguiti per così dire "giudiziari". Due inchieste penali delle procure della Repubblica di Torino e di Firenze, investite del caso da alcune denunce private. E un’inchiesta federale su cinque arbitri internazionali - Bazzoli, Collina, Treossi, Cesari e Ceccarini - per presunte frequentazioni "scorrette" con il giornalista Di Tommaso. Senza contare che Fabio Baldas viene silurato (il nuovo designatore arbitrale è Luigi Gonella), e la Federcalcio tenta di ripristinare un minimo di trasparenza affidando le designazioni al sorteggio informatico.
Il 4 maggio 1998 il procuratore dell’Associazione italiana arbitri (Aia) Paolo Grassi interroga una quarantina di testimoni, fra tecnici e assistenti. Il 1° giugno, dopo le proteste della Juventus moggiana, Grassi smentisce indagini su arbitraggi riguardanti la società bianconera e afferma di indagare soltanto sulle fughe di notizie, le confidenze e le cene di alcuni arbitri con il giornalista tuttofare. Il 7 luglio la Procura dell’Aia dichiara chiuso il lavoro istruttorio, senza deferire nessuno perché testuale le giacchette nere coinvolte avevano, sì, frequentazioni "a rischio", ma «psicologicamente non sapevano di sbagliare».
Un verdetto talmente scandaloso che perfino Nizzola non può far finta di niente: il presidente della Federcalcio, incalzato dalle proteste di alcuni giornali e con la poltrona traballante, decide di avocare a sé l’inchiesta. E il 21 luglio, completata la lettura delle 41 pagine dell’istruttoria, invita Grassi a ritornare sui suoi passi. Così, come per miracolo, il 28 luglio i cinque arbitri (dalla lista degli indagati manca inspiegabilmente il designatore Baldas) vengono deferiti alla Commissione disciplinare dell’Aia. L’accusa è grave: avere violato i doveri di «moralità e rettitudine» imposti dal regolamento, tra cene, incontri, vacanze, telefonate, scambi di regali e ammiccamenti col giornalista Di Tommaso.
L’arbitro Cesari ha mentito alla Procura arbitrale, "dimenticandosi" una delle tante cene romane con alcuni colleghi e con il giornalista, e la memoria gli è tornata fuori tempo massimo, soltanto quando l’ex collega Rosica e un guardalinee lo hanno platealmente smentito («Fu proprio Cesari a pagare il conto, era una sorta di padrone di casa, quella sera»). L’arbitro Treossi è un habitué alla tavola di Di Tommaso, come pure l’arbitro Ceccarini, presente con i due ad almeno una cena alle "Terrazze" di Napoli. L’arbitro Collina deve spiegare una cena con Di Tommaso e Baldas. L’arbitro Bazzoli confessa addirittura di essersi consultato con l’intrigante giornalista di "Tuttosport" su un episodio di Atalanta-Parma, per il quale non sapeva che pesci pigliare in sede di referto.
Il codice delle sanzioni Aia prevede il ritiro della tessera, la sospensione temporanea, l’ammonizione e la censura. Alla fine, la Disciplinare opterà per la sanzione più blanda, la censura, e a carico di soli tre arbitri: Ceccarini, Cesari e Treossi (prosciolti Bazzoli e Collina). Anche Baldas tira un sospiro di sollievo: se Collina fosse stato punito per una cena a cui era presente anche lui... Il verdetto, l’indomani, viene commentato da "Tuttosport" con acrimonia in un articolo siglato «D.D.T.»: «Il bilancio della Disciplinare è esilarante... Le sentenze emesse ieri non tolgono e non aggiungono nulla alla già tartassata (le colpe di Nizzola sono massime) categoria arbitrale... Ceccarini, Treossi e Cesari ricevono un cartellino giallo. Le loro colpe sono quelle di essere andati al ristorante o al bar con chi scrive... Da ieri gli arbitri sanno che andare al ristorante con chi scrive può portare all’ammonizione. Non di più» e alla fine del pezzo, la sigla «D.D.T.»: ma sì, proprio lui, Danilo Di Tommaso! Che lezione di stile!
Anche "La Stampa", evidentemente richiamata all’ordine sulla linea Moggi, tuona e fulmina, e non certo perché le sanzioni siano "come sono" troppo blande, anzi. «È finito», scrive l’anonimo cronista, «anche il secondo atto (l’ultimo, speriamo, perché la trama è davvero povera) del grande sceneggiato andato in scena (sic) negli ultimi mesi. Un fumettone estivo che aveva pretese di "moralizzare" un sistema... e che è finito con una umoristica bolla di sapone. Come era ampiamente prevedibile, viste le incredibili premesse». Di tutt’altro livello l’editoriale di Candido Cannavò sulla "Gazzetta dello Sport": «Cari Giraudo, Bettega e Moggi, nessuno si sarebbe permesso il minimo sussurro se questo amicone degli arbitri (Di Tommaso, ndr) non fosse stato di casa anche nel vostro club, scortandovi talvolta addirittura in Lega. Suvvia, un po’ di cautela...».
