Si può dire che la criminalizzazione della protesta sia una tendenza in crescita in Europa e nel resto del mondo? Ci parli delle modalità con cui vengono represse le proteste nei diversi Stati.
Sì, credo sia una tendenza in crescita. Non ho nessun dato quantitativo in merito, ma ci sono diversi segnali. Stiamo assistendo a una crescente criminalizzazione della protesta nei regimi “ibridi”, ma anche nei Paesi democratici. Nei regimi ibridi, alcuni Stati si muovono sempre più verso la repressione. La Turchia è un esempio. L’Ungheria un altro – la criminalizzazione della protesta si è sviluppata molto rapidamente in questi Paesi, sia attraverso la creazione di nuovi reati che con il ricorso del sistema legale a misure estremamente datate. In Turchia, il tentato colpo di stato [nel 2016] viene costantemente sfruttato come una scusa per irrigidire la repressione sulla base di presunti contatti con i golpisti; e i dispositivi repressivi hanno trovato larga applicazione contro giornalisti e attivisti. Abbiamo condotto alcune ricerche sui gruppi che supportano i rifugiati; queste associazioni sono generalmente piuttosto moderati nelle loro rivendicazioni, eppure le organizzazioni di beneficienza hanno sempre meno possibilità di fare volontariato. La repressione assume tratti meno espliciti in Ungheria invece, dove ci si muove più che altro sulla pubblica stigmatizzazione, con ONG accusate di essere finanziate da Soros, di agire contro l’Ungheria etc. È impressionante che quest’aumento della criminalizzazione persino di azioni di volontariato si stia sviluppando così velocemente, anche in sistemi democratici. Nel Regno Unito, “crimini” come dormire all’aperto sono stati imputati contro i migranti per espellerli. I dati raccolti dalle ONG invece sono stati usati in modo improprio. Nei Paesi mediterranei, ONG come la Jugend Rettet o anche Save the Children sono state accusate di soccorrere i migranti e di facilitare il traffico clandestino di essere umani; alcuni attivisti stanno subendo un processo. E alcuni dispositivi legali, originariamente previsti per tipologie di reato molto diverse, sono ora volti contro manifestanti pacifici o attività politiche. Prenda in considerazione anche la reazione ai recenti moti di disobbedienza civile in Catalogna, dove cittadini che stavano agendo pacificamente sono state tradotti in carcere. Il governo ha provato a giustificare la risposta violenta della polizia contro i Catalani che il primo di ottobre si erano recati alle urne accusandoli di sedizione e ribellione. Al momento, anche negli Stati Uniti c’è un enorme dispiego di forze coercitive contro le opposizioni, con movimenti neonati come Black Lives Matter soggetti a brutali forme di repressione. In più, il terrorismo e altre forme di violenza politica vengono usate per giustificare il massiccio ricorso allo stato di sorveglianza nei confronti di attivisti e cittadini. I poteri della polizia di frontiera di controllare i nostri telefoni e i nostri computer – anche se non siamo stati accusati di nulla – sono drammaticamente aumentati.
Le leggi anti-terrorismo e la crisi dei rifugiati sono stati usati dagli Stati come forma di repressione nei confronti di movimenti di protesta e sociali. Si può parlare in questo caso di una strategia ideologica da parte di alcuni Stati?
Credo ci sia, da un certo punto di vista, una strategia. C’è sempre la tendenza da parte della polizia a domandare più potere, e da parte delle commissioni per l’ordine pubblico a individuare una soluzione ai problemi nell’aumento della repressione. Siamo di fronte a una strumentalizzazione da parte di alcuni; altri credono che stiamo attraversando sfide tali da rendere necessaria la riduzione delle libertà civili. È sicuramente il caso delle leggi e dei provvedimenti originariamente sviluppati per combattere il terrorismo, ora applicati su larga scala contro l’attivismo politico e i movimenti sociali. Prenda ad esempio le proteste contro il G20 ad Amburgo [luglio 2017], dove la polizia è intervenuta molto violentemente, ricorrendo alla forza per disperdere manifestanti pacifici. Si pensi poi al modo in cui la responsabilità delle violenze commesse invece da piccoli gruppi di contestatori è stata fatta ricadere sugli stessi manifestanti, e addirittura sulle ONG. La polizia è sempre più armata, in stile Robocop, e ricorre sempre più ad azioni coercitive in maniera non appropriata per perseguitare proteste legali, pacifiche, non violente. Quando la legittimità dei governi è contestata, invece di reagire tentando di capire qual è la posta in gioco e provando a concepire nuove strategie per comunicare con chi protesta, si verifica al contrario una chiusura sempre più stretta dei canali di negoziazione. È stato estremamente chiaro durante il summit del G20, che ha rappresentato una sfida imponente alla legittimità del potere dei 20 leader ad Amburgo. La loro risposta è stata di negare qualunque diritto di criticare. Allo stesso modo, credo che anche nelle situazioni di più ampia crisi di legittimazione, la tendenza da parte delle istituzioni – invece di riflettere su una soluzione ai problemi – sia stata di negare l’esistenza di qualsiasi problema, e di zittire qualsiasi canale per dialogare con i manifestanti. Questa tendenza è aumentata sin dalla crisi finanziaria del 2008. Quello che è andato crescendo ancor di più con l’ondata di rifugiati è una spinta a destra, che ha convinto i partiti di centro-destra, ma anche quelli di centro-sinistra, che avevano più bisogno di politiche repressive di questo genere. E così, in Germania, non c’era nessun partito – eccezion fatta per Die Linke – intenzionato a capire cosa fosse andato storto nell’interazione tra polizia e manifestanti ad Amburgo. In Spagna, il partito socialista sta votando insieme ai partiti di centro-destra a favore dell’articolo 155, che interessa anche i movimenti pacifici. Negli Stati Uniti, a partire dall’11 settembre, è stato sviluppato uno spettro crescente di leggi e disposizioni legali, che si è rivelato essere davvero di scarso rilievo nella lotta contro il terrorismo, ma che viene invece ampiamente utilizzato per reprimere l’attivismo.
