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“Ho perso un occhio durante uno sgombero della polizia”. La storia di Mustafà

 

FONTE:tpi.it

 

Il 21 marzo 2018 è stato sgomberato uno stabile in via di Vannina, a Roma, occupato da migranti e rifugiati che vivevano in condizioni precarie: la storia di Mustafà

 

“In Libia è stato terribile, ma è in Italia che ho perso un occhio. E non me lo sarei mai aspettato”. Mustafà è un giovane rifugiato del Gambia. Il 12 giugno 2017 si trova a via di Vannina 78, dietro la stazione Tiburtina, a Roma, in un edificio occupato da migranti provenienti da Congo, Gambia, Ghana, Guinea Conakry, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo.
Qualche giorno prima, l’8 giugno, una violenta operazione di sgombero ha riguardato a via di Vannina sia il civico 74 sia il 78, a quei tempi occupati da circa 500 persone che vivono in condizioni estremamente precarie.
Dopo questo primo sgombero, il capannone al civico 74 rientra in possesso dei proprietari, e le circa duecento persone che vivono al suo interno si spostano al civico 78.
Quattro giorni dopo, il 12 giugno, la polizia interviene per procedere a un nuovo sgombero dell’edificio.
Secondo l’associazione Alterego – Fabbrica dei diritti, che forniva assistenza legale ai migranti a via di Vannina, entrambi gli sgomberi sono effettuati senza alcun preavviso e senza la presenza della Sala Operativa Sociale (S.O.S.) del comune di Roma, nonostante l’ente abbia sostenuto il contrario.
“Nessuna presa in carico è stata fatta delle persone sgomberate”, conferma a TPI Federica Borlizzi di Alterego, “nonostante tra queste vi fossero anche nuclei familiari con minori di uno o due anni, giovani donne, anziani e malati”.
Lo sgombero di via di Vannina 78, pur non avendo la risonanza di quello avvenuto a via Curtatone ad agosto 2017, è caratterizzato da momenti di violenza.

La storia di Mustafà
Prima di arrivare a Roma, Mustafà ha vissuto in Libia e ha attraversato il Mediterraneo.
Una volta uscito dal circuito dell’accoglienza in Sicilia, ha sperimentato lo sfruttamento nei campi di Rosarno, in Calabria. Su quel periodo non spende molte parole “è stata una parte troppo difficile”, dice. “I miei amici che sono ancora a Rosarno vivono molto male”.
“In Libia non stavo bene, non ero tranquillo”, racconta Mustafà. “Ogni giorno potevano venire a prenderti: quella non era polizia, erano criminali. Lì pensavamo che l’Italia fosse un paese libero, dove c’era umanità. Ma se c’è umanità a via Vannina non esiste”.
Dopo essere arrivato dalla Calabria a Roma, Mustafà dorme per due notti alla stazione Tiburtina, prima che un connazionale gli parli di via Vannina. Se non vuole continuare a dormire per strada, non ha scelta: così si stabilisce anche lui in quel capannone occupato e inizia a lavorare distribuendo volantini.
Nel frattempo, si rende conto che la vita in Italia non è come pensava.
“Davanti alle altre persone noi non siamo esseri umani. Siamo vivi, stiamo in piedi, ma non siamo altre persone”, dice Mustafà, “Eppure noi siamo innocenti”.
Quel 12 giugno, quando arriva la polizia, Mustafà capisce che non è uno sgombero normale. “I poliziotti erano armati, perché pensavano che noi avessimo le armi, invece noi non avevamo niente”.
All’arrivo della polizia, i migranti, alcuni dei quali sono anche piccoli spacciatori, si danno alla fuga. Un amico di Mustafà, che salta da un piano, si fa male a una mano.
I poliziotti, secondo il racconto di Mustafà, intervengono picchiando alcuni di loro. “Perché lo fate?”, chiede lui, che riesce a farsi capire in italiano. “Stiamo controllando”, si sente rispondere. “Ma non si controlla così”, dice lui.
Poiché Mustafà parla diverse lingue, comincia a dire agli altri migranti di non scappare, di tornare, perché i poliziotti stanno solo controllando.
Proprio in quel momento, mentre sta facendo questa traduzione, un poliziotto lo colpisce con il manganello sul volto e Mustafà cade a terra.
“In quel momento, davvero, ho avuto troppo male”, racconta. “Mentre ero a terra mi hanno colpito di nuovo, io mi sono alzato e in quel momento avrei potuto fare un casino, e farmi ammazzare. Avrei voluto morire”.
Nonostante Mustafà dica ai poliziotti che si sente male, che gli gira la testa e che ha bisogno di andare in ospedale, viene prima condotto in questura e trattenuto per un’ora.
Una volta arrivato in ospedale, gli dicono che per il suo occhio destro non c’è nulla da fare, ha perso la vista.
L’organizzazione internazionale Medici senza Frontiere, intervenuta a via di Vannina a luglio 2017, riscontra sette casi con esiti da trauma, tutti collegati allo sgombero. Quattro persone hanno fatto ricorso alle cure nei presidi ospedalieri con vari tipi di ferite, quello di Mustafà è il caso più grave.