Il caso vuole che proprio il giorno del verdetto si diffonda la notizia che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze ha aperto un fascicolo sullo scandaloso arbitraggio di Empoli-Juventus del 19 aprile 1998, per il gol del terzino toscano Bianconi ignorato dall’arbitro Pasquale Rodomonti. A innescare l’indagine - che il magistrato fiorentino Luigi Bocciolini definisce subito «un atto dovuto» - sono due esposti: uno presentato da un avvocato napoletano, l’altro dal coordinatore nazionale del "Movimento per i diritti civili", Franco Corbelli (molto amico del deputato-showman Vittorio Sgarbi). Si ipotizza che dietro la clamorosa svista arbitrale si nasconda il dolo: il che, secondo Corbelli, potrebbe configurare il reato di truffa e abuso d’ufficio (secondo una certa giurisprudenza anche gli arbitri sono pubblici ufficiali, o almeno incaricati di pubblico servizio); oppure, se per ipotesi si appurasse che sono girate delle mazzette, quello di corruzione. E sarebbe possibile anche l’illecito sportivo (che in Italia, come si è visto nello scandalo delle "squillo" reclutate da Lucianone, è reato penale). La Procura di Firenze, anzitutto, acquisisce agli atti le indagini federali, il referto arbitrale, il responso del commissario di campo, mentre la polizia giudiziaria preleva nella sede della Rai le immagini televisive e le moviole della partita incriminata.
Desta scalpore, fra l’altro, la circostanza che ha preceduto la designazione di Rodomonti per quella delicata partita Empoli - Juve. Ufficialmente, nel calcio italiano nessuna società può "ricusare" un arbitro. Il mancato gradimento da parte di questo o quel club non rientra fra i requisiti che il designatore inserisce nel computer per la scelta delle destinazioni domenicali. Eppure Rodomonti, non gradito alla Juve moggiana per un vecchio "sgarbo" risalente addirittura all’autunno del 1994, è rimasto escluso dalle partite della Juventus per tre stagioni: decisione ufficiosa e illecita, mai comunicata pubblicamente, assunta durante la gestione Casarin e proseguita con quella di Baldas.
La quarantena è finita il 15 febbraio 1998 con Juventus- Sampdoria (direzione di gara contestatissima dai blucerchiati). Dopodiché il redento Rodomonti è tornato ad arbitrare la Juve a Empoli, dove fino a prova contraria, in buona fede, ha regalato 2 punti importantissimi alla Juventus diretta da Lucianone, consentendole di mantenerne uno di vantaggio sull’Inter proprio alla vigilia dello scontro diretto. Ma i due denuncianti, per connessione, chiedono alla Procura fiorentina di indagare anche su altri tre arbitraggi sospetti: quelli di Juve-Roma, Lazio-Juve e Juve-Inter.
«Non vogliamo ridisegnare il campionato, mettendo il naso anche nel calcio», si limita a dichiarare il pubblico ministero interpellato da "Il Giornale", «ma ci è stato sollecitato un approfondimento su alcuni arbitraggi tecnicamente discutibili e noi andremo fino in fondo per vedere come sono andate realmente le cose. Come cittadino io credo poco all’ipotesi degli arbitri corrotti ma, se sarà fondato dubitare, andremo avanti con tutti gli accertamenti possibili».
Intervistato dall’Ansa, il procuratore aggiunto Francesco Fleury spiega: «Non c’è alcuna ipotesi di corruzione né di altri reati. Non ci sono indagati, ma si tratta di accertamenti dovuti, disposti dopo la presentazione di un esposto». Anche il procuratore generale Cuttadauro interviene per chiarire i termini della questione: «Sono arrivate diverse denunce, tutte generiche, e non solo alla Procura di Firenze: era doveroso seguire la vicenda». Pochi giorni più tardi, dalla Procura di Torino trapela l’indiscrezione che anche lì si sta indagando in seguito a due denunce che riguardano Juventus-Inter, Juventus-Roma, Juventus-Udinese e Lazio-Juventus; due denunce e che ipotizzano apertamente arbitri "comprati" dalla squadra bianconera, con varie accuse a Moggi. Non si sa quali elementi concreti abbiano presentato i denunzianti.
La Juventus di Lucianone, ufficialmente, non replica a queste iniziative della magistratura, ma l’irritazione e l’imbarazzo sono palpabili. Un anonimo portavoce della società «non ritiene di dover replicare a tutto quanto viene detto e scritto sulla Juventus», ma in piazza Crimea si parla di «crociata antijuventina ». Basterebbe una battuta, per sdrammatizzare. Uno slancio di stile, tanto per cambiare un po’, in memoria dei vecchi tempi. Invece niente. Sindrome da stato d’assedio e digrignar di denti. Come sempre, nell’era Moggi.
LUCIANONE ALL'ANTIDOPING
Il calcio è un grande spettacolo, ma quello italiano è all’italiana: basta grattare un po’, e salta fuori di tutto. Per esempio il doping, un nemico mortale dello sport, infatti vietatissimo da normative internazionali (del Cio) e nazionali (del Coni), fatte di minuziosi controlli e pesanti sanzioni. Normative vigenti dappertutto e per tutte le discipline agonistiche. Dappertutto fuorché in Italia, dove almeno uno sport rimane fuori della legge, anzi senza legge: il calcio.
