NELLA FARMACIA JUVENTINA
All’inizio del 1999 l’indagine antidoping della Procura torinese assedia la Juve moggiana. Per contrastare l’acquisizione delle cartelle cliniche dei giocatori bianconeri da parte del procuratore Guariniello, la dirigenza juventina inoltra un ricorso al garante della privacy Stefano Rodotà; ma a metà gennaio il ricorso viene respinto con l’ovvia motivazione che la privacy non vale per i dati acquisiti «a scopi di giustizia», cioè per «accertare ipotesi di reato». Qualche giorno dopo, Guariniello convoca a Palazzo di giustizia il difensore juventino Mark Iuliano, il quale nel corso dell’interrogatorio ammette di aver fatto ricorso alla creatina da quando è in maglia bianconera, ma limita al passato l’uso della sostanza. L’inchiesta prosegue.
A metà giugno il procuratore Guariniello convoca il presidente del Coni Gianni Petrucci; il magistrato intende verificare l’atteggiamento del vertice sportivo rispetto a un fenomeno come quello del doping, che appare diffusissimo, ma Petrucci afferma che gli ispettori medici non gli hanno mai segnalato niente per quanto riguarda il calcio; al termine dell’incontro il magistrato consegna al presidente del Coni un elenco di duecento calciatori fortemente sospettati di avere fatto uso di sostanze dopanti.
Ad agosto i sospetti si appuntano sul fuoriclasse juventino Edgar Davids, che a causa di un glaucoma utilizzerebbe un collirio contenente prodotti vietati dall’antidoping; ma qualche giorno dopo, il "via libera" del Coni smentisce la proprietà dopante del prodotto e permette al giocatore di entrare in campo. Risolto il momentaneo problema-Davids, l’estate bianconera del 1999 ne porta molti altri. In particolare, emerge il caso dell’ex juventino Didier Deschamps (poi passato al Chelsea). Il medico della Nazionale francese Jean-Michel Ferret riferisce al procuratore Guariniello che di norma l’ematocrito di Deschamps era stabile sul valore medio di 40-42; dalle analisi del sangue sequestrate dagli agenti di polizia giudiziaria al dottor Agricola, invece risulterebbero sbalzi fino a 50, e in almeno un caso addirittura oltre quel limite, considerato una soglia da non superare per non comportare rischi alla salute.
Il "decollo" dei valori dell’ematocrito di Deschamps, secondo il medico transalpino, potrebbe essere spiegato dall’uso di eritropoietina, la famigerata Epo. L’attenzione della Procura torinese si sofferma, oltreché su Deschamps, soprattutto su Lombardo, Montero, Rampulla, Torricelli, Vialli e Dimas (quasi tutti "ex"). Il 29 maggio 2000 l’amministratore delegato juventino Antonio Giraudo e il capo dello staff medico bianconero Riccardo Agricola ricevono l’«avviso di chiusura indagini», premessa rituale alla richiesta di rinvio a giudizio per cinque accuse, fra le quali spicca per gravità la "frode in competizione sportiva".
A differenza di quanto avvenuto in altri ambiti sportivi (esempio: il ciclismo), le contestazioni del magistrato non vengono mosse ai giocatori (inconsapevoli vittime, secondo l’accusa) ma ai dirigenti. Gli altri reati vanno dalla violazione della legge 626/94 sulla salute dei lavoratori alla «somministrazione di farmaci pericolosi», dalle infrazioni alla legge anti-aids (per i test Hiv sui giocatori) alla ricettazione di farmaci fuorilegge (come la creatina e altri "integratori", assunti in dosi massicce e non consentite). Pur avendolo indagato in quanto sommo dirigente juventino, per Luciano Moggi il magistrato non chiede il rinvio a giudizio perché non sono emersi specifici elementi a suo carico. Del resto c’è da giurare che, come un decennio prima a Napoli, anche a Torino Lucianone non deve essersi accorto di niente.
La posizione della Juventus sotto processo è particolarmente grave, perché nell’ipotesi accusatoria quattro campionati e le relative Coppe Italia sarebbero stati «fraudolentemente alterati» dal sistematico ricorso al doping. Non si tratta di un periodo qualsiasi, bensì delle quattro stagioni bianconere tra il 1994 e il 1998, cioè le più brillanti della gestione Moggi: stagioni che, secondo l’accusa, sarebbero state viziate dall’uso di almeno una dozzina di sostanze dopanti «vietate dal Cio, dal Coni e dalla Federcalcio».
La reazione della dirigenza juventina è furente. Essendoci di mezzo un processo, Lucianone tace. Parla solo l’avvocato-presidente Chiusano: «Finalmente l’inchiesta è finita», dichiara polemico. «Dopo due anni di mistero il velo è caduto, la statua è scoperta. Anzi, nuda. Perché non c’è niente, è un fallimento».
Secondo il massimo dirigente bianconero, il procuratore Guariniello avrebbe «mancato l’obiettivo di trovare il doping alla Juve», inventato un «teorema inconsistente», imbastito un «processo non alla Juventus, ma al calcio» su fatti che «meritano al massimo un convegno, non un processo». E ancora: il magistrato avrebbe «ignorato dati normativi», «accumulato 20 mila carte in 36 faldoni, roba da processo di mafia», «criminalizzato e danneggiato una società con cento anni di storia», e «turbato i suoi giocatori». Malgrado il turbamento, Chiusano afferma: «Il processo non potrà che finire bene per noi. I tifosi stiano tranquilli, non c’è nulla di cui preoccuparsi... Se anche avessimo dato farmaci senza notifica, bisognerebbe dimostrare che ciò ha cambiato il risultato di una partita. E il magistrato non ce ne contesta nemmeno una».
Ma negli atti si citano svariate partite disputate da giocatori juventini trattati irregolarmente con farmaci soggetti a restrizione d’uso: Deschamps, Dimas, Lombardo, Montero, Rampulla, Torricelli e Vialli... Inoltre, le carte della Procura contengono una perizia di Gianmartino Benzi e Adriana Ceci (docenti di ematologia presso le università di Pavia e Genova, e consulenti del Coni), secondo la quale i valori ematici di alcuni calciatori juventini sarebbero spiegabili solo con l’utilizzo di sostanze «stimolatrici dell’eritropoiesi»: i casi sospetti sarebbero quelli di Conte, Del Piero, Deschamps, Di Livio, Torricelli e Zidane. Tutte sciocchezze, secondo Chiusano, che ammonisce: «A parte la frode sportiva, che contestiamo, si tratta di contravvenzioni oblazionabili con quattromila lire, ma la Juventus non transige su nulla e si difenderà a spada tratta in tribunale».
Malgrado le focose dichiarazioni del suo presidente, la Juventus sembra puntare soprattutto su una rapida archiviazione del procedimento. A metà luglio, gli avvocati Chiusano e Chiappero presentano una serie di controdeduzioni alle accuse basate sui pareri di altri farmacologi e ematologi, e chiedono al Tribunale una "superperizia" farmacologica con "incidente probatorio" in udienza preliminare, di fronte a un Gip. Guariniello, codice alla mano, risponde che per il reato di frode sportiva contestato alla Juve non è previsto niente del genere. Allora, per perdere altro tempo, la difesa juventina solleva un’eccezione davanti alla Corte costituzionale contro la norma che impedisce l’incidente probatorio. La conseguenza è il blocco del processo doping-Juve per un anno.
