Alle 8.10 di lunedì mi ritrovo in cammino per le strade del Rione Sanità, speranzoso di saltare sulla metro al volo, a Piazza Cavour, per far presto a lavoro. In questo periodo l’aria del mattino ha ancora la frescura della notte che il passo svelto delle mie gambe mi sferza in faccia, ed io me la prendo tutta, ad occhi semichiusi e narici spalancate, mentre molta della gente del quartiere è ancora assopita. Quello in cui ho scelto di vivere, tornato a Napoli, è un luogo oltremodo difficile e caotico, in cui lo spazio ed il tempo per godere dei piccoli piaceri della vita va conquistato centimetro per centimetro, secondo per secondo, ed impararlo a fare è uno dei doni di questo posto che più sto amando. Avevo paura di venirci a vivere, per questo ci sono venuto: l’opportunità di poter scoprire lati di me ancora inesplorati supera di gran lunga il piacere per il lavoro che in questo periodo sto svolgendo. È per tale ragione che oggi voglio arrivare lì presto, così una volta finito avrò più tempo per tutto il resto.
Ancora non so, però, che questo 2 novembre 2015, a lavoro non ci arriverò.
Alle 8.35 sono in Stazione Centrale. Forse faccio in tempo a saltare sul vagone della Circumvesuviana che passa per il Centro Direzionale. In pochi passi sono ai varchi della ferrovia e subito mi accorgo di qualcosa di strano, alla mia sinistra: contro la parete, spalle al muro, alla fine della barriera, c’è una persona con la maglietta bianca e la pelle scura, placcata da 4 uomini, di cui tre in divisa. Non ci penso su due volte, le mie gambe procedono in autonomia: nonostante siano quelli da me più lontani, mi dirigo proprio ai varchi più prossimi alla scena, per osservare da vicino cosa sta accandendo.
Mentre passo oltre, tenendogli lo sguardo sempre fisso addosso, i cinque si spostano e passano dall’altra parte anche loro, dirigendosi verso un gabbiotto con pareti di metallo e vetro, una specie di ufficio che raramente avevo visto utilizzato. Rimango lì, scambio due parole con un altro passeggero ma lui va via presto ed io mi accorgo di essere fondamentalmente l’unico a starsi interessando di ciò che sta accandendo. Tento allora di fare qualche foto — non si sa mai, mi dico, che succeda qualcosa e tornino utili per denunciare — ma la luce è poca e vengono mosse, per cui mi avvicino di più, sperando di farne di migliori. Dopo qualche secondo ci riesco.
La situazione mi sembra tranquilla, comincio a pensare che sia un falso allarme, ma prima di andare voglio togliermi qualche dubbio e così mi metto a parlottare con una guardia giurata che sta lì di fianco.
— Mi scusi, ma che è successo? — Lei chi è? Perché domanda? — Sono un cittadino, sono solo curioso. — Certe domande non le può fare, non è il suo mestiere. — Ma domandare non è certamente reato, perché non lo si può sapere? — Le ho detto che deve lasciare stare, ci faccia fare il nostro lavoro e lei si metta al fare il suo.
L’infruttuosa conversazione continua per qualche secondo e visto l’orario e l’apparente calma decido che posso anche andare via, dato che ho un lavoro che mi aspetta. Faccio giusto un passo quando noto che un signore senza divisa si rivolge ad una delle guardie giurate, entrambi protagonisti dell’episodio di poco prima: “Tu”, gli dice, “queste cose, quando c’è gente, non le devi fare!”.
Di sicuro non so di cosa parlino, ma ne ho un’idea e loro non sanno che non ho certezze, decido quindi di bluffare per ottenere una reazione e tentare di scoprire cosa sta succedendo.
— Mi scusi, non ho potuto fare a meno di ascoltare. “Queste cose”, in realtà, neanche se fosse stato solo, il signore le avrebbe potuto fare. — Prego? — Dicevo che certe cose non vanno fatte e basta. — Ma quali cose? — Quelle di cui parlate voi. — Ma lei chi è? Che cosa vuole? — Sono un cittadino, sono di passaggio, la mia è solo un’osservazione —Guardi che il signore era senza biglietto — Ci credo, ma certe cose… — Ma perché domanda? Che cos’ha visto? — Be’… — Il signore aveva la sigaretta accesa ed ha aggredito una collega, noi gli abbiamo fatto fare il biglietto e l’abbiamo poi lasciato andare via. — Sicuramente è come dite, e vi ringrazio per avermelo voluto spiegare.