Il tabù del doping lo infrange l’allenatore della Roma Zdenek Zeman con un’intervista all’ "Espresso" il 6 agosto 1998. Per il calcio italiano, dopo l’overdose dei mondiali di Francia, è la fine anticipata delle vacanze. L’8 agosto la procura antidoping del Coni apre un’inchiesta. Il 9 agosto si muove anche la magistratura ordinaria, attraverso il procuratore aggiunto presso la Pretura di Torino Raffaele Guariniello, una vita trascorsa a proteggere la salute e i diritti dei cittadini e dei lavoratori. Guariniello convoca subito Zeman, in attesa di interrogare tutti i maggiori protagonisti dell’Italia pallonara.
Ma cosa ha detto Zeman? La parola doping non l’ha mai pronunciata, si è limitato a denunciare che «il campionato rischia di finire come il Tour de France»: cioè sotto inchiesta per l’uso di anabolizzanti e altre sostanze dopanti. Nel calcio, sostiene Zeman, circolano troppi farmacologi, troppi farmaci, troppi «medici passati dalla bicicletta al pallone», mentre le società sono inondate di «depliant che reclamizzano prodotti capaci di migliorare del 50 per cento le prestazioni degli atleti ». Poi fa qualche esempio: «Sono rimasto sorpreso dalle esplosioni muscolari di alcuni juventini. Lo sbalordimento cominciò guardando la trasformazione di Gianluca Vialli (ex attaccante della Juve, ndr) e, per il momento, arriva ad Alessandro Del Piero (fuoriclasse della Juve, ndr). Avendo praticato diversi sport, io pensavo che determinati risultati si potessero ottenere solo con il culturismo, dopo anni e anni di addestramento specifico».
Poi Zeman tira in ballo anche un altro juventino, Ciro Ferrara, l’ex difensore del Napoli amicone di Moggi ai tempi di Maradona e dei coca-party: «Non credo che Ferrara ignorasse i problemi (con la droga, ndr) del fuoriclasse argentino: se qualcuno avesse preso a cuore la tossicodipendenza di Maradona, lo si sarebbe salvato da una mesta parabola». Sagge parole, che scatenano un putiferio. La reazione della Juventus è immediata e scomposta, affidata com’è al direttore generale Moggi, l’unico dirigente bianconero presente in Italia (gli altri sono tutti in ferie).
«È la solita cultura del sospetto!», tuona Lucianone, che minaccia di querelare Zeman. Ma c’è chi è pronto a giurare che quello stesso giorno parta da Torino una telefonata al presidente federale Luciano Nizzola, ancora in vacanza, con la perentoria richiesta di un’immediata squalifica di Zeman per almeno un anno. Anche il procuratore di Del Piero, Claudio Pasqualin, annuncia una querela a carico dell’allenatore boemo. Idem Vialli, che alza il tiro: «Zeman è un terrorista che dice coglionate! Se la Federcalcio non lo squalifica sono dei buffoni». Anche l’allenatore juventino Marcello Lippi attacca il collega romanista usando dei toni vagamente intimidatori: «Sappiamo bene chi è Zeman, il tipo di messaggi che manda e con quali scopi... Chi tira in ballo nomi come Vialli e Del Piero deve stare molto attento... La Juventus è un esempio per tutti, io non ho nulla da temere, tutti sanno come lavoro: vengono da tutto il mondo per vedere che cosa facciamo».
Già, vengono proprio da tutto il mondo. Specialmente dalla Spagna e dall’Olanda. Grazie a Giuseppe Smorto, caporedattore di "Repubblica", si scopre infatti che nel ritiro di Châtillon (Aosta) dove da qualche giorno si allena la Juve in vista della nuova stagione, si sono aggregati due consulenti stranieri con un passato quantomeno dubbio, in tema di doping: il preparatore atletico olandese Henk Kraaijenhof e il fisiologo (o dietologo, non è chiaro) argentino-spagnolo Guillermo Laich.
Chi sono, questi due? Lo ricorda Smorto, citando il libro Campioni senza valore scritto da Sandro Donati (allenatore di atletica, antico e inascoltato nemico del doping, nonché responsabile della divisione Ricerca e sperimentazione del Coni). «Durante i campionati europei di Stoccarda del 1986», scrive Donati, «Kraaijenhof aveva cominciato a sostenere l’opportunità che un atleta impegnato nella preparazione si aiutasse con steroidi anabolizzanti, seppur con dosaggi modesti». Anche il velocista Claudio Pavoni capitò dalle parti dell’olandese dopo aver lasciato i suoi precedenti preparatori, l’allenatore Francis e il medico sportivo Astaphan: gli stessi che per anni avevano lavorato per Ben Johnson, prima che questi concludesse la sua carriera a causa del doping. Quanto a Laich, ricorda Donati, è stato a lungo collaboratore del dottor Kerr di Los Angeles, colui che somministrò negli anni Ottanta l’ormone somatotropo a molti atleti, rendendo poi pubblica la sua sperimentazione. «Kerr», scrive Smorto, «propose il doping anche a Pietro Mennea, che rese pubblico il fatto con una clamorosa intervista a Gianni Minà».