Nel frattempo, la società bianconera si esercita in una serie di iniziative esterne al processo, finalizzate a influenzare il corso della giustizia ordinaria. Tre giorni dopo la sospensione del giudizio a Torino, il dottor Agricola si autodenuncia alla Procura del Coni «per sapere se il suo comportamento professionale alla Juventus sia stato corretto». In sostanza, il medico chiede alla giustizia sportiva di anticipare il verdetto di quella ordinaria.
Negli stessi giorni prende posizione il massimo dirigente calcistico nazionale, il presidente della Federcalcio Nizzola: «È inconfutabile e non si può smentire che nel calcio non si fa uso di anabolizzanti e di ormone della crescita», afferma il vecchio amico di Lucianone, e precisa: «Sono stati effettuati più di ventimila controlli in laboratori stranieri e quindi al di sopra di ogni sospetto, e forse solo in un caso è stata riscontrata presenza di anabolizzanti. Nel calcio non si usano queste sostanze, almeno nel calcio di oggi, perché non posso parlare del calcio di trent’anni fa. Riferendomi al calcio di oggi ho in mano gli inconfutabili dati scientifici dei controlli antidoping ».
Parole destinate a subire plateali smentite. Moggi continua a tacere, ma solo sulla vicenda doping. Per il resto, nel 2000 il suo traboccante presenzialismo mediatico supera ogni confine. La sua è praticamente la sola voce juventina titolata a parlare durante i silenzi stampa imposti dalla società ai giocatori prima per una settimana a maggio, e poi a oltranza da metà settembre: i calciatori bianconeri possono esprimersi solo per i loro sponsor, oppure attraverso i canali mediatici della società, mentre il direttore generale Lucianone assume l’inedito ruolo di portavoce generale. Difficile comprendere contro chi o che cosa sia stato annodato il bavaglio ai giocatori, salvo che si temano incaute dichiarazioni sulla scabrosa faccenda-doping. Che puntualmente si riaffaccia anche fuori dalle aule di tribunale.
Il 4 marzo 2001 i bianconeri giocano a Udine e vincono per 2-0, ma i controlli antidoping accertano che i valori di nandrolone (steroide anabolizzante vietato dal codice sportivo) di uno juventino sono quattro volte superiori al limite consentito. Si fa il nome di Edgar Davids, e Lucianone stavolta parla per non dire niente: «Non sappiamo nulla... Tutto quello che so me lo hanno raccontato i giornalisti. Non mi sono mai occupato di queste cose e spero proprio di non doverlo fare in futuro... Per ora siamo di fronte solo a un possibile caso di doping, perciò aspettiamo. Le notizie ufficiali si possono commentare, quelle presunte no». La conferma ufficiale non si fa attendere: il presunto dopato è proprio il fuoriclasse olandese della Juve, che il 17 maggio viene sospeso dall’attività agonistica in attesa del verdetto della Commissione disciplinare.
Intanto, all’inizio di luglio, il processo di Torino esce dall’impasse: la Consulta rigetta il ricorso di Chiusano e restituisce la palla a Guariniello, che rinvia a giudizio Agricola, Giraudo e il farmacista Giovanni Rossano. Il 31 gennaio 2002 il terzetto comparirà davanti ai giudici del Tribunale di Torino per rispondere di frode sportiva, ricettazione, falso, violazioni dello Statuto dei lavoratori e della legge 626 per la tutela della salute sul posto di lavoro. Perentorio il commento dell’avvocato Luigi Chiappero: «Quello del pubblico ministero è un teorema insostenibile». Insostenibile e indifendibile, al momento, sembra farsi la posizione di Edgar Davids. Le controanalisi confermano l’illecito uso di nandrolone, e all’inizio di agosto la Procura sportiva chiede che al giocatore venga comminata una multa di 200 milioni di lire e una squalifica di otto mesi, al termine della quale Davids sarà sottoposto a sei mesi di "sorveglianza speciale" (con test antidoping a sorpresa) da parte della giustizia sportiva. Una dura richiesta che non turba Moggi: «Noi siamo tranquilli, non ci aspettavamo niente di più o di meno di quanto formulato dalla Procura».
La serenità di Lucianone sembra trovare un perché a fine mese, quando la Commissione disciplinare della Federcalcio si riunisce per giudicare il caso nandrolone. La sentenza sportiva è preceduta da un sorprendente intervento della Fifa, che invoca una squalifica mite per Davids. Davanti alla Disciplinare, il procuratore antidoping Giacomo Aiello modifica la richiesta di squalifica: non più gli otto mesi invocati il 3 agosto, ma soltanto tre e mezzo, pena già scontata da Davids, che così potrebbe tornare in campo entro una settimana. Il verdetto della Commissione presieduta dall’avvocato Stefano Azzali è però meno mite della richiesta, e commina a Davids una multa di 100 milioni di lire con cinque mesi di squalifica: la sosta forzata si concluderà il 18 ottobre (l’olandese è sospeso cautelativamente dal 17 maggio). Mentre il legale juventino, avvocato Chiappero, annuncia ricorso alla Commissione d’appello federale (Caf), Moggi tace. Parla pochi giorni più tardi, all’inizio di settembre, dopo che la Caf ha ridotto a quattro i mesi di squalifica per Davids, restituendo il giocatore dopato agli impegni di campionato. «Uno che non ha fatto niente è giusto che pretendesse l’assoluzione piena», protesta imperterrito Lucianone: «Sembra che Davids sia stato l’unico nel mirino dell’antidoping, si parla soltanto di lui. Per questo ci ritiriamo nel nostro guscio e cerchiamo di non dare fastidio a nessuno». Quando fa la vittima, l’ex ferroviere meriterebbe l’Oscar.
Il 22 settembre, a Lecce, insieme al compagno di squadra Paolo Montero, Davids è protagonista di una scazzottata in campo che certamente costerà ai due juventini una pesante squalifica. Ma la contromossa di Lucianone è fulminea: non potendo negare l’evidenza né evitarne le conseguenze, interviene per anticipare e depotenziare il verdetto della giustizia sportiva. «Non giustifichiamo niente e nessuno», tuona subito dopo la rissa, «siamo i giudici più severi di noi stessi, sistemeremo le cose al nostro interno». E il 26 settembre, alla vigilia della sentenza della Disciplinare, convoca presso la sede sociale i due giocatori, previo annuncio di castigo a mezzo stampa: «State tranquilli che dopo quanto gli dirò non si vedranno più certe scene». La dirigenza juventina appioppa ai due una multa di duecento milioni di lire a testa. La Disciplinare, commossa, limita le sanzioni a due sole giornate di squalifica per ciascuno.