L’aria è ormai pesante e c’è poco che io possa sperare di ottenere da questa conversazione, provo così ad andare via, ma un’altra guardia giurata, quella della conversazione precedente, mi trattiene e dopo pochi secondi mi ritrovo circondato da persone in divisa, di cui una della polizia. Mi chiede i documenti, ed io glieli do, ma contestualmente gli domando perché li vogliano vedere e la risposta che ottengo è che non mi deve interessare, ché loro sono della polizia e questo mi deve bastare. Gli domando, allora, se per piacere posso almeno sapere come poter fare per poterli a mia volta identificare: quella situazione non mi piace, mi reputo vittima di un sopruso e voglio poter fare un esposto a chi di dovere, e per questa ragione vorrei almeno un numero di matricola od un cognome da riportare.
— Non deve sapere niente, non è suo diritto, la divisa le deve bastare! — Mi scusi, ma lei neanche il tesserino mi ha fatto vedere, per quanto ne posso sapere questa divisa potrebbe essere un vestito di carnevale! — Come si permette, questa è la divisa della polizia! — Io le credo, ma cerchi di capirmi, non mi ha dato alcun elemento per poterlo verificare! — Se lei non crede io sia un poliziotto allora andiamo nell’ufficio di polizia e glielo faccio vedere. — Andiamo dove vuole, ma io comincio a filmare.
Alle 8.46 il mio obiettivo di arrivare presto a lavoro si fa sempre più lontano, e senza riuscire ancora a rendermi conto neanche di come, poco più di un’ora dopo aver riaperto gli occhi mi ritrovo fermato dalla polizia ferroviaria intento a filmare il mio trasporto verso il loro quartier generale.
— Lei questo cellulare lo deve spegnere — Mi dispiace ma non posso
Ho paura, non c’è nessuno che mi faccia da testimone, il cellulare è l’unico strumento che ho a disposizione per creare prova documentale di ciò che mi sta accadendo e non sono in alcun modo disposto a smettere di registrare.
— Mi può spiegare perché mi sta fermando, per cortesia? — Perché lei non può filmare. — Io posso filmare, invece. — Lei non può filmare. — Non c’è nessuna legge che mi vieta di filmare; quello che sta accadendo a me, tra l’altro. Di cosa sono accusato? — Lei non è accusato di niente, sto facendo solo un controllo di polizia. — Per quale ragione? — Perché io devo vedere perché lei stava lì sotto a filmare, no? — Ma io non stavo lì sotto a filmare! — Come no, lei sta filmando ancora adesso! — Adesso sto filmando perché mi ha chiesto i documenti… — Se non lo spegne sono costretto a sequestraglielo! — Ma… sulla base di cosa me lo sequestra, mi scusi?! — Perché lei non può filmare!
La conversazione non cambia di tenore mentre salite le scale ci ritroviamo all’esterno della stazione, e poi subito di nuovo al suo interno, percorrendo un corridoio che porta al binario 24, lì dove c’è il posto di polizia ferroviaria.
Va compreso che in tutto questo trambusto io sono sempre un paio di passi avanti al poliziotto, e dietro di lui la guardia giurata e l’uomo in borghese di cui ho origliato la conversazione. È per questa ragione che ad un certo punto del tragitto mi volto su me stesso, in modo da filmare tutta la scena nel migliore dei modi, ma nel farlo incespico su una valigia di una passante, ed è in quel momento che il poliziotto non si lascia scappare l’occasione: allunga il braccio ed il suo stesso corpo per cercare di prendere il telefono dalle mie mani, facendolo cadere ed interrompendo la registrazione, ma io sono più veloce e riesco a recuperarlo per primo. Vengo strattonato a sinistra da lui, poi a destra dalla guardia giurata, faccio quindi una giravolta su me stesso per divincolarmi dalle prese, alzo il telefono in alto oltre la mia stessa testa di modo che sia da loro irraggiungibile e mi sposto di qualche metro all’indietro per poter essere libero di telefonare.
Sono terrorizzato ed al contempo estremamente arrabbiato: sono stato appena aggredito senza ragione, ed in barba alla legge, da chi ha prestato giuramento per tutelarla, e da un altro signore che nessuna autorità ha per potermi usare contro la forza, il tutto solo per prendere dalle mie mani un cellulare sul quale, ormai mi è chiaro, loro pensano ci siano immagini che non vogliono siano rivelate. Qualcosa è successo, prima del mio arrivo, qualcosa per loro pericoloso, e quel mio bluff li ha mandati in allarme al punto da farli sentire liberi, così mi è evidente, di contravvenire alla legge.