Rimane da capire perché mai la Juventus diretta da Moggi abbia sentito il bisogno di reclutare due "sciamani" del doping come Kraaijenhof e Laich. Anche perché lo staff medico juventino è tutt’altro che sguarnito: oltre al responsabile del settore medico Riccardo Agricola (pugliese, laureato in psichiatria e specializzato in medicina sportiva), al medico sociale Fabrizio Tencone e al preparatore atletico Giampiero Ventrone (già al Napoli con Lippi e Moggi), nell’ultimo anno la società bianconera si è avvalsa della collaborazione del fisioterapista molisano Aldo Esposito, di tre massaggiatori, nonché della consulenza del guru della medicina sportiva Elio Locatelli (ex allenatore della Nazionale italiana di atletica).
E non è finita. Infatti salta fuori un altro libro, intitolato In campo con la Juve (Sperling & Kupfer), autore Giampiero Ventrone. Il quale ammette candidamente di imbottire i calciatori di creatina, come "integratore" per far recuperare le fatiche delle partite e degli allenamenti. La creatina non è una sostanza vietata, né è considerata dopante: ma sulle sue conseguenze per la salute degli atleti circola più di un dubbio, specialmente sul lungo periodo. È ormai certo, poi, che in dosi massicce aiuta a migliorare artificialmente le prestazioni, e serve anche a "coprire" le sostanze dopanti rendendole irriconoscibili ai controlli. Molto dipende, dunque, dai quantitativi somministrati. E Agricola, nella prefazione al libro, scrive: «Durante il ritiro precampionato i giocatori ne assumono una decina di grammi al giorno.... Dosi comunque decisamente inferiori a quelle di quattro anni fa, quando ne facemmo uso per la prima volta».
Tre anni prima "agli albori dell’era Lippi più Moggi" aveva fatto scalpore un’altra sostanza: la carnitina, che favorisce la trasformazione del grasso in energia e diminuisce il dolore fisico dopo lo sforzo. Una vera specialità di Ventrone, che aiuta i giocatori a correre come dei forsennati. Nemmeno quello era doping, ma anche quella volta si erano accese vivaci polemiche per uno sport sempre più simile a una farmacia. Adesso, invece, si parla di creatina, e non solo. Pochi giorni prima dello scandalo doping fatto scoppiare da Zeman, Agricola aveva dichiarato da Châtillon: «Tutto quello che usiamo noi lo può prendere tranquillamente un bambino di sei anni».
Dopo appena due giorni dall’apertura dell’indagine sulla Juve e le altre società di serie A al centro dei sospetti, il procuratore Guariniello riceve un’inquietante minaccia. Una voce anonima lo chiama sul cellulare (il cui numero è noto a una ristretta cerchia di colleghi, avvocati e giornalisti) per intimargli: «Giudice, stai bene attento a quello che fai, riguardati la salute». Non è uno dei tanti messaggi anonimi con minacce di ogni genere che arrivano quotidianamente ai magistrati più esposti, e indirizzati genericamente alla Procura; è qualcosa di ben più mirato, un’intimidazione che infatti "stando all’entourage del magistrato" non resterà isolata. Nell’occhio del ciclone, la Juventus sceglie di replicare alle accuse e ai sospetti con una conferenza stampa a due voci.
Oltre al dottor Agricola, si materializza Luciano Moggi in tutto il suo splendore: occhiali scuri e alone ascellare di sudore d’ordinanza, oltre al consueto piglio minaccioso. «Risponderemo a tutte le domande», garantisce Lucianone ai giornalisti. Poi, alla prima domanda un po’ insidiosa, si mette a urlare: «Basta con le insinuazioni!». Agricola, più urbano, minimizza: «Il doping nel calcio non paga... Noi comunque usiamo solo sostanze lecite, cioè gli integratori: creatina, aminoacidi, vitamine, sali minerali».
Quanto ai due "santoni" stranieri ingaggiati dalla Juve, «Laich è un dietologo specialista nella valutazione funzionale dell’atleta», e Kraajienhof «un famoso preparatore atletico». Lucianone è molto nervoso, e quando le domande dei giornalisti insistono su Laich e Kraajienhof taglia corto: «Passiamo ad altro! Queste sono due persone rispettabili, presentateci da una persona rispettabilissima: Elio Locatelli». Poi precisa che i due sono comunque «semplici consulenti», anzi «collaboratori occasionali». Ma è una mezza bugia: almeno per Kraajienhof salterà fuori un regolare contratto di collaborazione, subito acquisito dal procuratore Guariniello.