Il 23 gennaio 2002 comincia a Torino il processo-doping. Benché gli imputati siano solo l’amministratore delegato bianconero Giraudo, il medico sociale Agricola e il farmacista Rossano (che avrebbe fornito illegalmente alla società alcuni dei prodotti sotto accusa), il capo d’imputazione chiama in causa l’intera dirigenza juventina per «avere commesso atti fraudolenti al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento di competizioni sportive... atti consistiti nel procurarsi, detenere, somministrare ai calciatori trattati specialità medicinali contenenti sostanze rientranti nell’elenco formulato dal Cio relativo alle "classi di sostanze proibite e dei metodi proibiti" in materia di doping». E a sostegno delle accuse, la Procura torinese elenca ben 150 testimoni. Tutto il vertice bianconero ostenta sicurezza. L’avvocato-presidente Chiusano dichiara: «Sono sollevato: finalmente, dopo due anni di voluminosissime indagini, possiamo difenderci ».
L’imputato-amministratore Giraudo fa lo spiritoso: «So che il giudice Guariniello lavora pure d’estate e di notte. Mi auguro che qualcuno tuteli la sua salute». Ma in aula, davanti al giudice Giuseppe Casalbore, la difesa juventina si arrocca in un serrato catenaccio. Cercando di eludere il merito processuale, gli avvocati della Vecchia Signora si infilano nei meandri della procedura: chiedono la nullità dell’atto di citazione perché il fascicolo depositato dal pubblico ministero sarebbe incompleto, invocando addirittura l’immediato proscioglimento degli imputati. Inoltre, secondo i legali juventini dalla lista dei testimoni della Procura vanno depennati i nomi dei calciatori: primo «per evitargli la gogna mediatica», secondo perché «i giocatori non sanno niente delle sostanze, prendono quello che gli danno». Infine, riguardo alla contestata violazione della legge 626 sulla sicurezza del lavoro, chiedono l’oblazione: in pratica, la Juve ammette implicitamente la fondatezza dell’addebito, e chiede di cavarsela con una multa.
I periti del procuratore Guariniello sottolineano che «i medicamenti detenuti (249 tipi di farmaci, ndr) dalla società Juventus sono una riserva soddisfacente per la conduzione di un piccolo ospedale italiano». Gli avvocati bianconeri rispondono che «la creatina in Italia la prendevano tutti: è un prodotto consentito, che può avere anche effetti benefici, e noi non abbiamo mai negato di averla utilizzata». Il perito dell’accusa Adriana Ceci però puntualizza: nella "farmacia" juventina ci «sono farmaci per tutte le patologie possibili e immaginabili, e addirittura inimmaginabili se i potenziali pazienti sono atleti giovani e sani. Ci sono 38 specialità neurologiche, 41 muscolo- scheletriche e 4 ormonali. Ma c’è una logica: i gastroenterici, ad esempio, servono a ridurre gli effetti secondari dei muscolo-scheletrici. E poi ci sono gli antidoti contro le intossicazioni da antidepressivi». La tesi dell’accusa, dunque, è che si alimenti una spirale perversa: si dà a un giocatore sano un farmaco lecito capace di incrementarne le prestazioni (il Voltaren, per esempio), quindi gli si somministra una sostanza che ne riduce i possibili effetti collaterali. Questo spiegherebbe la necessità di allargare continuamente la rosa delle specialità da conservare negli armadietti, acquistandole – è l’ipotesi della Procura – con stratagemmi che svincolino dalle ricette. Nel corso del dibattimento non manca qualche schermaglia dialettica evocativa dell’illustre assente Lucianone Moggi. Dice Guariniello rivolgendosi al principale imputato: «Dottor Giraudo, è quasi come al calciomercato, dammi questo che io ti cedo quello... Ci vorrebbe Moggi, che in queste cose mi sembra molto bravo». Giraudo replica: «Procuratore Guariniello, è vero... Sa, nel calcio moderno i procuratori contano molto, e Moggi è il migliore». Ma a parte questo, Lucianone non c’entra col processo alla "sua" Juve: lui, della presunta faccenda doping, non sa niente.
Durante un’udienza il giudice Casalbore non riesce a trattenersi. Di fronte ai silenzi e alle reticenze dei calciatori juventini chiamati a testimoniare, in particolare dell’ex capitano Antonio Conte, il giudice sbotta: «Ma insomma, non si può venire in aula e non ricordare niente! Si tratta di medicinali che avete consumato voi giocatori. Attenzione: qui dire tutta la verità è un dovere». Non si sa se nella "farmacia" della Juve tra i 249 tipi di farmaci presenti ci fosse anche del fosforo (per la memoria). Non lo sa neanche Lucianone: lui, benché qualcuno per servilismo arrivi a chiamarlo «dottò», con la scienza medica non ha molta dimestichezza.
A proposito di memoria e antidoping. L’11 settembre 2003 l’ex presidente del Napoli calcio Corrado Ferlaino racconta, in un’intervista a "Il Mattino", un po’ dei suoi ricordi. Ricordi piuttosto imbarazzanti, nei quali salta fuori anche il nome di Lucianone. Ferlaino dichiara fra l’altro: «Maradona l’ho salvato dall’antidoping decine di volte... Dalla domenica sera al mercoledì, Diego, come qualche altro giocatore del Napoli, faceva quello che voleva (cioè sniffava cocaina, ndr), ma il giovedì doveva essere "pulito"... Basta non assumere cocaina per qualche giorno perché non risulti nelle analisi del dopo partita. Moggi, il medico sociale e il massaggiatore chiedevano ai giocatori se erano a posto... (Per l’antidoping) si adottava un trucco: se qualcuno era a rischio, gli si dava una pompetta contenente l’urina di un altro... Nonostante questo trucco, quel giorno del 1991 Maradona fu trovato positivo. Moggi gli aveva chiesto se era in condizione e lui rispose: "Sì, lo sono, va tutto bene". Il fatto è che i cocainomani mentono a se stessi. Risultò positivo, e quando l’allora presidente Nizzola mi chiamò in via confidenziale per darmi la notizia, gli dissi "Presidente, dimmi cosa posso fare", ma lui rispose: "Ormai non si può fare più nulla"».
La replica di Lucianone è da antologia: «Ferlaino è un maestro nel mimetizzarsi e nel dare le colpe agli altri. Io non ero né il presidente, né il medico sociale del Napoli. Non sono a conoscenza di queste cose... Se le dice, vuol dire che le sa lui». Insomma: io non c’entro, e comunque non ne so niente.
TUTTO IN FAMIGLIA
L’inchiesta torinese sul doping ne genera un’altra, più nascosta ma altrettanto clamorosa: quella sugli arbitri e sui meccanismi di designazione. Forte è il sospetto che le procedure dei sorteggi che assegnavano un determinato arbitro a una determinata gara potessero essere aggirate o manipolate. All’inizio di febbraio 1999 viene interrogato Mario Auriemma, presidente del Civitavecchia con alle spalle una lunga esperienza ai vertici dei club pallonari: secondo alcune voci, col magistrato avrebbe parlato anche di Moggi. Auriemma si sottrae alle specifiche domande dei cronisti, però conferma che di Lucianone a Guariniello «ne avevano già parlato altri. Per esempio il povero De Sisti, uno che finché Moggi sarà in circolazione non troverà una panchina nemmeno in serie C». Le voci attorno al nome di Moggi si intensificano nella prima metà di marzo, quando al Palazzo di giustizia di Torino arriva il presidente giallorosso Franco Sensi. Per tre ore parla con Guariniello di meccanismi di potere, arbitri e dirigenti, facendo spesso il nome del presidente federale Nizzola e quello di Moggi (con il quale Sensi ha rapporti tesi fin dai tempi del passaggio dell’ex ferroviere alla Juventus).