Grazie alle immagini delle telecamere di sorveglianza scoprirò poi che i miei sospetti sono fondati, in questo momento però non ho il tempo di pensarci, l’unica cosa che mi interessa è la mia stessa incolumità. Decido di chiamare quindi i carabinieri, visto che la polizia è proprio lì ad aggredirmi, ma la telefonata al numero 112 si rivela un futile esercizio di una ventina di squilli a vuoto. Provo quindi a chiamare un’amica avvocato — mi serve un avvocato, penso! — ma non sente la telefonata e per altri infiniti secondi il telefono squilla senza risposta. Ho giusto il tempo di un ultimo tentativo, perché ormai sono quasi arrivato al posto di polizia — nel frattempo sono ritornato sui miei passi, ché non volevo essere accusato di aver tentato di fuggire — e questa volta sono fortunato: dall’altra parte una voce sorpresa incontra la mia concitata.
— Ernesto, sono Fabio, non ho tempo di spiegarti tutto nei dettagli, ti prego di fidarti di me. Ho bisogno che tu venga al binario 24 della Stazione Centrale, o che tu faccia venire qualcuno: mi servono testimoni. — Ma che è successo?! — Sono stato fermato dalla polizia, temo che stia per accadere qualcosa di brutto, ti prego, vieni tu o fai venire qualcuno.
Sono ormai dentro, nell’atrio del posto di polizia. Alla mia destra un gabbiotto che funge probabilmente da reception, alla mia sinistra un corridoio cieco con delle panche e delle macchine distributrici di snack e bevande, giusto un po’ oltre un altro corridoio e davanti a me un largo spazio con una telecamera attaccata al centro del soffitto.
— SPENGA IMMEDIATAMENTE QUEL TELEFONO! — Mi scusi, avete i miei documenti, procedete pure all’identificazione, io ho bisogno di avvisare che sono qui. — LE HO DETTO DI SPEGNERE IL TELEFONO!
Non lo so ancora, ma lui si chiama Stefano Valletta, vicequestore aggiunto in servizio presso il compartimento Polfer Campania e Molise di Napoli, dirigente in comando lì in quel momento. È iracondo, io intorno ho solo poliziotti, sono terrorizzato. Saluto Ernesto chiedendogli un’ultima volta di fare presto e chiudo la telefonata.
Potrei non dirlo, potrei farlo e basta, senza farmene accorgere, ma mosso dallo spaventato e nell’ipotetica eventualità che una mia estrema onestà e trasparenza sia positivamente valutata da chi l’onestà e trasparenza la dovrebbe tenere in elevata considerazione, decido di annunciarlo.
— Ok, ho chiuso, ma vista la situazione, per la sicurezza di tutti io registrerò in audio qualunque cosa accadrà in questo luogo da ora in poi. — Cosa dice?! Lei non può registrare niente! PRENDETELO!
Valletta è il primo a scagliarmisi contro, poi dopo un secondo o due seguono tutti gli altri. Sono 5, forse 6 poliziotti, tra di loro anche la guardia giurata, mi circondano e mi piantano per terra, calci e pugni ovunque, con l’obiettivo di togliermi il cellulare dalle mani, ma la mia morsa sorprende me stesso per la sua forza ed entrambe le mie mani rimangono salde intorno al telefono a tal punto che per i due giorni successivi avrò dei segni nelle parti tra l’indice ed il pollice.
Il tempo scorre lento in questo momento, tutto mi sembra più vivido e ricco di dettagli; posso percepire ogni più piccolo loro movimento, ogni singolo rumore risuona amplificato nella mia testa; vedo i pugni colpirmi il viso, i calci arrivarmi sulle spalle e sul collo; la mia voce sa dire solo “aiuto!” a cadenze di una volta al secondo, ma la sento come fosse qualcosa di esterno da me, e mentre la morsa di uno di loro che mi prende col suo braccio da dietro mi stringe il collo, la mia mente va a Cucchi, Aldrovandi e, se sta succedendo a me, chi sa a quanti altri di cui non si sa niente è già successo.
Poco meno di due ore dopo aver riaperto gli occhi al mattino, sento ora il terrore di poterli richiudere, soffocato e picchiato, nel posto di polizia ferroviaria del binario 24 della Stazione Centrale di Napoli.