«Noi», assicura Lucianone spazientito, «ascoltiamo tanta gente, poi alla fine decide sempre il nostro medico». E le passate scorribande dei due "sciamani" nel mondo degli anabolizzanti? Lucianone dà il meglio di sé: «Noi non ne sappiamo niente, abbiamo letto qualcosa sui giornali, ma con loro non abbiamo mai parlato di queste cose, perché la Juventus è contraria al doping... La Juve non è pulita, è pulitissima!». Dopodiché, sempre indossando gli occhiali scuri da guappo di periferia, Lucianone chiude la conferenza stampa con una raffica di minacce: «Noi andremo contro Zeman, andremo fino in fondo con la querela, Zeman dovrà rispondere di tutto, prendersi ogni responsabilità in sede penale! Le sue non sono nemmeno accuse, ma chiacchiere, cose che hanno a che fare con l’ignoranza! E Simoni (allenatore dell’Inter, ndr) s’è schierato con lui perché non sono stati tirati in ballo i giocatori dell’Inter!».
La memorabile conferenza stampa si conclude degnamente: un cronista della "Gazzetta dello Sport", Carlo Laudisa, denuncia la sparizione del suo personal computer, delle sue chiavi di casa e di alcuni altri effetti personali dalla sala stampa della Juventus.
L’indomani, 12 agosto, la coppia Moggi-Agricola è di nuovo in scena: stavolta in trasferta, a Roma, dove il medico della Juve è atteso dal procuratore antidoping del Coni, avvocato Ugo Longo, per un interrogatorio. Longo s’è permesso di dire che Zeman ha posto un problema importante e che è giusto che s’indaghi a fondo sul calcio in farmacia. Apriti cielo! Lucianone, nella sua inedita veste di ambasciatore juventino presso il Coni, si scalmana: «Longo rispetti il segreto istruttorio, senza rilasciare dichiarazioni sulle sue valutazioni personali sulle persone chiamate a testimoniare!».
Il povero Lucianone, non molto istruito neanche in fatto di codici penali, ignora che il procuratore antidoping non è un magistrato, e che dunque non è tenuto ad alcun "segreto istruttorio", tanto meno sulle sue valutazioni personali e generali sul problema-doping. Ma l’ex ferroviere di Civitavecchia, tutto preso dalla inedita veste di giureconsulto, infila una gaffe dietro l’altra: trascinato dalla boria, arriva perfino a eccepire sull’opportunità che la Procura antidoping abbia deciso di sentire «quello scemo di Zeman» lo stile della Juve moggiana, come sempre, non è acqua. Ma il rebus dei due "sciamani" non finisce qui. L’augusto avvocato-presidente Chiusano, intervistato dalla Tv, ammette candidamente di non conoscerli, mai visti il che, per un presidente di società, è piuttosto grottesco.
Gli altri dirigenti juventini tacciono: l’unico che ufficialmente conosce e difende l’olandese e lo spagnolo è Lucianone. Almeno per un po’. Perché una settimana dopo, Kraajienhof rilascia un’intervista a un quotidiano olandese nella quale invoca addirittura «la liberalizzazione degli anabolizzanti» e delle altre sostanze dopanti. È quello che lui ha sempre pensato, ma ha scelto il momento sbagliato per ribadirlo: l’imbarazzo in casa Juve si taglia col coltello. I due santoni sono ormai troppo ingombranti. Che fare? Cacciarli su due piedi significherebbe ammettere che c’era qualcosa da nascondere; tenerli come se niente fosse vorrebbe dire condividere le imbarazzanti tesi dell’olandese. Tocca di nuovo a Lucianone vergare un comunicato nel suo incerto italiano: «Ammesso che il signor Kraajienhof abbia rilasciato tale dichiarazione, si tratta di un parere del tutto personale, che non corrisponde al pensiero della Juventus, che anzi è esattamente il contrario» – testuale.
In soccorso di Lucianone accorre l’amicone Nizzola, ancora in ferie in Kenya. Da Nairobi il presidente della Federcalcio detta alle agenzie una memorabile dichiarazione in cui afferma che i controlli antidoping nel calcio italiano sono «all’avanguardia nel mondo» (la qual cosa "come emergerà di lì a poco" è un’assoluta falsità), e bolla chi obietta sull’uso di creatina e pozioni ancora peggiori come un nemico del «progresso scientifico». Posizioni, quelle dei due Luciani tornati a essere pubblicamente Gatto e Volpe, tanto difensive quanto indifendibili. Anche perché si scopre ben presto che i calciatori assumono tutto quello che i medici delle società gli propinano, senza neanche sapere bene di cosa si tratta e quali conseguenze possano avere sulla loro salute. Il che, fra l’altro, vìola la legge 626/94 sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti, e tali vanno considerati anche i giocatori di calcio: una legge che stabilisce precise responsabilità non solo dei medici, ma anche dei dirigenti dei club. I quali, in quanto datori di lavoro, sono tenuti a informare i sottoposti dei rischi derivanti dall’attività lavorativa nonché a prevenire e a ridurre al minimo quei rischi. Ma risulta che nessun dirigente di nessuna società di calcio lo abbia mai fatto. Men che meno la Juventus di Lucianone & C.
Se ne rende conto il procuratore Guariniello quando fa sequestrare dagli ispettori della Usl le cartelle cliniche dei calciatori bianconeri, sulle quali il medico non registra mai gli "integratori" somministrati; e soprattutto quando il magistrato interroga decine di calciatori, tutti famosi e miliardari: costoro sanno tutto dei quattrini che guadagnano, fino all’ultima lira, ma delle sostanze che assumono ogni giorno sanno pochissimo, quasi niente.