Il 25 marzo Guariniello dispone il sequestro del "computer degli arbitri" per verificare come venivano designati i direttori di gara nel contestatissimo campionato 1997-98 (il designatore era Fabio Baldas, al momento ospite fisso nel barsport-Tv di Aldo Biscardi). Il magistrato ritiene che i criteri di scelta fossero tutt’altro che trasparenti, anzi facilmente "pilotabili" dall’interno e dall’esterno. Uno speciale programma avrebbe dovuto assicurare il massimo automatismo nella scelta dei direttori di gara, abbinando i più bravi e più "adatti" alle varie partite, classificate secondo il grado di difficoltà. Invece si sospetta che il designatore potesse aggirare il software quando le decisioni del "cervellone" non erano gradite, come confermerebbero le spiegazioni tecniche degli ingegneri ai quali il magistrato ha affidato una perizia.
Ai primi di ottobre dal pubblico ministero torinese si reca anche il presidente della Lazio, Sergio Cragnotti: "la Repubblica" scrive che «l’indagine sul calcio truccato riguarda una presunta "cupola" di potere formata da alleanze trasversali fra dirigenti di alcuni grandi club, procuratori e arbitri: ne hanno parlato diversi esponenti di società minori, più due "pentiti" rimasti finora top-secret».
Mentre l’inchiesta-arbitri procede, Lucianone si esibisce nel suo miglior repertorio: quello della vittima. Denuncia un fantomatico "complotto" contro la sua Juve, e ospite dell’amico Biscardi si scaglia perfino contro la "prova televisiva" (introdotta nella giustizia sportiva per sanzionare le infrazioni più macroscopiche sfuggite all’occhio dell’arbitro): «Siamo contrari al modo in cui viene utilizzata. Purtroppo il tifo esiste e il regista potrebbe anche esaminare un’azione invece di un’altra... La tv è un mezzo che può venire manovrato dalla mano dell’uomo. Bisogna studiare qualcosa affinché non diventi un problema per il calcio, anche perché ci sono società che possono produrre le immagini autonomamente e altre che non lo possono fare».
Lucianone se ne intende: lui nelle tv entra e esce senza problemi, come negli spogliatoi. All’inizio di dicembre arriva a sentenza l’altra inchiesta giudiziaria sui presunti favoritismi arbitrali del discusso campionato 1997-98, quella condotta dal Tribunale di Firenze. Inchiesta avviata dopo Empoli-Juve del 19 aprile 1998, quando l’arbitro Pasquale Rodomonti non convalidò un gol "fantasma" segnato dal difensore toscano Stefano Bianconi, consentendo la vittoria per 1-0 alla Juventus. Il Gip del capoluogo toscano, Antonio Crivelli, dispone l’archiviazione dell’inchiesta, rilevando l’assenza di dolo e di corruzione dei direttori di gara indagati, ma ipotizza che gli arbitri siano affetti da «sudditanza psicologica» nei confronti della Juve moggiana: nel suo decreto, il giudice scrive che «la sospetta coincidenza di errori arbitrali in più partite e a opera di più direttori di gara a favore della Juventus può lasciar trasparire una sorta di sudditanza psicologica».
Lo scafato Lucianone incassa, e una volta tanto si cuce la bocca: «No comment». Il 12 dicembre 1999, allo stadio Delle Alpi, si gioca il derby d’Italia, la classica e spesso avvelenatissima Juventus-Inter. E ancora una volta sembra materializzarsi lo spettro della "sudditanza psicologica". Il direttore di gara, Daniele Tombolini, è protagonista di due marchiani errori: all’8° minuto il portiere bianconero Van der Sar abbatte fuori area il nerazzurro Zamorano lanciato a rete; un fallo da espulsione, perché l’intervento preclude al giocatore interista una chiarissima occasione da gol; ma l’arbitro si limita a estrarre il cartellino giallo. Il secondo abbaglio si verifica al 60°, sull’1-0 per la Juve: il portiere juventino esce fuori area e respinge il pallone con il corpo: Tombolini prima valuta corretto l’intervento; poi, cedendo alle insistenti proteste dei nerazzurri, si consulta con il guardalinee e combina un papocchio: punisce il fallo di mani (che non c’è) con un nuovo cartellino giallo, ed espelle il portiere bianconero per somma di ammonizioni. L’effetto dei due errori parrebbe così compensarsi, ma in realtà è l’Inter a essere danneggiata: l’espulsione del portiere avversario nei primi minuti di gioco le avrebbe permesso di giocare l’intera partita in superiorità numerica.
Questa stessa partita finisce sul tavolo di Guariniello per una strana omissione nel referto arbitrale. Tombolini avrebbe "dimenticato" di segnalare un importante episodio, poi rivelato da molti testimoni, che riguarda direttamente Moggi: per l’espulsione del portiere bianconero, il direttore generale della Juve si è precipitato nello spogliatoio della terna arbitrale e ha affrontato a muso duro Tombolini e i suoi assistenti di gara; l’arbitro ha messo alla porta Lucianone, ma poi ha evitato di denunciare la scenata nel referto per il giudice sportivo. "Salvando" così l’ex ferroviere, dirigente non autorizzato a frequentare gli spogliatoi arbitrali, dalle inevitabili conseguenze disciplinari. L’episodio viene commentato in maniera sorprendente dal presidente juventino Chiusano: «Sì, Moggi si è recato dall’arbitro a fine partita, com’è sua consuetudine: insieme ai saluti, ha espresso le sue opinioni. Ma non era un intruso, era un dirigente. Escludo che in Juve-Inter ci siano elementi di interesse penale».
Che la polemica sia destinata a proseguire, lo dimostra poco dopo il presidente romanista Franco Sensi, protestando per le discutibili decisioni arbitrali che favoriscono sempre due squadre: la Juve moggiana, e il suo alleato Milan diretto dal grande amico di Moggi, il berlusconiano Adriano Galliani. Il dirigente rossonero dichiara subito che «il presidente della Roma ci ha diffamato», e annuncia una querela. Lucianone preferisce il sarcasmo: propone che per la prossima sfida Juventus-Roma «noi mettiamo il campo, il pallone e l’acqua per le docce, loro portino pure arbitro e guardalinee: ci va bene comunque».
La tecnica moggiana in materia di arbitri è elementare e collaudatissima. Quando le decisioni arbitrali sono favorevoli alla Juventus (cioè quasi sempre), Lucianone si mostra sprezzante verso chi se ne lamenta o solleva sospetti. Le rarissime volte in cui un errore arbitrale penalizza la Juve (cioè quasi mai), apriti cielo: Moggi insorge, strepita, minaccia, protesta, invoca la gogna per i fischietti "stonati". Come accade nel tormentatissimo sprint-scudetto con la Lazio. Domenica 3 dicembre 2000, durante Inter-Juventus a San Siro, il difensore bianconero Paolo Montero rifila un pugno alla mascella del centrocampista nerazzurro Di Biagio. L’arbitro Braschi non se ne accorge, ma in seguito il giudice sportivo Maurizio Laudi, basandosi sulla prova televisiva, infligge tre giornate di squalifica al difensore uruguaiano della Juve.
