«Sono passata attraverso il vento del deserto in Libia, sono quasi morta senza vestiti e medicine ma Dio mi ha aiutato e non sono morta in Libia né nel mar Mediterraneo. Dovrò morire di freddo in una prigione italiana?». Questo è l’urlo di dolore di una donna immigrata, scampata dalla lunga e tortuosa traversata del deserto e del mare per raggiungere l’Italia, ma che rischia di morire nelle nostre patrie galere.
A raccogliere la denuncia di questa detenuta è stata l’associazione Yairaiha Onlus, nata nel 2006 con fini esclusivamente di solidarietà sociale. In particolare si pone come obiettivi primari la tutela e la difesa dei diritti umani con particolare attenzione a quelli della popolazione sottoposta a limitazione della libertà e dei minori migranti non accompagnati.
La breve lettera* che pubblichiamo è stata inviata da questa donna a una amica. Una detenuta che era stata trasportata di urgenza all’ospedale perché in cella perdeva tantissimo sangue e operata di fibroma. Dopo l’operazione fu riportata in carcere, tremante di freddo e senza cure. Sandra Berardi, la presidente dell’associazione Yairaiha, spiega a il Dubbio che «la storia di R. ( l’iniziale del nome, ndr) è una storia tra le tante, troppe, che si verificano nelle carceri d’Italia. Leggere il suo grido d’aiuto nel giorno in cui le donne di tutto il mondo scendono in piazza per rivendicare diritti e uguaglianza amplifica ulteriormente le violenze che si consumano sulla pelle delle donne». La presidente dell’associazione spiega che «R. è una donna nigeriana detenuta a Bancali ( il famigerato carcere di Sassari, ben più noto per la sezione di 41 bis più dura di tutte in Italia), che lancia la sua richiesta di aiuto a l’unica amica che ha in terra sarda.
Nessun parente che faccia un colloquio, l’avvocato non può andare a trovarla. Dopo diversi giorni di emorragia viene portata in ospedale, per prima cosa le devono fare una trasfusione ( ben 7 sacche!), il 27 febbraio viene operata di un fibrosua ma all’utero e dopo due giorni viene riportata in cella senza nessuna assistenza né terapia! Dopo aver attraversato il deserto libico e il Mediterraneo, teme di morire in carcere, in Italia, la terra dei suoi sogni. Auspichiamo che il Garante sia già intervenuto per garantirle le cure adeguate». Sandra Berardi spiega che di solito non pubblicano mai le storie dei singoli detenuti per i quali intervengono, sia per privacy sia per proteggerli, ma questa storia «non poteva essere taciuta perché emblematica della condizione delle donne detenute che viene spesso sottovalutata, forse perché ( fortunatamente) in misura nettamente inferiore rispetto alla popolazione maschile» .
L’associazione Yairaiha ha segnalato alle istituzioni, Garante compreso, diverse situazione analoghe legate alla salute. Sandra Berardi cita il caso di un morto per clostridium difficilis ( Michele Rotella) e un malato terminale, Antonio Verde, per un tumore al pancreas che invece veniva trattato come una gastroenterite, a cui sono riusciti a far sospendere la pena per andare a morire a casa anziché piantonato in ospedale ( entrambi nel carcere di Siano nel 2016 a distanza di un mese). «Ma le loro morti – spiega la presidente dell’associazione – sono state determinate da malasanità penitenziaria, causando l’irreversibilità delle rispettive patologie». L’altro caso sempre segnalato dall’associazione riguarda l’uomo con gravi problemi psichiatrici che è stato tenuto in isolamento totale per oltre 6 anni nel carcere di Voghera in condizioni disumane. «Anche su questo caso – spiega Sandra Berardi – c’è una relazione dettagliata del Garante che in altri paesi avrebbe prodotto dimissioni dei vertici dell’amministrazione penitenziaria. In Italia solo il trasferimento temporaneo in altra struttura “adeguata” del detenuto in questione».
La presidente dell’associazione Yairaiha spiega che c’è anche un altro caso del quale ancora non si è parlato pubblicamente. «È relativo a un uomo – denuncia Sandra Berardi – che per due anni è stato completamente ignorato dai medici penitenziari al punto che quando si rivolgeva ai medici lamentando dolori atroci gli veniva risposto testualmente “vai a fare una partite a carte che ti passa tutto! ”, quando lo portarono in ospedale aveva tutti gli organi in metastasi, gli diedero dai tre ai sei mesi di vita. Morì dopo un mese. Aveva 50 anni e mezza vita d’avanti. Anche lui – conclude amaramente la presidente dell’associazione – non rientrerà nelle statistiche dei morti in carcere. È in corso la denuncia dei familiari, ci costituiremo parte civile». |