Dalle candide deposizioni dei giocatori davanti al magistrato vien fuori un po’ di tutto. Del Piero confessa che proprio nell’ultimo ritiro precampionato, quello caratterizzato dall’arrivo alla Juve dei due "sciamani" stranieri, i dosaggi di creatina e altre delizie sono improvvisamente aumentati. Non solo: alla vigilia dell’ultima finale di Coppa campioni (poi finita male, con la Juventus entrata in campo già cotta), per un mese intero il dottor Agricola ha somministrato a ciascun giocatore juventino 10 pillole colorate a giorni alterni. Che cosa fossero, Del Piero non sa dirlo; dalla Juve si fa trapelare che si trattava di vitamine e sali minerali. Perfino Kraajienhof, sentito da Guariniello, prende le distanze dalla Premiata Farmacia Juventus: dice che i sistemi di allenamento di Ventrone provocano lesioni e infortuni continui alle ginocchia dei giocatori, e che la creatina che gira in casa bianconera è decisamente troppa: dai 10 ai 20 grammi quotidiani a testa. Molti più di quanti ne abbiano ammessi lo stesso Del Piero e gli altri giocatori bianconeri (compreso qualche "ex") interrogati dal magistrato: Vialli, Deschamps, Tacchinardi, Jugovic, Sousa, ecc.
Ma c’è un’altra faccia dello scandalo doping che alimenta sospetti anche sulla Juventus: quello dei controlli antidoping farsa presso il laboratorio Coni dell’Acquacetosa, a Roma. Lì succede di tutto: in base alle norme Coni e Cio, tutte le provette con i campioni delle urine sorteggiati e prelevati ogni domenica su tutti i campi dei vari campionati professionistici dovrebbero essere analizzati, alla ricerca di tutte le sostanze vietate dalla lista nera del Coni (e del Cio). Invece si scopre che almeno per il calcio certe sostanze, come l’ormone della crescita, non vengono neanche cercate; altre, come gli anabolizzanti, soltanto sul 10-20 per cento delle provette; e i diuretici, che "coprono" gli steroidi, solo sul 5 per cento...
Il presidente della Federcalcio Nizzola, che solo qualche giorno prima giurava sulla "perfezione" del sistema antidoping italiano, scarica tutto sul Coni. E così fanno i vari club e il loro trust, la Lega calcio presieduta da Franco Carraro (uomo Fiat al cento per cento). Mario Pescante, presidente del Coni, cade dalle nuvole e scarica tutto sulla Federazione medico sportiva, direttamente responsabile del laboratorio tramite il suo segretario generale, Emilio Gasbarrone. Guariniello raccoglie una serie di denunce su casi di doping acclarati, ma fatti sparire a vantaggio delle società più potenti. I nomi, nel fascicolo del magistrato, sono molti. Si parla anche del caso Maradona, scoperto con tracce di cocaina nelle urine alla fine della sua avventura italiana nel Napoli di Ferlaino e Moggi: qualcuno mette addirittura in dubbio la regolarità di quel controllo che molto (forse troppo) tardivamente "liquidò" l’ormai scomodo campione argentino. Dalle ripetute richieste di informazioni che il magistrato rivolge all’Acquacetosa, emerge pure che le attenzioni della Procura torinese si concentrano fra l’altro su due casi sospetti di doping insabbiato: i giornali scrivono dell’ex juventino (ora in forza al Crystal Palace, in Inghilterra) Michele Padovano per il campionato 1995- 96 (cioè il secondo campionato della nuova dirigenza bianconera), e del difensore del Milan e della Nazionale Alessandro Costacurta (il quale, come anche Padovano, smentisce subito di essere mai stato trovato positivo al doping, e annuncia querele contro chi ha fatto il suo nome).
In casa Juventus il nervosismo sale alle stelle. Il 18 agosto, a Villar Perosa per la tradizionale amichevole della Juve contro la selezione giovanile bianconera, l’Avvocato Gianni Agnelli chiama a rapporto il vertice juventino "Moggi, Bettega, Lippi, Ventrone e gli altri" per saperne di più sullo scandalo doping e sulla posizione della Juve. Lucianone giura che non c’è niente di cui preoccuparsi, che è tutto in regola, che la società non c’entra. Così l’Avvocato dichiara ai giornalisti: «La Juve non c’entra col doping, per fortuna la magistratura indaga seriamente e lo accerterà molto presto. Quelle su di noi sono soltanto chiacchiere».
L’isterìa della dirigenza juventina aumenta quando il magistrato torinese fa ispezionare dai tecnici della Asl il gabinetto medico di Agricola allo stadio Comunale (dove si allena la Juve), asportando le fotocopie di tutte le cartelle cliniche di giocatori e ex giocatori bianconeri, e stampando dal computer tutti i file con le analisi del sangue per confrontare e verificare i valori ematici (dai quali si può eventualmente risalire all’uso di sostanze proibite). Guariniello dispone inoltre perquisizioni anche nelle farmacie dove lo staff sanitario della Juve si rifornisce di tutti i medicinali e i prodotti necessari alla preparazione e alla "cura" dei giocatori. Sarà un caso, ma quando cominciano a trapelare questi particolari sulla Premiata Farmacia Juventus, perfino un uomo prudente come il presidente del Coni Mario Pescante prende le distanze dalla Juve, e davanti al magistrato definisce i due consulenti bianconeri Kraaijenhof e Laich degli «stregoni».