Quali sono le varie forze in gioco in questa crescente repressione della protesta, condotta soprattutto attraverso il ricorso a leggi anti-terrorismo? Qual è il ruolo della magistratura?
Ci sono parecchie nuove leggi che riguardano crimini legati al terrorismo e ci sono ancor più leggi e regolamentazioni che conferiscono più poteri – più poteri arbitrari – alla polizia. Poteri cui si è fatto ampio ricorso anche durante le proteste contro l’austerity, si pensi ai movimenti Occupy. O ancora, leggi più vecchie – per esempio normative legate all’uso di fuochi in luoghi pubblici, o contro i senzatetto – sono state riesumate. Si ricorda forse che durante Occupy Wall Street, a New York, furono fatte valere leggi che proibivano alle persone di lasciare per terra le proprie borse nei parchi pubblici? Tutto questo è stato peraltro condotto in maniera estremamente violenta; gli Stati hanno creato una situazione per cui l’uso di spazi pubblici, di piazze, di parchi etc. è diventato sempre più controllato, sempre meno libero. La magistratura è intervenuta in diversi modi. In alcuni casi difendendo il diritto di manifestare, in altri ricorrendo invece a questi dispositivi giudiziari contro i manifestanti. Lei avrà seguito le vicende in Catalogna, dove si sono fronteggiate due diverse corti con due diverse politiche. La Corte Suprema è più indipendente rispetto ai poteri politici, mentre l’Audencia Nacional, un adattamento dei tribunali speciali franchisti, è stato un’organo particolarmente attivo nella repressione dei movimenti indipendentisti. Questa situazione, la spaccatura all’interno del potere giudiziario, si ripropone anche in altri Paesi. In alcuni Stati esistono associazioni di giudici democratici che stanno lottando per il varo di leggi che permettano di controllare e controbilanciare la brutalità della polizia. In Italia, nel giro di poche settimane, sono stata invitata da alcuni giudici a partecipare a una discussione sulla tortura condotta dalle forze di polizia, una pratica frequente su suolo italiano nell’ultimo periodo. Così come è capace di essere un agente di repressione, la magistratura ha talvolta introdotto dei fattori di controllo sulla repressione. In ogni caso, il processo di criminalizzazione non dipende necessariamente dalla magistratura, come dimostrano i casi di arresti da parte della polizia non convalidati dai giudici, che hanno poi proceduto con la liberazione dei manifestanti. Ma, nel frattempo, le manifestazioni sono state disperse, sono state prodotte escalation, diverse persone sono state arrestate etc.
Può parlarci meglio della sorveglianza di Stato/stato di sorveglianza sulle proteste e del modo in cui contribuisce all’aumento della repressione e della criminalizzazione? Cosa può dirci del ruolo delle forze di sicurezza privata?
Questo è un altro problema di rilevanza sempre crescente, e di recente nel Regno Unito si è assistito ad alcuni scandali, una serie di nuovi scandali, legati al ricorso massiccio di infiltrati delle forze di polizia, senza nessuna responsabilità politica. Ci sono diversi tipi di forze di polizia private/segrete nei diversi Paesi. Molto spesso, fanno parte dei servizi segreti, e in tal caso sono controllate dal governo. In genere, ciascun Paese ha servizi segreti per gli affari esteri e servizi segreti per quelli interni. Questi ultimi – così come i corpi segreti all’interno delle forze dell’ordine – hanno applicato spesso strategie d’infiltrazione, anche in caso di gruppi pacifici. (Poco tempo fa c’è stato, nel regno Unito, un certi dibattito su un agente segreto infiltrato in un gruppo ambientalista). E si tratta di un dispositivo che sta aumentando vertiginosamente. La sicurezza privata sta assumendo tratti sempre più problematici dal momento che, anche nei Paesi democratici, stanno aumentando gli spazi semi o completamente privati. E così, centri commerciali, aeroporti, scuole, università…sono tutti spazi in cui il controllo della legalità e dell’ordine pubblico sono spesso delegati a guardie private. Lo stesso può accadere nelle fabbriche o nei negozi, e così via. In questi casi, le responsabilità sono inferiori rispetto a quelle della polizia di Stato. La polizia privata risponde ad aziende private. Nulla di nuovo, è sempre stato così in passato. Ricordo la repressione del movimento sindacale in Italia. La Fiat, per esempio, aveva un corpo interno di guardie private che funzionava come dispositivo anti-sindacato. Fu un fenomeno duramente contrastato, e in alcuni casi la polizia privata scomparve, ma io credo stia nuovamente aumentando. Nella maggior parte dei casi, queste forze di sicurezza private, e talvolta violente, vengono usate contro soggetti che hanno pochissime possibilità di difendersi, in particolare rifugiati e immigrati clandestini. In effetti, anche questi casi sono da ascrivere tra i fenomeni di repressione dell’attivismo politico.
