È in carcere da più di un anno nel penitenziario siciliano del Pagliarelli con l’accusa di essere uno dei più pericolosi boss della tratta di esseri umani, Mered Medhanie Yedhego. Lui, però, si dichiara da sempre innocente e dice di essere Mered Tasmafarian, vittima di un clamoroso scambio di persona. La conferma della sua innocenza potrebbe essere arrivata l’altro ieri da tre giornalisti del Wall Street Journal. Con una loro inchiesta sostengono di aver trovato il vero boss delle tratte che vive libero in Uganda. Qualche mese fa anche il quotidiano inglese The Guardian aveva elementi che scagionava il rgazzo detenuto. Eppure, nonostante le prove a favore della difesa, il processo va avanti. Ma non solo. Come se non bastasse, nello scorso mese di gennaio, il tribunale del riesame di Roma ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ricordiamo che è stato arrestato in Sudan il 24 maggio del 2016 ed estradato in Italia il 7 giugno del 2016 su mandato della Procura di Palermo. In carcere da più di un anno nel penitenziario siciliano del Pagliarelli con l’accusa di essere uno dei più pericolosi boss della tratta di esseri umani, ma lui si dichiara da sempre innocente e dice di essere vittima di un clamoroso scambio di persona. La conferma della sua innocenza è arrivata l’altro ieri da tre giornalisti americani del Wall Street Journal. Grazie a una loro inchiesta sostengono di aver trovato il vero boss delle tratte e che vive in libertà in Uganda. Il Wall Street Journal non indica la data in cui ha contattato l’africano ma scrive che «ha contattato l’uomo tramite messaggi in chat facendo riferimento ai documenti che attestano per il tribunale quella che sarebbe la reale pagina di Facebook di Mered Medhanie Yedhego». Così si chiama il boss detto anche “Il Generale” che organizza tratte lungo la direttrice che collega il Corno d’Africa alla Libia e da lì in Italia. Lui ai giornalisti americani sostiene: «Ero convinto che l’avrebbero rilasciato in poco tempo. Loro sanno che non si tratta del vero Medhanie». I giornalisti del Wall Street Journal scrivono che ci sono dozzine di testimoni che sostengono che «l’uomo dalla faccia di bambino non è il contrabbandiere». Il Mered contattato spiega: «Ero negli affari tra il 2013 e il 2015». E continua: «Non ho una residenza fissa, mi muovo da un Paese all’altro». Secondo Facebook si troverebbe adesso in Uganda. Insomma, grazie anche a questa inchiesta, i dubbi sull’operazione coordinata dalla Procura di Palermo con il supporto della National Crime Agency inglese che portò all’arresto dell’eritreo, si addensano sempre di più e si rafforza sempre di più l’idea che potrebbe esserci stato effettivamente uno scambio di persona. Qualche mese fa anche i giornalisti del quotidiano inglese The Guardian hanno messo in luce l’altra verità che i magistrati inquirenti non vorrebbero vedere: hanno pubblicato un estratto da una chat del profilo Facebook di Mered in cui il trafficante stesso afferma che gli investigatori «hanno fatto un errore con il suo nome. Tutti sanno che non è un trafficante e spero che venga rilasciato». Sempre The Guardian ha contattato e intervistato Li-È Tesfu, indicata dalle carte della procura come la moglie del “Generale”, che senza esitazioni ha affermato che l’uomo sotto processo a Palermo non è suo marito. Anche dalle udienze in tribunale erano emersi altri elementi a favore dell’imputato. Come la sua carta di identità validata dalle autorità eritree, la ricostruzione dei suoi movimenti tra Eritrea e Sudan grazie ai collegamenti al suo profilo Facebook. E soprattutto la testimonianza di Seifu Haile, un eritreo detenuto a Roma e condannato per traffico di esseri umani: per mesi Haile ha lavorato in Libia a fianco del vero Mered e nemmeno lui ha riconosciuto il giovane detenuto a Palermo. Eppure, nonostante le prove a favore della difesa, il processo va avanti. Ma non solo. Come se non bastasse, nello scorso mese di gennaio, il tribunale del riesame di Roma ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ricordiamo che il ragazzo è stato arrestato in Sudan il 24 maggio del 2016 ed estradato in Italia il 7 giugno del 2016 su mandato della Procura di Palermo. Il difensore dell’indagato, l’avvocato Michele Calantropo, aveva presentato opposizione al provvedimento del gip di Roma affermando, tra le altre cose, l’errore di persona e lo scambio di identità. In carcere ci sarebbe – è la tesi difensiva – un falegname eritreo, Mered Tasmafarian, rifugiato in Sudan. Ma niente da fare, i giudici del Riesame avevano confermato la custodia in carcere per il pericolo di fuga oltre che per il concreto rischio di reiterazione del reato ed inquinamento delle prove. Insomma, per i magistrati non ci sono dubbi: il detenuto è proprio “il Generale”, l’eritreo di 35 anni che avrebbe portato in Europa almeno 13mila persone. Il business della tratta lo ha reso un uomo ricchissimo e soprattutto molto potente. «È uno dei pochi, forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo», rifedya rì in un interrogatorio un uomo condannato per traffico di esseri umani e che ha collaborato proprio con “il Generale”. Ma sono sorte le prime perplessità già nel momento in cui l’arrestato ha messo piede in Italia: il volto del giovane estradato in Italia non assomiglia affatto a quello dell’uomo immortalato nelle immagini diffuse dalla procura di Palermo. Il ragazzo, infatti, dice di chiamarsi Medhanie Tesfamarian Berhe, ha 29 anni ed è un falegname che era in attesa di trovare i soldi necessari a pagarsi il viaggio per l’Italia. Persino gli agenti siciliani inviati in Sudan per estradare il presunto trafficante avevano avuto un attimo di esitazione di fronte al giovane che veniva consegnato loro dagli agenti sudanesi. A testimoniarlo durante il processo è proprio Carmine Mosca, all’epoca delle indagini vice dirigente della Mobile di Palermo. Mosca è uno degli agenti che era andato personalmente a prenderlo in Sudan assieme ai colleghi inglesi: «Io ricordo che ebbi delle perplessità – dice durante la penultima udienza in tribunale -, perché rispetto alla foto che avevamo acquisito attraverso il profilo Facebook evidentemente la persona che ci veniva consegnata non aveva quelle fattezze fisiche. Per cui chiesi al servizio centrale operativo di fare un accertamento, però non ricordo di che tipo». Non mancano anche aspetti bizzarri durante il processo. Durante l’ultima udienza, non si è presentato per l’ennesima volta il perito dell’accusa Marco Zonaro, nominato dal pm Geri Ferrara per effettuare la consulenza tecnica fonica per capire se effettivamente la voce del boss intercettata durante dei colloqui telefonici corrisponda a quella dell’imputato. A questo punto è scattata la sanzione e il perito fonico viene condannato a pagare 250 euro di ammenda per ripetuta ingiustificata assenza. Nel frattempo il processo continua e l’imputato continua a considerarsi un semplice rifugiato che era in attesa di lasciare il Sudan – dov’è stato arrestato dagli agenti inglesi e italiani – per approdare in Libia e da lì salire a bordo di un barcone alla volta dell’Europa. Alla fine il sogno di approdare in Europa si è realizzato, ma mai si sarebbe aspettato di essere accompagnato qui per finire in un penitenziario con l’accusa di essere uno spietato criminale. |