Lo sgombero del 21 marzo
Dopo questi fatti, via di Vannina torna ad essere occupata fino al 21 marzo 2018, quando, a nove mesi di distanza, c’è un nuovo sgombero.
Anche stavolta, come riferiscono le associazioni Alterego e A Buon Diritto, i cui operatori giungono sul posto circa un’ora dopo l’inizio dello sgombero, l’operazione avviene senza la presenza della Sala Operativa Sociale (S.O.S.) e senza alcuna possibile alternativa di dimora per le persone sgomberate.
“Lo sgombero del 21 marzo è stato compiuto in violazione della normativa vigente”, sostiene Federica Borlizzi. “Dopo lo sgombero di via Curtatone di agosto 2017, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare datata primo settembre in cui si forniscono indicazioni ai prefetti sulle modalità in cui gli sgomberi di occupazioni abitative devono avvenire”.
“In questa circolare si stabilisce che nel pianificare gli interventi di sgombero e nel bilanciamento degli interessi contrapposti, l’autorità deve privilegiare l’interesse dei soggetti portatori di fragilità”, prosegue. “Inoltre questa circolare definisce imprescindibile il coinvolgimento da parte del Prefetto degli enti locali e delle regioni, ma anche delle associazioni attive nel sociale, in una fase preventiva, per prendere informazioni sulle condizioni delle strutture da sgomberare. A nostro avviso tutte queste norme sono state disattese”.
Sabato 21 aprile 2018, esattamente un mese dopo l’ultimo sgombero, le associazioni di assistenza ai migranti che operavano a via di Vannina si sono ritrovate a Casetta Rossa, Garbatella, per fare il punto della situazione e per presentare il rapporto Uscire dal ghetto, sulle attività legali, sanitarie e di orientamento lavorativo svolte a via di Vannina 78.
Oltre alle associazioni Alterego e A Buon Diritto, che si sono occupate dell’assistenza legale, al rapporto hanno lavorato anche Medu (Medici per i diritti umani) per l’assistenza sanitaria, la cooperativa sociale BeFree contro la tratta, e Women’s international league for peace and freedom (WILPF), la lega internazionale delle donne per la pace e per la libertà, che si è occupata di offrire assistenza al lavoro.
“Ci troviamo di fronte a una politica deliberata di creazione di ghetti in cui vivono queste persone”, sostiene Valentina Calderone di A Buon Diritto. “In riferimento allo sgombero del 21 marzo, la Prefettura ci ha fatto sapere in modo informale che per loro non si è trattato di uno sgombero, ma di una operazione di identificazione, e che le persone si sono allontanate volontariamente. Abbiamo chiesto l’accesso agli atti per capirne di più”.