Quali sono i segnali del pericolo incombente cui dovremmo prestare più attenzione/che dovremmo ricercare?
La criminalizzazione delle proteste potrebbe avere due tipi di effetti, entrambi pericolosi per il sistema politico. Anzitutto, la criminalizzazione potrebbe concludersi con successo, diffondendo la paura tra le persone. E quando le persone sono spaventate da un regime, generalmente le proteste si fanno più radicali, perché giustamente i cittadini intuiscono che è venuto meno lo spazio per la resistenza pacifica. Allo stesso tempo, il processo di criminalizzazione riduce la capacità dei governi di raccogliere informazioni sulle varie istanze e di trovare nuove alleanze per risolvere i problemi. Le azioni di protesta producono molto spesso idee positive, che costruiscono vere proposte; le proteste rinsaldano i legami tra le persone, e questo conduce al mutuo sostegno, alla solidarietà e via dicendo. Nei fatti, la sollevazione collettiva produce effetti positivi in termini di solidarietà, cosa che un approccio repressivo non permetterebbe di sviluppare. Se la criminalizzazione della protesta non è efficace – si pensi alla Primavera Araba del 2011 – allora ecco che anche la classe dirigente rischia una forte radicalizzazione degli obbiettivi delle rivolte. E così si procederà verso una legittimità sempre minore per le istituzioni rappresentative, per la polizia, i partiti politici etc., cosicché questi contribuiranno alla sorta di crescente sfiducia nei confronti di queste istituzioni e si trasformeranno in qualcosa di diverso. Può anche verificarsi uno sviluppo positivo, ma come dimostra la situazione in Catalogna, A un certo punto, c’è bisogno di un’interazione tra chi controlla i poteri coercitivi e i movimenti. C’è bisogno di interagire con gli outsiders; le escalation non sono il modo migliore per convincere le persone a sostenere le loro posizioni.
Quali passi possiamo provare a compiere nel tentativo di invertire la rotta verso la criminalizzazione della protesta e verso le reazioni repressive degli Stati? Dunque, personalmente ritengo che per interrompere questa tendenza occorra costruire coalizioni allargate, perché i diversi organi implicati nella criminalizzazione non sono omogenei. Pertanto, dal punto di vista legale, credo che sia necessario fare pressione su diversi livelli – su piano nazionale, ma anche europeo – per sviluppare denunce specifiche per queste forme di repressione, e all’interno delle istituzioni sfruttare tutti gli strumenti che possono portare sostegno e alleanze. C’è di base una tendenza, da parte della polizia, ad allinearsi con la destra, ma ci sono anche sindacati democratici tra la polizia, e ci sono unità e poliziotti meno disposti alla repressione. Ci sono state denunce dall’interno della polizia, c’è chi si sta battendo contro l’uso di alcune forme di controllo legale contro i manifestanti. La magistratura è divisa. Ecco perché credo sia necessario sfruttare tutte queste situazioni. Gruppi come State Watch hanno accumulato ottime competenze, così come altri, le cui campagne si concentrano specificamente sulle libertà civili. E penso che raccogliere e diffondere informazioni, usare il giornalismo d’inchiesta, siano tutti mezzi estremamente utili. La repressione sta colpendo molto duramente le università, in particolare nei Paesi considerati un ibrido tra regimi democratici e totalitari. Ma anche in questi casi, non mancano sacche di resistenza nel mondo accademico che diffondono informazioni sulla repressione della libertà d’insegnamento, di ricerca e così via. Questo mi fa pensare a quando i gruppi a sostegno dei diritti civili si sono mobilitati contro le pratiche repressive in Cile ed Argentina; l’effetto immediato fu di allargare il range di gruppi impegnati attraverso reti di avvocati, giornalisti e giudici democratici, ONG, e facendo pressione sugli Stati Uniti. Ci fu anche un grande lavoro mediatico. Tutte queste reazioni erano parte di una campagna internazionale intenzionata a produrre un effetto boomerang contro la dittatura. Dovremmo anche ricorrere a risorse disponibili nei Paesi democratici per sostenere gli Stati in cui la repressione sta agendo in maniera più violenta al momento. Così, per esempio, in Turchia e Ungheria potremmo sfruttare risorse esterne, campagne transnazionali di sostegno; come la campagna nata in supporto dei Turkish Academics for Peace o per la Central European University in Ungheria. |