Un’intervista a Vincenzo Ruggiero, Professore di Sociologia e Criminologia presso la Middlesex University di Londra. Tra i suoi ultimi libri in italiano, “Il delitto, la legge, la pena”(2011); ”I crimini dell’economia” (2013); “Perché i potenti delinquono” (2015); in inglese, ‘Dirty Money: On Financial Delinquency’ (2017).
Alla luce dei fatti accaduti a Torino, che appare come una “classica” rappresaglia della polizia (frustrata dai dileggi ai quali sono globalmente indicati con il “tout le monde detest la police”); contro giovani considerati antagonisti e disobbedienti alle normative restrittive e ai divieti imposti dalle autorità locali, quale è la tua lettura dei fatti? Quella di Torino è stata un’operazione, come tu dici, “classica” ma allo stesso tempo “innovativa”, che si presta a diverse letture. In senso classico, segnala un caratteristica poliziesca che mi sembra più o meno permanente, vale a dire un potere largamente arbitrario che gratifica chi lo esercita, ne conferma lo status e ne rafforza l’identità. Parliamo di professionisti della coercizione, educati alla violenza, ai quali viene concesso il diritto di alleviare le proprie frustrazioni attraverso la pratica degli abusi. Questo diritto, a mio modo di vedere, costituisce un supplemento di “salario non monetario” offerto a chi non è soddisfatto della propria retribuzione, un “bonus” occulto ma in effetti ‘contrattuale’, che rende la vita dei tutori dell’ordine più accettabile. La possibilità di esercitare abusi di potere è una sorta di ‘fuori busta’ che in parte riduce la sensazione di essere occupati in un lavoro tedioso, umiliante e spesso disprezzato.
Rispetto agli anni passati quando i poliziotti venivano indicati, non da tutti ma da una parte importante di intellettuali di sinistra, come: “figli dei contadini”, oggi stante la pesante crisi sia economica sia sociale quale può essere, secondo te, una possibile motivazione? Secondo un’altra lettura, le scene osservate a Torino alcune sere fa confermano la logica di guerra che ispira la gestione dell’ordine pubblico. Il nemico interno può cambiare, dal drogato al migrante, dallo straccione al sovversivo, ma la filosofia operativa dell’ordine sul piano nazionale rimane il riflesso di quella che prevale su quello internazionale. Che cosa sono gli interventi bellici in paesi lontani se non operazioni di polizia internazionale? E cosa sono le operazioni come quelle condotte a Torino se non esempi di belligeranza domestica? Una lettura ulteriore potrebbe suggerire che, in fondo, la violenza poliziesca rispecchia il malessere delle giovani generazioni, che a loro volta possono talvolta risolvere i problemi di status attraverso l’atteggiamento aggressivo e la devastazione.
Siamo di fronte a bande che si contendono il territorio? Mi sembra già di sentire un’obiezione: basta con le fandonie, la polizia esiste e agisce allo scopo di difendere lo status quo e le classi dominanti!
D’accordo, ma quali settori delle classi dominanti vengono difese e rappresentate attraverso azioni di tipo militare all’indirizzo della movida torinese? Su questo punto, francamente, sono un po’ perplesso, in quanto l’operato della polizia, nella maggioranza dei centri urbani europei, mira a criminalizzare gli indolenti, i senza nulla, i consumatori mancati. L’ordine pubblico appartiene a chi compra e va difeso da chi, con la propria presenza, disturba o minaccia il diritto allo shopping.
Perché allora aggredire dei consumatori che portano risorse all’industria della notte che ovunque fa osservare una crescente espansione? Forse qualche risposta provvisoria può essere formulata se visitiamo il campo della criminalità dei potenti.
Il “crimine” dei potenti che ruolo sta giocando nelle leadership politiche e governative nel “civilizzato” mondo occidentale? Il potere ha bisogno di lanciare segnali, di natura legittima o illegittima, per confermare la propria esistenza e per perpetuarsi. La scelta illegale è parte di un patrimonio professionale che insegna le tecniche e le razionalizzazioni necessarie a violare le norme. I potenti spesso commettono reati in quanto spinti da una sorta di ‘panico di status’. E’ internamente a questa cultura di ansia che i criminali potenti avvertono di essere conformisti anziché devianti. Commettere reati, in questo senso, non è l’esito di scelta o calcolo, ma una manifestazione della cultura organizzativa che tende a normalizzare la devianza. Prevale un’etica della titolarità secondo cui sta ai potenti giudicare in merito alla legittimità delle loro azioni. Infine, i potenti sono spinti al crimine dalle condizioni politiche contingenti, dalla valutazione delle risorse che detengono e dalla previsione del potere che potranno esercitare in futuro. La criminalità dei potenti, perciò, può essere ritenuta un effetto della paura del futuro. Hobbes aveva ragione nel sostenere che gli umani sono gli unici animali a sentire oggi la fame che avranno domani. Possiamo allora pensare al potere come una modalità per fronteggiare e controllare l’inesorabile senso di contingenza e insicurezza generato dalla nostra consapevolezza del futuro. Le illegalità dei forti, in conclusione, consentono di accumulare un potere che i forti già ampiamente posseggono, e sono ispirate dalla paura che eventi futuri possano minacciarne il godimento. |