Lucianone insorge furibondo: «Contestiamo tutto, incluso lo strumento che è stato utilizzato: la prova tv. In proposito ci siamo affidati ai nostri avvocati: sono loro che valuteranno e decideranno! Mi devono dire dove sia l’eccezionale gravità del fallo di Montero, considerato tra l’altro che Di Biagio ha potuto tranquillamente concludere la partita». Alla fine, Lucianone quasi urla: «È ora di finirla con questa storia! Adesso chiederemo di rivedere tutte le moviole di ogni squadra, per valutare cosa realmente accade in campo. Perché ho la sensazione che succedano anche episodi peggiori dei quali nessuno si interessa». Arroganza, sfacciataggine, vittimismo, sfrontatezza: lo stile-Moggi.
All’inizio del 2001 si gioca Juve-Fiorentina: una punizione trasformata in gol dal gigliato Chiesa chiude la gara sul 3-3. Lucianone protesta: «Mi meraviglio del poco risalto dato dalla stampa nazionale ai fatti di questa partita. A parti invertite, avrebbero scaricato chissà quali invettive sulla Juventus... Per molto meno all’Olimpico, durante il match contro la Roma, noi dirigenti juventini che eravamo in tribuna ci siamo sentiti dare del "ladro" perché l’arbitro, con una decisione peraltro dimostratasi poi giusta alla moviola, non aveva sanzionato con il rigore un intervento su Totti. Va detto ciò che è giusto, e scusate se per una volta ho lasciato da parte lo stile Juventus». Poi passa alle minacce: «Dirigenti della squadra avversaria hanno parlato di vento contrario; allora noi dovremmo parlare di ciclone nei nostri confronti. Ma questa tendenza deve finire!». Il 14 gennaio la Juve è impegnata in casa contro il Bologna. Nuove proteste di Moggi contro l’arbitro: «Sull’operato degli arbitri ci siamo già espressi. Dico soltanto che tutti hanno gli occhi per giudicare ciò che sta succedendo».
Poi però l’ex ferroviere cambia tattica e passa direttamente dalla mezza minaccia alla mezza promessa. Così ai primi di febbraio 2001, dalla solita tribuna Tv del "processo" biscardiano, lancia la sorprendente proposta di multare gli arbitri fuori linea: «Mi sembrerebbe logico, visto che i giocatori e gli altri dipendenti della società vengono multati quando sbagliano... Probabilmente ci sarebbe più attenzione e ci sarebbero meno sviste clamorose: le cose successe in Roma-Lecce, Roma-Bari o Atalanta-Juventus non dovrebbero accadere anche se l’arbitro deve decidere in pochi secondi». Per la cronaca, in Atalanta-Juve, finita 2-1, l’arbitro romano De Santis ha convalidato il gol del pareggio bergamasco, segnato in sospetto fuorigioco. Dalle continue lamentazioni anti-arbitri, Lucianone passa a un interminabile duello verbale con l’allenatore giallorosso Fabio Capello, che a fine febbraio 2001 costa a entrambi un deferimento alla Commissione disciplinare della Lega calcio.
Provvedimento che – spiega una nota della Federcalcio – è stato preso «per avere alimentando dannose polemiche e sospetti sulla regolarità del campionato, mantenuto condotte non conformi ai princìpi della lealtà, della probità e della rettitudine nonché della correttezza morale in ogni rapporto di natura agonistica e sociale. Esternazioni che, rese pubbliche da organi di stampa, sono idonee, direttamente o indirettamente, a costituire incitamento a forme di violenza». Ma è un fuocherello di paglia: a metà aprile la Commissione proscioglie Moggi e Capello dalle accuse mosse dal Procuratore federale, con tanti saluti al tentativo di costringere Lucianone a toni più civili. Logico quindi che, a metà luglio, l’ex ferroviere si senta autorizzato a tornare sull’argomento con le solite allusioni: «Negli ultimi due anni abbiamo perso lo scudetto per fattori che nulla hanno a che fare con il calcio. Alcuni sono superati, altri ancora no».
Lo scandaloso arbitraggio di Ceccarini che il 26 aprile 1998 ha consegnato lo scudetto 1997-98 alla Juve moggiana ha scavato un solco profondo tra l’Inter di Moratti e la Federcalcio presieduta da Nizzola, l’amicone di Lucianone. E i nodi vengono al pettine nella primavera del 2000, quando è in scadenza la massima carica del calcio italiano. Il "Corriere della Sera" del 13 marzo dà conto delle pressioni nerazzurre sotto il titolo: «L’Inter attacca Nizzola: deve andarsene. Dopo Moratti, interviene Oriali: "Arbitri allo sbando, Federcalcio inesistente. Tutto è contro di noi"». Nell’articolo si afferma: «Moratti, che non crede più nell’istituzione, è pronto allo scontro. Vuole la testa di Nizzola, il presidente fantasma che ha delegato tutti i poteri della Federcalcio alla Lega di Milano e che trascorre il sabato sera in un ristorante di Torino giocando a carte con il direttore generale juventino Luciano Moggi». Ma Luciano II non sembra avere alcuna intenzione di farsi da parte, forte della inossidabile amicizia di Luciano I e degli amici dell’amico. Così, a maggio, annuncia di essere pronto a ricandidarsi per la prestigiosa poltrona. Il "Corriere della Sera" scrive che «Nizzola perde la pazienza e alza la voce, guarda caso, solo quando gli chiedono di Luciano Moggi: burattinaio o semplice dirigente sportivo?». Risposta di Nizzola: «La domanda mi dà l’occasione per ribadire che non accetterò più insinuazioni di basso profilo. Moggi è mio amico dai tempi del Torino, nel quale abbiamo lavorato insieme per cinque anni. Ma sa benissimo che con me di calcio non può e non deve parlare. Se qualcuno oserà ancora insinuare che chissà cosa succede quando io e lui ci incontriamo, ne risponderà a tutti i livelli. Moggi non mi ha mai chiesto nulla, e io nulla sarei disposto a concedergli. Sia chiaro, ora e sempre».
Il settembre del 2001 segna un momento top per la carriera di Lucianone. Dopo molti annunci, sulla scia delle due squadre romane la Juve conferma ufficialmente la propria imminente quotazione in Borsa con il collocamento del 35 per cento del capitale sociale. L’outing bianconero viene accompagnato dall’annuncio di un progetto faraonico: la costruzione di due "Juvelandia", due cittadelle paragonabili a "Disneyworld" che dovrebbero sorgere la prima attorno allo stadio Delle Alpi, la seconda ai confini tra Vinovo e Nichelino, su un’area di cinquecentomila metri quadrati – una megastruttura ricreativo-commerciale immersa nel verde ma dove il marketing sarà tutto bianconero. Nella occasione, l’amministratore delegato Giraudo annuncia un’altra decisione strategica: l’aumento da tre a sette del numero dei componenti del Consiglio di amministrazione societario presieduto dall’avvocato Chiusano, e dunque l’ingresso nel Gotha juventino di Lucianone Moggi. Il quale per una volta sembra davvero commosso e cade in ginocchio: «Accolgo con piacere e orgoglio il riconoscimento conferitomi dalla società. Ringrazio la famiglia Agnelli, l’Avvocato e il dottor Umberto, per la stima e l’affetto che mi hanno dimostrato in questi anni. A loro mi lega un rapporto di fiducia ma anche di amicizia». Giraudo parla di lui come di una divinità: «A Moggi devo attribuire molti meriti per i risultati che abbiamo ottenuto in questi sette anni di comune lavoro. Sono molto felice che sia entrato a far parte del Consiglio d’amministrazione, a conferma dello spirito di gruppo che ha contrassegnato il nostro impegno. Oltre ai meriti, devo riconoscere a Moggi di avermi aiutato, e di aiutarmi ancora, a scoprire ogni aspetto del mondo del calcio, che lui conosce da anni... Gli auguro di continuare su questa strada per ottenere, insieme, i risultati che fanno parte della storia della Juve».
