Una bimba di tre anni, in galera con la madre nel carcere siciliano “Gazzi” di Messina, ingerisce un topicida e finisce in ospedale. Una tragedia sfiorata che è accaduta domenica scorsa. La bimba – che ha anche una sorellina di poco più grande, anche lei in carcere con la madre, una donna nigeriana – è per fortuna fuori pericolo. La bustina contente il veleno per topi ingerita dalla bambina, si trovava nella cabina da dove la madre stava telefonando. Ora è fuori pericolo e ritornerà di nuovo in galera. L’episodio riporta in primo piano la grave situazione delle recluse madri e dell’adeguatezza delle strutture – molto spesso invase da topi – in cui si ritrovano rinchiusi anche i bambini. Saro Visicaro, coordinatore dell’associazione radicale “Leonardo Sciascia” di Messina, ha denunciato duramente l’accaduto. «Assurdo che una bambina di tre anni – commenta Visicaro debba stare in carcere. Assurdo che del topicida sia alla portata di un bambino. Assurdo che i topi circolino dentro una struttura penitenziaria. Assurdo che la Direzione del carcere permetta condizioni di questo tipo. Tutto ciò è ancora più assurdo considerando che il sindaco di questa città dopo innumerevoli sollecitazioni non abbia voluto nominare il Garante per i diritti delle persone recluse». Il radicale messinese infine conclude: «Solleciteremo in tutti i modi la magistratura e il ministro competente per intervenire con il rigore indispensabile su questa ignobile vicenda». Il problema dei bambini dietro le sbarre rimane tuttora irrisolto. Secondo gli ultimi dati aggiornati al 31 agosto, risultano che ci sono ancora 60 bambini e bambine in galera. Hanno dai zero ai tre anni, e sono finora costretti a vivere in un ambiente poco edificante per la formazione della loro personalità. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975. Il senso è quello di evitare il distacco dalle madri o, per lo meno, di ritardarlo. C’è anche la detenzione domiciliare come alternativa, ma non sempre il magistrato la concede. Uno dei motivi principali è la residenza inesistente oppure inadatta, e colpisce soprattutto le detenute straniere e rom. Proprio per ovviare a questo problema esiste una legge che contempla anche la realizzazione delle case famiglia protette. Esistono gli istituti a custodia attenuata per detenute madri ( ICAM) – attualmente sono a Torino ‘ Lorusso e Cutugno’, Milano ‘ San Vittore’, Venezia ‘ Giudecca, Cagliari e recentemente a Lauro, provincia di Avellino-, ma si trattano pur sempre di luoghi ristretti che fanno capo all’amministrazione penitenziaria. Ad oggi esiste solo una casa famiglia ed è stata inaugurata da poco grazie soprattutto al finanziamento di 150 mila euro da parte della fondazione Poste insieme onlus. Si chiama “Casa di Leda” ed è un edificio confiscato dalla mafia nel quartiere romano dell’Eur. La casa non a caso è intitolata a Leda Colombini, figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute. Morì nel 2011, all’età di 82 anni, in seguito a un malore che l’ha colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato. Nel volontariato in carcere, come presidente dell’associazione – tuttora attiva – “A Roma Insieme” aveva promosso numerosi progetti a favore delle mamme detenute e, soprattutto, per i bambini fino a tre anni reclusi nel carcere romano di Rebibbia con le loro madri. Per ovviare al problema dei bambini dietro le sbarre, ci vorrebbero, appunto, più “case di Leda”. |