5 minuti, forse di più. Interminabili. Lascio andare il telefono, spero così mi liberino, ma ho ragione solo a metà. Il telefono viene portato non so dove, mentre altri si occupano di me prendendomi di peso e trascinandomi verso il corridoio che ho notato appena entrato. Mi aggrappo a qualunque spigolo, a qualunque anfratto, mentre sono ormai di nuovo in piedi sospinto a forza verso l’interno del compartimento e lontano dalla vetrata dell’ingresso e dalla telecamera al centro del soffitto. Tento ancora di gridare aiuto, ma ormai la mia voce è senza forze. Guardo per la prima volta negli occhi quegli uomini che mi stanno portando verso una stanza interna, implorandoli.
— Ma che state facendo, tutto questo è contro la legge! — La legge? LA LEGGE SIAMO NOI!!
Sono ormai dentro. Una cella, una cella vera, di quelle con le sbarre di metallo, le pareti bianche e la panca di cemento. Finalmente ce l’ho fatta — mi dico sfottendo me stesso mentre cerco di capire quanto di reale ci sia in tutto quello che sto sperimentando — finalmente mi sono fatto arrestare! In effetti ci sono andato vicino già un paio di volte, in passato: una volta a causa dell’uso di un megafono durante una manifestazione ecologista, un’altra a causa di uno striscione con su scritta un’educata domanda sulla camorra a Berlusconi. Questa volta in cella ci sono per davvero, e tutto quello che ho dovuto fare è stato manifestare liberamente i miei dubbi: ho dovuto, semplicemente, parlare.
Poi osservo meglio la panca. Il suo bianco è interrotto da una grossa chiazza di sangue rappreso che, colando lungo una sua parete, scivola fino al pavimento. Poi guardo meglio le pareti. Il loro bianco è picchiettato di tante macchioline rosa, rosa come sarebbero degli schizzi di sangue malamente lavati via da una parete ricoperta di intonaco.
Sono in una cella, una cella vera, di quelle con le sbarre di metallo, le pareti bianche, la panca di cemento e chi ci è finito prima di me è stato picchiato a sangue. Non ho modo di sapere se toccherà la stessa sorte anche a me, ma sono troppo stanco per averne terrore.
La cella rimane per qualche secondo affollata di gente. Poliziotti tutt’intorno a me, loro stessi sorpresi della mia presenza in quel luogo.
— Ma tu che ci fai qui? — E lo chiedete a me? Ditemelo voi! — Ma non potevi farti i fatti tuoi stamattina? Tu qua dentro non c’entri niente, ti sei rovinato. — Ma come mi sarei rovinato, mi scusi? Ho fatto domande, ho fatto solo delle domande! — Hai fatto le domande sbagliate: hai messo in discussione la divisa!
La divisa. Non riesco davvero a capacitarmi di quella che nella mia testa risuona come una conversazione surreale. Il mio tentativo di imbastire un discorso fondato sulla logica, qualche minuto prima, era miseramente fallito, affondato in un mare di pregiudizi ed una percezione di sé e del proprio onore che travalica ogni buon senso e finisce con l’interpretare come inaccettabile affronto una semplice domanda volta ad evidenziare l’assurdità di una situazione. Il mio affermare che quella divisa potesse essere, per quanto ne sapevo, un vestito di carnevale, volto solo ad evidenziare il mio bisogno di poter avere garanzie certe che un mio reclamo fosse preso in considerazione, era stato interpretato come una provocazione suscettibile di pene corporali? Se sì, secondo quale comma di quale articolo di quale legge? “La legge siamo noi”, è la risposta avuta poco fa.
La cella si chiude.
— Ho sete, posso avere dell’acqua? — Sì sì, mo’ arriva.
Ma non arriva.
— A lavoro mi stanno aspettando, fatemi chiamare qualcuno! — Più tardi. — Ho diritto ad un avvocato o no? Fatemi chiamare il mio avvocato! — Più tardi.
Ma non succederà.
— Pensavi di fare uno scoop, eh? — Prego? — Col cellulare, pensavi di riprendere chi sa cosa, volevi buttarci merda addosso, eh? — Ma veramente avevo ben altre cose da fare stamattina… — E allora che riprendevi a fare? — Ho solo fatto delle foto, nel caso fosse successo qualcosa. — Ecco, vedi? — Nel caso fosse successo qualcosa, ho detto. — Tu ci volevi inguaiare. Magari sei pure uno di quelli che ci vorrebbe col numero identificativo, eh? — Eh, magari, così non avrei dovuto chiederlo e forse ora non starei qui. — Rassegnati: non succederà mai.