Sono lontani anni luce i tempi dell’imbarazzato ostracismo verso l’ex ferroviere, i tempi in cui Agnelli lo chiamava «lo Stalliere», e Boniperti lo usava come osservatore esterno, tenendolo fuori dalla porta della sede sociale. Onore al merito: finalmente Lucianone è stato ammesso nel salotto della Real Casa. Ci sperava da tempo, e allo scopo aveva cominciato a vestire con minore pacchianeria, a parlare più l’italiano che il dialetto, ad atteggiarsi a più a manager che a ferroviere, a muoversi da miliardario anziché da arricchito. Certo, ben più di questi espedienti "d’immagine", per la consacrazione agnelliana ha contato il suo potere smisurato di vero padrone assoluto del baraccone pallonaro. Nel calcio italiano di inizio Duemila non si muove foglia che Moggi non voglia, e il suo è un potere tanto pervasivo quanto inspiegabile. Qualcuno lo attribuisce alla formidabile spregiudicatezza del personaggio, altri al fatto che sia il più bravo di tutti; alcuni tirano in ballo vent’anni di inconfessabili segreti calcistici di cui sarebbe depositario, altri gli attribuiscono un inarrivabile talento per le pubbliche relazioni. Senza dimenticare l’effetto moltiplicatore della dinastia: Lucianone si muove in tandem con il figlio Alessandro, che fa carriera come procuratore. E che carriera.
Negli stessi giorni dell’ingresso di Lucianone nel Cda juventino, nasce a Roma la Gea World, società che cura gli interessi di più di duecentocinquanta tra giocatori e allenatori di serie A e B. Alla nuova società sono interessati vari "figli d’arte": Andrea Cragnotti (figlio di Sergio, patron della Lazio), Francesca Tanzi (figlia di Calisto, proprietario del Parma), Chiara Geronzi (figlia di Cesare, presidente della Banca di Roma), Davide Lippi (figlio dell’allenatore juventino Marcello), più l’immancabile Alessandro Moggi, presidente della Gea World, affiancato dal vicepresidente Riccardo Calleri (ex deputato berlusconiano e figlio di Gianmarco, ex azionista di maggioranza di Lazio e Torino). Direttore generale della società: Giuseppe De Mita (figlio dell’ex segretario della Dc Ciriaco).
La Gea World è un insulto alla trasparenza, alla decenza, al senso della misura, è l’apoteosi di tutti i conflitti d’interesse possibili. Ma il baraccone pallonaro è disposto a tutto, in fatto di miliardi. Ogni tanto si leva qualche voce critica, nasce qualche polemica per il clamoroso conflitto di interessi, specialmente quello della famiglia Moggi. Ma è roba da ridere: Lucianone è intoccabile, può fare quello che vuole. Novembre 2002: durante la partita Modena-Juventus il giocatore Giuseppe Sculli (di proprietà bianconera, ma in prestito al club emiliano) sbaglia un gol già fatto, salvando la Juve. Capello dichiara: «Non credo che Sculli abbia sbagliato apposta contro la Juve. Certo, che poi ci sia una situazione anomala in un certo gruppo è sotto gli occhi di tutti: ci sono molti calciatori e allenatori tutti della stessa scuderia». Il pur cauto riferimento alla Gea di Alessandro Moggi è evidente. Lucianone si sente chiamato in causa e replica: «Capello dice così solo perché sta a -8 in classifica». Nel frattempo viene fatta circolare la voce che il figlio dell’allenatore giallorosso avrebbe tentato anche lui – senza riuscirci – di entrare come socio nella Gea World...
L’incredibile scandalo di Gea World rende bene l’idea del potere moggiano: nessuno osa fiatare (al massimo, un qualche mugugno), e i pochi che ne parlano lo fanno con molta cautela. È il caso del presidente dell’Assoprocuratori, Oberto Petricca, che dichiara: «Ci vuole serenità nell’affrontare l’argomento. C’è stato un cambiamento di rotta nella professione del procuratore, con l’aggregazione di grandi gruppi, una situazione che non riguarda solo la Gea... Il vecchio regolamento prevedeva un tetto di 40 giocatori assistibili, nel rinnovarlo abbiamo proposto anche che non ci fossero più di 5 giocatori assistibili per squadra, ma le nostre proposte non sono state accettate dalla Figc».
Lo scandalo finisce in Parlamento: il deputato leghista Giovanni Didonè rivolge un’interpellanza al ministro della Cultura (con delega allo Sport), il berlusconiano Giuliano Urbani, denunciando il conflitto di interessi e la possibilità che una simile società possa influenzare il campionato di calcio. Lo stesso parlamentare si rivolge anche al ministro dell’Economia, il berlusconiano Giulio Tremonti, perché valuti «l’opportunità di attivare particolari controlli sulle società calcistiche ed emanare norme fiscali per i bilanci delle medesime per evitare false plusvalenze e prevenire quei dissesti finanziari... che travolgono oltre alle società calcistiche anche le grandi imprese che le posseggono».
Impensabile in altri Paesi europei, la Gea World è "normale" in Italia, anzi si appresta a diventare il fulcro delle principali iniziative di sfruttamento del mercato, il vero motore del circo pallonaro. Del resto, alla guida del governo italiano c’è il presidente-padrone del Milan (e di una quantità di aziende), primo ministro in pieno "conflitto di interessi" con il suo impero affaristico. All’inizio di dicembre 2002 la Gea World organizza a Firenze la prima edizione della manifestazione "Expogoal", una tre giorni con l’obiettivo di «creare un’occasione di incontro fra club calcistici, aziende tradizionalmente attive nel campo delle sponsorizzazioni e operatori del marketing»: praticamente una fiera pallonara per valutare le strategie più opportune per sfruttare al meglio le "sinergie" economiche offerte dal calcio.
La scelta dei tempi appare perfetta, perché proprio nei giorni della manifestazione fiorentina la dirigenza della Federcalcio è chiamata a deliberare sulla controversa liceità della Gea (un iter avviato nel precedente marzo dal presidente Franco Carraro, il quale ha attivato un’apposita commissione di indagine). Il 2 dicembre Antonio Matarrese, vicepresidente vicario della Lega calcio, dichiara: «Quello della Gea è un problema antipatico, non solo per il bene dei calciatori che rappresenta, ma anche per chi c’è dietro». Ma subito il neopresidente della Lega, il berlusconiano Adriano Galliani, gli replica: «Considero anomale le cose che lo sono, nessuno ha stabilito che la Gea lo sia, il presidente federale ha ordinato una indagine e ne aspettiamo l’esito». Settantadue ore dopo le dichiarazioni di Galliani, sul tavolo del presidente federale approda l’esito di quell’indagine: la Commissione afferma che «la Gea non ha commesso alcuna infrazione al regolamento, pertanto ha lavorato nel pieno della legittimità».