Quanto all’avvocato Longo, procuratore antidoping, chiude la sua inchiesta in fretta e furia. L’ordine di Nizzola è stato perentorio: «Bisogna fare in fretta, perché comincia il campionato». E il calcio giocato "sperano in molti" riuscirà a soffocare lo scandalo del calcio drogato. Pia illusione. Longo chiude la pratica dicendo che «a quel che ci risulta, non sono emersi casi di doping nel calcio»: esito ampiamente prevedibile, visto che davanti a lui chiunque può dire quello che gli pare, anche le bugie, nella giustizia sportiva non si rischiano incriminazioni per falsa testimonianza.
Ma Longo, persona perbene, dice anche altre due cose. Dice che gli "integratori", creatina in testa, sono tutt’altro che acqua fresca: sopra una certa dose, diventano essi stessi doping perché alterano le prestazioni muscolari degli atleti, e dunque andrebbero vietati come le altre sostanze dopanti; e soprattutto dice che Guariniello, «con i suoi poteri di magistrato, potrà scoprire ciò che noi non siamo riusciti a scoprire». Parole profetiche, quelle dell’avvocato Longo. Guariniello, infatti, scopre pochi giorni dopo che dall’archivio Coni dell’Acquacetosa è sparita tutta la documentazione degli esami antidoping sui calciatori: dai referti delle analisi (soprattutto i casi di positività occultati), alle provette con i prelievi. Sarà un caso, ma al primo test effettuato a sorpresa nel settembre 1998 dopo le accuse di Zeman, e in piena inchiesta giudiziaria un calciatore del Lecce e uno del Livorno risulteranno subito "positivi" al doping.
Il magistrato torinese non molla la presa e continua a scavare nella Premiata Farmacia Juventus. I giornali almeno alcuni riportano quotidianamente gli sviluppi sempre più scabrosi dell’inchiesta. Si vocifera di giocatori, anche della Juve, dediti al vizietto della cocaina, e di possibili nuovi test positivi insabbiati nello scandaloso laboratorio dell’Acquacetosa. Una radio romana fa circolare alcuni nomi, compresi quattro di giocatori bianconeri. Così il 2 ottobre Moggi e Giraudo decidono di attaccare il magistrato e i cronisti che seguono l’indagine. I rappresentanti della stampa vengono convocati nello studio dell’avvocato Chiusano alle sette della sera. Arrivano anche Giraudo e Moggi, che però tacciono. Parla invece Chiusano, che si scaglia con veemenza contro «certi metodi di inchiesta, che favoriscono certo giornalismo deteriore».
Ce l’ha soprattutto con Guariniello, colpevole di «indagare senza limiti di competenza e di tempo», dunque «in modo discutibile e scorretto» e per giunta «su reati che non si sa bene quali siano». Dai messaggi per il magistrato, l’augusto avvocato-presidente passa ai messaggi per la stampa: se la prende con «le indiscrezioni infamanti, molto simili agli editti medioevali»; annuncia querele contro chi ha fatto i nomi dei giocatori juventini, e ne minaccia molte altre ancora contro chi oserà tirare ancora in ballo la Juventus. Lucianone, seduto tra Chiusano e Giraudo, si limita a roteare gli occhi, visibilmente compiaciuto per la dichiarazione di guerra.
Due giorni dopo, allo stadio torinese Delle Alpi, si gioca Juventus-Piacenza. Umberto Agnelli pensa bene di surriscaldare un altro po’ gli animi dei tifosi bianconeri, e prima dell’incontro rilascia una dichiarazione subito trasmessa da migliaia di radioline dentro e fuori lo stadio: «I metodi di Guariniello li ha definiti bene Chiusano, ma questa inchiesta deve chiudersi in fretta. Sono cose che disturbano. La squadra non gioca come vorrebbe o potrebbe... Di questo passo, si falsa il campionato». Per sua fortuna, il magistrato torinese non frequenta gli stadi, ma i giornalisti sì. E infatti vengono accolti da striscioni, abilmente organizzati, con scritte del tipo: «Tacete».
Dieci minuti prima della fine della partita, alcune centinaia di esagitati della Curva Scirea si dirigono con una mobilitazione precisa e ordinata verso le cancellate che separano il settore "popolare" dalla tribuna. Alcuni riescono a sfondare le barriere, e arrivati nei pressi della tribuna stampa picchiano un addetto al servizio d’ordine, poi tentano di scagliarsi contro i giornalisti: la polizia in assetto di guerra li blocca a fatica. Altri salgono all’anello superiore e di lì lanciano all’indirizzo della stampa seggioline divelte, monete, sassi, bottiglie, bastoni, sputi. Lo stadio accompagna la spedizione punitiva con un coro martellante: «Uccideteli, uccideteli!». La partita si conclude con la tribuna stampa sgomberata, deserta. Alla fine l’avvocato Chiusano stigmatizza l’accaduto con poche frasi di circostanza, concludendo comunque che «la società non può farci niente». Lucianone, come e meglio del solito, è spudorato: «Io non mi sono accorto di niente, stavo guardando la partita». Anche gli attacchi a Guariniello producono risultati immediati: dopo le parole di Chiusano e Umberto Agnelli, il magistrato comincia a ricevere lettere e altre telefonate minatorie.