Inscalfibile idea di incontestabile onnipotenza: “la legge siamo noi”.
— Se tu anche avessi ragione, io difenderei i miei colleghi. Ma tu hai sbagliato, hai messo in discussione la divisa. Ed hai capito chi stavi difendendo? Quello è un clandestino! — Mi faccia capire: se a suo stesso parere io stessi nel giusto, lei comunque difenderebbe i suoi colleghi? — E si capisce! Siamo tutti poliziotti, mica possiamo darci contro l’un l’altro
Quanto vorrei avere con me un registratore. Non mi hanno perquisito, ho ancora la mia giacca indosso, avrei potuto tenerlo con me tutto il tempo. Invece tutto quello che mi stanno dicendo, tutto quello che mi è accaduto, di tutto questo, so già, non ci sarà quasi nessuna prova dal momento in cui ho varcato la soglia della porta del posto di polizia. La telecamera c’è, e ci confido, ma ho paura che i filmati non ci saranno. Queste cose van così, si sa. Scoprirò, poi, che avevo ragione.
— Senti, sbloccaci il cellulare o lo facciamo sbloccare alla scientifica — … — Dai che se lo sblocchi è possibile che ti facciamo uscire da qui dentro — Perché ci dovrei credere? Sto morendo di sete, non mi fate chiamare il mio avvocato, perché mi dovrei fidare? — O ti fidi, o lo facciamo sbloccare alla scientifica — Se lo faccio però fate le persone serie e non cancellate niente — Hai la nostra parola.
Sono lì dentro, in una cella, una cella vera, e nessun altro a parte quei poliziotti lo sa. Non lo sanno a lavoro, non lo sa mio padre, non lo sanno i miei fratelli, non lo sa la mia compagna. Non so, io stesso, quanto tempo dovrò passare lì dentro, né so cos’altro mi capiterà, né di cosa sono accusato. Sono stato arrestato, è evidente, ma perché? Qual è il reato? Non dovrei forse saperlo? Non mi dovrebbe essere comunicato? Ed i miei diritti, quali sono? Sto immaginando tutto o quel sangue alle pareti e sulla panca è vero?
— Va bene, ve lo sblocco. — Bravo, grazie.
Vanno via; la cella rimane chiusa. Interminabili minuti passano ed io non so che ora possa essere. Cerco di interrogare il mio orologio interno, ma la confusione è enorme e non riesco ad trovare una stima soddisfacente.
Ritornano.
— Ma questo video ti incolpa! — Eh? — Ma sì, non lo vedi? Hai fatto una cazzata, sei nei guai seri.
Il video non l’ho rivisto, ma ricordo perfettamente ciò che ho filmato. La patente era in mano al poliziotto; l’ho informato che la storia sarebbe finita sui giornali; gli ho chiesto perché mi stesse fermando e mi ha risposto che non potevo filmare, ma io so che non è così, so che la legge me lo consente, i miei diritti li conosco. I miei diritti li conosco? So che mi hanno aggredito — loro a me!
Ma questo video mi incolpa. Questo video mi incolpa?
— Ok, se è come dice lei non ha niente da temere — Ma infatti. Sei nei guai.
Se ne vanno di nuovo, e sono contento che abbiano creduto che il video incolpi me e non loro: ormai so che se avessero creduto altrimenti, quel video sul cellulare non ci sarebbe più stato. La felicità sta nelle piccole cose.
Minuti. Ore. Sete. Cambio di turno, il poliziotto semplice appena di monta passa davanti alla cella e si ferma, mi guarda, gli chiedo dell’acqua. Me la dà. Cerco di conversare, ma fa spallucce e se ne va. Sento delle voci.
Luca. Luca? Nah, sarà un’impressione. Che ci fa Luca, qua?
— Me lo fate chiamare o no il mio avvocato? Quanto tempo è passato? Che ore sono? — Ma il tuo avvocato sta qua! — Eh? — Cap… Capro… Capriello, Luca Capriello, è il tuo avvocato, no?
Luca è un avvocato, ma non è il mio avvocato. Non ancora, almeno. Io di certo non l’ho chiamato!
— Fabio…
“Fabio”? Il poliziotto mi chiama per nome?
— Fabio, ci sta tuo padre. Mo’ lo faccio entrare, mi raccomando non fare stupidaggini
Papà. Papà mi è venuto a trovare in galera. Immagino sia una cosa di cui vantarsi coi figli e poi ancora coi nipoti; ed i figli ed i nipoti potranno raccontare ai loro figli ed ai loro nipoti che ebbero un avo carcerato, che viveva nel Rione Sanità. Stereotipo che più stereotipo non si può.