Nel dorato dicembre 2002 si comincia a mormorare che Lucianone sia destinato a più elevati incarichi. Cooptato nel Consiglio d’amministrazione del club più blasonato, al primo posto nella speciale classifica dei dirigenti calcistici più pagati d’Italia (con un introito annuo dichiarato in 2.226.000 euro), l’ex ferroviere secondo i giornali sarebbe in procinto di diventare presidente della Federcalcio (in precedenza guidata solo per interposta persona).
Ma non basta. Più di una volta Moggi ha affermato che il vero problema della Nazionale italiana di calcio è la cosiddetta solitudine del commissario tecnico, costretto a subire la volontà dei club più importanti, e al quale dovrebbe dunque essere affiancata una figura inedita per il calcio azzurro, quella del coach-manager. L’idea di Lucianone super-Ct diventa pubblica per bocca del suo amico Pierpaolo Marino, direttore generale dell’Udinese, che propone appunto di affiancare all’allenatore azzurro una "superentità" non più anonima, ma definita: Moggi.
In un Paese pieno di commissari tecnici della Nazionale, forse quello sarebbe il posto giusto per Lucianone, superesperto non solo di giocatori, ma anche di allenatori. Nel 2000 il suo vecchio nemico Zeman è finito al Napoli (un miliardo e mezzo di lire, premi a parte, per una stagione): secondo "la Repubblica", mediatore dell’accordo è stato «il giovane procuratore Alessandro Moggi, figlio di Luciano». Molta acqua è passata sotto i ponti, da quella lontana estate del 1998, quando Moggi e Zeman si scambiavano parole di fuoco sullo scandalo del doping.
IL PADRONE
Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 1999 la Juve moggiana, ormai estromessa dalla corsa allo scudetto, entra in crisi. Dopo la sconfitta di Cagliari (0-1), appare chiaro che l’allenatore Marcello Lippi ha i giorni contati. E quando la domenica successiva il Parma espugna lo stadio delle Alpi per 4-2, Lippi dichiara: «Se il problema sono io, me ne vado». Lucianone prende la palla al balzo e lo liquida. L’allenatore giubilato, tre mesi dopo, dirà: «Ho capito troppo tardi che non bisogna mai contraddire gli Agnelli» – Lucianone, invece, lo ha sempre saputo. E ha ingaggiato come nuovo allenatore Carlo Ancelotti.
È la prova che anche il padreterno Moggi sbaglia (benché i giornali sportivi non osino scriverlo). Come dimostra anche la vicenda di Thierry Henry, un attaccante che Ancelotti apprezza, ma che la società vuole cedere. Nell’agosto 1999, in una saletta dell’aeroporto della Malpensa, alla partenza per Rostov (dove il giorno dopo la Juve giocherà la seconda sfida dell’Intertoto), Lucianone si apparta con Ancelotti: «Henry non deve giocare, perché se gioca non possiamo più cederlo. Lo vuole l’Arsenal, mi raccomando».
Messaggio ricevuto: Henry resta in tribuna, e passerà all’Arsenal per undici milioni di sterline (quasi trentaquattro miliardi di lire). «Moggi temeva di non recuperare i soldi dell’investimento, temeva che il valore del giocatore diminuisse, e Henry nemmeno gli piaceva», dirà un suo anonimo collaboratore. Che cantonata, per il re del mercato: Henry, nelle tre stagioni successive segnerà – fra campionato, coppa d’Inghilterra e Champions League – più di 100 gol con l’Arsenal.
Passata da Lippi a Ancelotti, la Juve moggiana non riesce a ottenere nemmeno il quarto posto per la Champions League allargata, né il passaporto per la Coppa Uefa. Così le tocca l’onta dell’Intertoto. Alla terz’ultima giornata di campionato si gioca a Torino Juve-Milan e la Lazio – diretta concorrente dei rossoneri nello sprint finale – sente puzza di bruciato visti gli ottimi rapporti che legano i due club del Nord: dopo un primo tempo dignitoso, finito 0-0, una doppietta di Weah (che sfrutta due sviste difensive dei bianconeri) stende la Juve e proietta la squadra berlusconiana verso un sorprendente scudetto. Pettegolezzi e insinuazioni sottolineano che mezza squadra bianconera si sarebbe battuta, mentre l’altra mezza avrebbe assecondato il destino...
Nella stagione 1999-2000 la Juve ritorna al vertice, almeno in Italia. La Lazio è troppo discontinua, mentre i bianconeri – benché non offrano uno spettacolo esaltante – raccattano punti con impressionante regolarità. A febbraio 2000, dopo aver vinto il derby di ritorno per 3-2 in coincidenza con la sconfitta della Lazio a Verona (0-1), lo scudetto sembra già al sicuro: i bianconeri hanno 9 punti di vantaggio a otto turni dalla conclusione. Invece succede l’incredibile: Inzaghi non segna più e la Lazio passa a Torino sabato 1° aprile con una prodezza di Simeone, portandosi a meno tre. Lucianone trema.
Alla penultima giornata il solito scandalo favorisce i bianconeri: durante Juve-Parma l’arbitro romano Massimo De Santis annulla un gol valido del gialloblù Cannavaro, proprio al 90°: così vince la Juve 1-0 (grazie al primo gol su azione di Del Piero in tutto il campionato). Il gol annullato era regolare, il Parma si sente derubato, la Lazio alza la voce. L’arbitro De Santis si contraddice sostenendo di aver fischiato per un fallo (inesistente) in area juventina prima del tocco di testa di Cannavaro, ma la moviola lo smentisce: ha fischiato quando ha visto che la palla stava planando nella rete. Divampano le polemiche, il presidente interista Moratti ricorda i torti subiti due anni prima, il presidente Cragnotti minaccia di abbandonare polemicamente la Lazio, i tifosi laziali annunciano un sit-in di protesta davanti alla sede della Federcalcio.
Lucianone perde altre ottime occasioni per tacere: negli studi della "Domenica sportiva" sfodera la sua migliore faccia di bronzo per dire che il calcio d’angolo da cui è nato il gol di Cannavaro «è inesistente, quindi mi sembra che il torto lo abbiamo subìto noi!». La Figc apre un’inchiesta, e l’Aia sospende De Santis, ma è tutto fumo: il protettissimo arbitro sarà fermato per quattro mesi (in piena estate!) e mandato di nuovo in campo nel campionato successivo. In questo clima di sospetti si arriva all’ultima giornata di campionato: Juventus 71 punti, Lazio 69. Se vince a Perugia, contro una squadra già salva, la Signora è campione. Ma a Perugia, domenica 14 maggio, succede l’incredibile: nell’intervallo, sullo 0-0, mentre la Lazio sta domando la Reggina all’Olimpico, un nubifragio si abbatte sull’Umbria, un’ora di pioggia violentissima e incessante. L’arbitro Collina non può far riprendere il gioco, e decide di attendere più di ottanta minuti: le pressioni nei suoi confronti sono pesanti, le telefonate si susseguono, la Federcalcio vuole che il campionato si concluda senza code. Una sospensione definitiva del match e dunque la sua ripetizione provocherebbero conseguenze anche per l’ordine pubblico.