Alcuni giorni dopo, il dottor Agricola si reca in Procura per invocare la legge sulla privacy, e chiedere alla magistratura la restituzione delle cartelle cliniche dei giocatori acquisite dalla Asl e trasmesse al magistrato. Guariniello risponderà picche con una lunga e argomentata ordinanza, spiegando quello che qualunque laureato in legge sa benissimo: cioè che la privacy viene meno «per fatti di giustizia», altrimenti nessun magistrato potrebbe più aprire un’inchiesta a carico di chicchessia. La Juventus, a quel punto, annuncia altri ricorsi. Il 15 ottobre il giornalista Marco Travaglio che si occupa dell’inchiesta doping per "la Repubblica" scrive che Guariniello ha commissionato una consulenza farmacologica ad alcuni luminari della medicina sui valori ematici "sballati" (alcuni addirittura "impazziti")di numerosi giocatori bianconeri. Letta la notizia, Chiusano monta su tutte le furie e, partecipando a un programma televisivo sul problema doping, annuncia al giornalista che lo querelerà.
A questo punto entra in campo anche Lippi. Prima dice di «non poter escludere che alcuni calciatori facciano uso privato di cocaina», senza rendersi conto della gravità di quello che sta affermando. Poi si esercita anche lui nel tiro al giornalista scomodo: «Trovo scandaloso che del caso doping si occupino giornalisti di cronaca giudiziaria, che col calcio non hanno nulla a che vedere». Certo, sarebbe meglio che se ne occupassero i giornalisti sportivi, possibilmente i più compiacenti sulla piazza: magari gli amici di Moggi... Ma i sistemi moggian-chiusaniani non riescono ad arginare lo scandalo né a sopire le inchieste con il loro effetto terremoto. Indagato dalla Procura di Roma, che ha ereditato uno spezzone dell’inchiesta torinese, si dimette il presidente del Coni Mario Pescante. Nizzola, abbarbicato sulla poltrona più alta della Federcalcio, continua a giocare allo scaricabarile, spalleggiato dai suoi grandi sponsor: Giraudo, Moggi e Galliani. Ma anche il suo cadreghino traballa: sebbene si ostini a proclamarsi «ignaro di tutto» e addirittura «parte lesa» del pasticciaccio dell’Acquacetosa, Nizzola non può evitare che emergano parecchi altarini poco edificanti sulle responsabilità della Figc.
Guariniello scopre, per esempio, che la Federcalcio si era data un regolamento antidoping tutto suo, in barba all’obbligo di recepire e seguire quello del Coni. In pratica, il calcio italiano godeva di una impunità "legalizzata" tutta particolare, sconosciuta agli altri sport. Non solo non venivano cercati gli anabolizzanti e i diuretici nelle urine dei calciatori, ma addirittura non si controllava neppure che i prelievi nei dopopartita avvenissero in maniera regolare. Le norme del Cio e del Coni prevedono l’obbligo per i medici "prelevatori" di effettuare il controllo del ph (acidità) e della densità urinaria sui campioni prelevati a fine partita, per evitare che i calciatori annacquino l’urina con acqua, Coca-cola o altre sostanze "coprenti" (diluenti o acidificanti); ma la Federcalcio aveva deciso di rendere facoltativa quella prescrizione che, per tutte le altre federazioni, era obbligatoria. In pratica, il ph e la densità urinaria dei calciatori non venivano mai controllati.
E secondo alcuni testimoni, accadeva perfino che alcuni dei medici-prelevatori facessero la pipì al posto dei giocatori "a rischio", su richiesta dei dirigenti e dei medici di alcune società molto potenti. Più volte il Coni aveva sollecitato la Federcalcio a mettersi in regola, ma la Federazione di Nizzola aveva sempre fatto orecchie da mercante. Difficile pensare che la Figc ignorasse i privilegi che essa stessa si era data, privilegi che rendevano i controlli antidoping una farsa bella e buona. E se nel calcio il doping "non risultava" è perché nessuno lo cercava. «È stato un errore, ma l’abbiamo commesso in buona fede», balbetta Nizzola sempre più patetico, aggrappato a una poltrona sempre più traballante, ostinato a non dimettersi. «È la solita cultura del sospetto!», aveva urlato Lucianone all’inizio dell’inchiesta-doping. E il suo amico Nizzola gli aveva dato manforte, giurando che «nel calcio il doping non esiste» perché in Italia i controlli antidoping «sono all’avanguardia nel mondo». Il Gatto e la Volpe nel paese di Pinocchio. |