— Fabio, che cazzo hai combinato?! — Pa’, guarda che non li devi stare a sentire… — Ma che hai fatto?! — Se mi dai il tempo ti spiego tutto per filo e per segno… — Signor Alemagna, suo figlio s’è un po’ agitato, abbiamo dovuto metterlo qui dentro per farlo calmare un po’… — Pa’, non li stare a sentire, ti fidi di me oppure no? — Sì, sì, mi fido… ma che cazzo hai combinato?! — Pa’…
Io nella cella, mio padre al di là delle sbarre chiuse, ma poi uno dei dirigenti testimonierà in tribunale — giurin giurello — che la cella era aperta e che mio padre era entrato fin dentro. Io ero stato adagiato dolcemente su quella amabile panca perché riposassi le mie agitate membra. Un genio del male.
Ma come c’era arrivato lì mio padre?
Agitato, senza saper bene che pesci prendere, Ernesto aveva avuto un’idea in sé per sé geniale: Fabio è stato arrestato, diciamolo al mondo intero. La notizia, scoprirò poi, era stata annunciata poco dopo la mia telefonata dalla pagina Facebook del M5S Campania ed in pochi minuti si è diffusa arrivando indipendentemente ai miei familiari, tramite mio fratello che aveva notato il post, e ed un altro amico che ha poi avvisato altri amici, tra cui due avvocati.
Intorno alle 15.00 un folto nugolo di persone è appostato al binario 24 della Stazione Centrale di Napoli, davanti alla porta a vetri del posto di Polizia Ferroviaria: mio fratello, la mia compagna, mio padre, due miei amici e due avvocati.
Se non avessi fatto quella telefonata, nessuno di loro sarebbe lì ora. Se non avessi fatto quella telefonata, intorno alle 15.00 del 2 novembre 2015 starei ancora in cella. Se non avessi fatto quella telefonata, questa notte la passerei nel carcere di Poggioreale e l’indomani avrei un avvocato d’ufficio, perché una volta dentro non me lo hanno fatto chiamare. Ma soprattutto, se io fossi stato un poveraccio qualunque, senza la mia storia di attivismo, senza la mia rete di amicizie e soprattutto senza amici avvocati, non avrei avuto nessuno a cui telefonare prima di entrare.
Tra le 15.00 e le 16.00 del 2 novembre 2015 mi fanno uscire dalla cella.
Mi fanno male le spalle, e me ne accorgo solo ora. L’adrenalina in circolo non mi ci aveva fatto prestare attenzione, ma quei calci e quei pugni mi hanno sconquassato.
Eppure mi dicono che ho picchiato dei poliziotti, e che sono agli arresti per questo. Io so di non aver strappato un’ala ad una mosca: ho visto cadere un poliziotto, ma era a 3 metri da me ed ha fatto tutto da solo. Qualcuno di loro testimonierà, poi, che forse, è possibile, qualche calcio, qualche pugno, è volato tra loro stessi. È certamente un’eventualità.
10 e 15 giorni di prognosi, la questione è grave. Sono accusato di resistenza e lesioni nei confronti dei due poliziotti che mi hanno accompagnato nel posto di polizia: quello in divisa e l’altro in borghese. Proprio quei due che ho visto tenere spalle al muro il signore dalla maglietta bianca e la pelle scura, insieme alle due guardie giurate.
Trovo allora la lucidità di chiedere di recarmi anch’io in ospedale, in modo da far valutare anche i miei danni — di cui ero assolutamente certo — perché questa premura, i poliziotti lì presenti non l’hanno. L’ambulanza arriva, i paramedici entrano, parlano col dirigente lì presente.
— Possiamo refertare tutto? — Sì, sì, senza problemi.
È il 26 settembre 2017 e quasi due anni sono passati dall’inizio di questa storia. Il processo è iniziato e con Luca siamo riusciti ad ottenere i filmati delle camere di videosorveglianza della stazione, ma quelli interni al posto di Polizia Ferroviaria no, ché “le telecamere non registravano”, è stata la motivazione. In compenso, quando ho visto per la prima volta quello che era accaduto prima che io arrivassi quella mattina in Stazione Centrale, il cuore mi è balzato in gola per la rabbia e lo sgomento.
Non voglio descriverlo a parole, vedetelo voi stessi tramite le seguenti immagini. |