A Roma è finita 3-0, quando a Perugia si riparte. E dopo quattro minuti lo stopper Calori insacca nella porta juventina dopo una respinta corta di Conte: 1-0. Mancano quarantuno minuti più recupero, la Juve ha tutto il tempo per rimediare. Ma la squadra è svuotata di ogni energia, il suo forcing non sfonda, il portiere perugino compie buoni interventi, Inzaghi sbaglia almeno tre palle gol. Finisce così. Lo scudetto è della Lazio, mentre l’Italia juventina è in lacrime. Lucianone è furioso: «Dicono che io abbia tanto potere, eccolo il mio potere! Tutti hanno potuto vedere che cos’è successo, la verità è che non si poteva continuare a giocare, ma l’arbitro ha preso una decisione diversa». Traduzione: abbiamo perso lo scudetto per colpa dell’arbitro. Strano: il campo di gioco era bagnato tanto per i bianconeri quanto per i loro avversari...
La stagione juventina 2000-2001 comincia come peggio non si potrebbe: in ritardo in campionato (mentre la Roma di Capello vola ipotecando lo scudetto), i bianconeri escono dalle Coppe al primo turno. Ancelotti rischia, ma Moggi lo difende a spada tratta. Lentamente la Juve moggiana risale la classifica e parte all’inseguimento della Roma, fino allo scontro diretto, domenica 6 maggio 2001. Finisce 2 a 2, e questo vuol dire scudetto alla Roma. Inutili le successive cinque vittorie consecutive dei bianconeri, che riescono soltanto a ridurre le distanze fino a 2 punti. Il secondo posto non basta, anzi due secondi posti consecutivi sono insufficienti per le ambizioni da primato degli Agnelli. Lucianone continua a difendere l’allenatore Ancelotti, ma Umberto insiste per tornare a Lippi. Allora l’ex ferroviere, uomo dalle mille facce e mille casacche per tutte le stagioni, prontamente si adegua: Ancelotti viene licenziato, Lippi ripescato.
Nell’estate 2001 Lucianone ingaggia il laziale Nedved, dopo una laboriosa trattativa con Cragnotti che suscita qualche sospetto: c’è chi parla di un "patto segreto" fra il presidente biancoceleste e il megadirigente juventino. Soltanto fantasie? Chissà. Cragnotti e Moggi si conoscono molto bene e si frequentano volentieri (a parte i rapporti di affari tra i loro rispettivi rampolli). Secondo alcuni giornali, l’Inter avrebbe tentato di strappare Lucianone alla Juve; ma – scrive il "Corriere della Sera" – «il presidente onorario della Juve avrebbe rinfacciato a Moggi di essere stato proprio lui a diffondere l’indiscrezione, forse per riacquistare potere all’interno della società bianconera».
A differenza di Ancelotti (definito «un perdente di successo» dal giornalista Franco Rossi), Lippi è un vincente, e lo dimostra. A cinque giornate dalla fine del campionato 2001-2002 la sua Juve ha 6 punti in meno dell’Inter. Alla penultima ha ridotto il distacco a un solo punto. Lo scudetto si decide all’ultima partita, che vede la Juve a Udine e l’Inter all’Olimpico contro la Lazio. Alla vigilia Lippi sbotta: «Mi viene da vomitare» – commenta le voci ricorrenti di una passeggiata nerazzurra in casa laziale. In realtà a passeggiare sarà solo la Juve, che rifila due gol in dieci minuti all’Udinese già salva (ha vinto a Lecce grazie a un rigore inesistente la domenica precedente). L’Inter intanto, due volte in vantaggio con Vieri e Di Biagio, si fa rimontare e dopo l’intervallo crolla: vince la Lazio 4-2, e lo scudetto è della Juve.
Dopo quattro stagioni di astinenza, che avevano fatto dubitare delle virtù di Lucianone. Anche lo scudetto 2002-2003 è della Juve. Girone di andata di contenimento, molti arbitraggi "morbidi" (un dato per tutti: Nedved e Trezeguet, diffidati dopo la terza ammonizione, non verranno più ammoniti e chiuderanno il torneo da diffidati, stabilendo un vero record). Girone di ritorno a tutta velocità, con gli avversari sbaragliati. Una stagione felice, guastata però dall’infausta finale di Champions League, persa ai rigori contro il Milan berlusconiano, a Manchester. Ma Lucianone è un uomo di mondo, sa che non tutto il male viene per nuocere: il trofeo europeo al Milan fa contenti il presidente della Lega calcio e il presidente del Consiglio dei ministri. La diarchia Juve-Milan val bene una coppa. ***
Nel mondo crollano i vecchi muri e si combattono nuove guerre, in Italia crollano i miti e si avvicendano le Repubbliche, ma nel calcio nostrano non cambia mai nulla. Passano gli anni, le ère glaciali, ma il pallone italico è fermo al mesozoico. E il padrone è più che mai lui, Luciano Moggi da Monticiano. Direttore generale della più blasonata società italiana; incontrastato boss del calciomercato, e padre del prode Alessandro (presidente della Gea World che cura gli affari di decine di calciatori di serie A, B e C); amicone del presidente della Lega calcio Adriano Galliani; culo e camicia con tanti giornalisti sportivi; santo protettore di una decina di allenatori.
Quegli allenatori che non si affidano a Lucianone – o perché non lo amano, o perché credono di poter fare da soli contando sulle proprie capacità – vanno regolarmente incontro a qualche guaio. È il caso di Arrigo Sacchi, di Carlo Mazzone, di Gigi Radice, e soprattutto degli ex azzurri Aldo Agroppi e Giancarlo De Sisti. Agroppi collaborava con Raitre e con le reti Fininvest, poi è entrato in conflitto con la Juve, e oggi deve accontentarsi di qualche comparsata su piccoli giornali e tivù locali.
De Sisti, da quando Moggi gli ha dichiarato guerra, ha dovuto smettere di fare l’allenatore: non lo ingaggiava più nessuno, e si è dovuto accontentare di fare il commentatore televisivo: «Da quando dissi che Moggi è il capo dei ladroni», ricorda, «non ho più allenato». Anche i dirigenti che hanno osato mettersi di traverso a Lucianone l’hanno pagata cara. È il caso dell’ultimo Boniperti, che ha dovuto farsi da parte; o del presidente della Roma Franco Sensi, che resiste in trincea tra mille difficoltà. Qualcun altro, più pragmatico, ha dovuto andare a Canossa – cioè a Monticiano, che non è molto distante. Il presidente del Toro Massimo Vidulich ha trovato chiuse tutte le porte del calciomercato finché, nell’estate 1998, non si è deciso a ingaggiare come dirigente Luigi Pavarese, l’ex portaborse di Moggi: e a quel punto ha trovato porte aperte, anzi spalancate. È il solito Lucianone di sempre, più potente e sfrontato che mai, fedele al motto andreottiano: «Il potere logora chi non ce l’ha». Chi ama davvero il calcio, invece, confida nel motto craxiano: «Prima o poi le volpi finiscono in pellicceria».
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