L’ex fabbrica di penicillina
L’assenza di alternative abitative dopo l’ultimo sgombero ha comportato che la maggior parte delle circa cento persone rimaste a via di Vannina si siano spostate in un altro ghetto della zona: l’enorme ex fabbrica di penicillina a via Tiburtina 1040, dove già vivono circa cinquecento persone secondo il rapporto “Fuori Campo” di Medici Senza Frontiere.
L’ex fabbrica presenta delle condizioni igienico-sanitarie molto difficili, a causa della presenza di amianto, residui chimici e rifiuti speciali abbandonati. A questo si aggiungono i frequenti roghi all’interno dello stabile.
Data la difficile e pericolosa situazione che si è venuta a creare nell’ex fabbrica, le associazioni chiedono di essere sentite prima possibile dal Comitato dell’Area Metropolitana di Roma Capitale, per presentare la propria relazione, e di essere informate dei lavori svolti dalla Cabina di regia presso il ministero degli Interni per capire se è possibile trovare una soluzione alloggiativa per le persone attualmente presenti nell’ex fabbrica.
“Siamo davanti a delle favelas, dove le persone non hanno scelto di vivere, ma si sono trovate costrette a vivere per una serie di fattori”, dice Federica Borlizzi. “Come associazioni noi abbiamo provato a denunciare da tempo e a interfacciarci con le istituzioni, ma non è stato predisposto di fatto alcun intervento sociale. Abbiamo visto solo una risposta repressiva, con l’ultimo e definitivo sgombero del 21 marzo”.
La situazione dell’ex fabbrica, sebbene particolarmente grave per le condizioni igienico sanitarie, non è l’unico insediamento informale a Roma da parte di migranti.
L’organizzazione Medici Senza Frontiere ha una clinica mobile che agisce in cinque di questi insediamenti, ma ha mappato 19 insediamenti per un totale di circa 3mila persone.

Il problema della residenza
Uno dei problemi principali per le centinaia di migranti regolari, cioè dotati di permesso di soggiorno, che vivono nei ghetti come quello di via di Vannina e quello dell’ex fabbrica, è la questione della residenza.
Avere un indirizzo di residenza è infatti fondamentale per accedere a servizi come l’iscrizione al Sistema sanitario nazionale o presso i Centri per l’impiego.
Un cittadino extracomunitario può chiedere l’iscrizione anagrafica in un comune, e quindi avere la residenza in quel comune, se ha un permesso di soggiorno in corso di validità.
Nel caso in cui si tratti di una persona senza fissa dimora, viene assegnato un indirizzo virtuale, che a Roma è quello di “via Modesta Valenti”. Il nome utilizzato appartiene a una donna senza fissa dimora che morì nella Capitale nel 1983, dopo che si era sentita male e che gli operatori di un’ambulanza accorsa sul posto avevano deciso di non prestarle soccorso.
Fino a marzo 2017 la procedura di iscrizione a via Modesta Valenti era svolta da cinque associazioni che operavano nel sociale, ma con la delibera 31 del 2017, la giunta Capitolina ha deciso di affidare questo compito ai singoli municipi.
La procedura introdotta dalla delibera, tuttavia, si dimostra complessa e richiede un periodo di tempo tra i tre e i cinque mesi.
Questo è particolarmente grave nel caso dei migranti, perché la Questura di Roma – Ufficio Immigrazione, per rinnovare il permesso di soggiorno richiede un indirizzo di residenza.
In questo modo si viene a creare un circolo vizioso per cui prima che si ottenga l’indirizzo di residenza scade il permesso di soggiorno, che non può essere rinnovato, appunto, se non si fornisce la residenza.
Questo problema ha rappresentato il principale ostacolo per le associazioni impegnate a via di Vannina, come conferma anche Marie Aude Tavoso, responsabile di Medu, che si occupa di prestare assistenza sanitaria ai migranti.
“La residenza ha iniziato ad essere richiesta spesso anche per servizi che dovrebbero essere aperti a tutti”, sottolinea Giuseppe De Mola, ricercatore e operatore umanitario di MSF Italia. “Tra questi ci sono i consultori e i SERT (Servizi per le Tossicodipendenze). Non bisogna dimenticare infatti che la dipendenza da alcol e sostanze rappresenta una problematica a cui vanno spesso incontro persone senza fissa dimora, a prescinedere dalla loro provenienza”.