La rete tra i familiari delle vittime di "malapolizia" è informale ma esiste già. Patrizia, Haidi, Ilaria, Lucia, Elia, Stefania e molti altri si soccorrono l'un l'altro, dialogano anche tramite i blog, condividono l'umanità dolente di chi è stato scaraventato su una scena pubblica che mai avrebbe immaginato. Unione di fatti. «Ora dobbiamo imparare a intrecciare i vissuti per fare un passo avanti - spiega Patrizia Aldrovandi cinque anni esatti da quando i poliziotti bussarono alla sua porta - perché non succeda mai più, per uscire dalla solitudine». Il cinema in cui parla è pieno e lo sarà fino a sera quando partirà la fiaccolata diretta a Via Ippodromo dove si consumò quel violentissimo e e ancora misterioso "controllo di polizia" che uccise un diciottenne incensurato. Esecutori e depistatori - già condannati in primo grado - ancora al loro posto. Chi s'è battuto per non insabbiare il caso, però, ha lanciato l'appello per continuare a interrogarsi su come rendere stabile quella rete di affetti e di passione civile. Lo hanno raccolto le associazioni, i ragazzi delle curve e tutti quelli che hanno dedicato poesie, romanzi, articoli e video a Federico Aldrovandi. Un discorso partito da Livorno, Genova, Pisa e nelle altre città di quel «Paese dei comitati» che è l'Italia. Così ha detto a suo tempo Manlio Milani, la cui moglie fu dilaniata dalla bomba di piazza della Loggia. Nell'indifferenza pressoché totale della politica ferrarese, questo dialogo ieri ha fatto un passo avanti. Patrizia e Lino hanno voluto mettere la loro esperienza «a disposizione del futuro, nel nome di Federico e degli altri». Alla tavola rotonda ciascuno degli interventi ha cercato dei nessi tra storie in apparenza diverse. Ognuno ha raccontato la solitudine di quei momenti, la criminalizzazione delle vittime, i depistaggi, le omertà. «I linciaggi morali da parte di funzionari di uno Stato che si chiude a riccio, che non è trasparente». Altro tratto comune a molte di queste voci è la lezione civile che è partita dal caso Aldrovandi: «Senza Federico - dice Ilaria Cucchi - quella di Stefano sarebbe rimasta una morte naturale». Quella sera di ottobre dell'anno scorso, Ilaria cercò Patrizia su internet e fra dieci giorni inizierà il processo per l'uccisione di suo fratello. «Vorrei un pm come quello di Ferrara», chiede Lucia Uva, sorella di Giuseppe che fu preso per strada a Varese mentre «giocava» e fu torturato, secondo le accuse dei familiari, in una caserma dove c'erano due carabinieri e sei poliziotti. Ma il pm, a oltre due anni dai fatti, interroga i giornalisti che raccontano la storia, interrogano i medici legali della famiglia e le associazioni - come "A buon diritto" - che si occupano della storia. C'è chi sta da tre anni alla ricerca di una strada per un vero processo. Come i Bianzino, la famiglia di Aldo, pacifico ebanista che morì due giorni dopo «essere entrato sano in carcere», ricorda uno dei suoi figli, Elia. Patrizia è contenta per l'arrivo in sala di Stefano Gugliotta, pestato dai celerini che andavano a caccia di ultra fuori dall'Olimpico. «Sono contenta che le persone che videro tutto dai palazzi hanno filmato la scena con un telefonino e hanno trovato la forza di testimoniare». Ma Stefano spiega quanto sarà dura: «In ordine pubblico sono tutti incappucciati». Così lui sta misurando quanto sia difficile trovare i colpevoli. Proprio come sa già Paolo Scaroni, tifoso bresciano sfigurato dalle pesanti attenzioni della celere nella stazione veronese il 24 settembre 2005, poche ore prima che i quattro agenti di Ferrara facessero anche peggio con Federico (solo il 2 dicembre inizierà il processo a sette dei suoi presunti carnefici). «Una rete potrebbe aiutare», conferma Elia Bianzino. «Forse uniti il dolore pesa meno», dice pure Giorgio Sandri, padre di Gabriele, che conta i giorni che mancano al processo d'appello. Sono 65. Ma anche sulla sua storia pesa l'infamia di una versione ufficiale subito costruita dai vertici del Viminale. «Che cosa si può fare?», si domanda Haidi Giuliani, una delle prime a pensare a una rete tra queste storie invisibili. «Si può fare politica - è risposta che la stessa mamma di Carlo suggerisce - mandare lettere a un giornale è politica, così come lo è vivere nella società, partecipare, anche partecipare al dolore degli altri». Spiega Haidi che anche chi non è stato ucciso da gente in divisa è vittima di meccanismi di depistaggio e criminalizzazione. E infine liquida la versione ufficiale che liquida le evidenze come frutto dell'azione di mele marce. «E' vero gli assassini in divisa sono pochi. Ma quanti loro colleghi parlano? Quanti sono capaci di indignarsi e di denunciare il degrado delle loro istituzioni?». Le idee cominciano a prendere corpo: nascerà un'associazione che si occuperà di supporto legale e di supporto psicologico, che gestirà campagne per rendere esigibili i diritti costituzionali. Perché di questo si parla. La gente di questo cinema (dove prima della fiaccolata sarà proiettato il film di Filippo Vendemmiati, "E' stato morto un ragazzo") è un pezzo del tessuto che prova a resistere al degrado della democrazia in Italia.
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