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«L’ergastolo non serve a nulla Il carcere da medicina diventa malattia »

 

FONTE:il dubbio

 

Intervista a Carmelo Musumeci che ha ottenuto da Tribunale di Sorveglianza di Perugia la libertà condizionale

 

«Mi sono sentito l’uomo più felice dell’universo il giorno che mi è arrivata la telefonata dal carcere di Perugia per dirmi che devo essere scarcerato». È Carmelo Musumeci a spiegare a Il Dubbio quei momenti inaspettati visto che aveva perso ogni speranza per ottenete la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. È riuscito a creare un ponte con l’esterno, ha scritto diversi libri con prefazioni autorevoli della comunità scientifica come Margherita Hack o Umberto Veronesi. Ha intrapreso dialoghi con Agnese, la figlia di Aldo Moro. È entrato con la licenza elementare ed è uscito con tre lauree. Ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia.
Carmelo ha sempre rifiutato quest’ultima opzione. Ma perché? Nel 1990 fu vittima di un agguato teso dal clan rivale. Fu raggiunto da sei colpi di arma da fuoco, riuscì miracolosamente a salvarsi. Dopo essersi rimesso in sesto, assieme ad altri componenti della banda, organizzò la vendetta e la portò a compimento. Viene arrestato nel ‘ 91 e condannato all’ergastolo ostativo. Se solo avesse voluto, ne avrebbe fatti meno di anni. «Ma avrei messo un altro al mio posto e non me lo sarei mai perdonato», spiega Musumeci. Due anni fa aveva ottenuto la “collaborazione impossibile”: i reati per cui è stato arrestato, infatti, erano finiti in prescrizione.
Fare i nomi non sarebbe comunque più servito. Così era riuscito ad ottenere la semilibertà. Oggi, finalmente, è in libertà condizionale grazie alla tenacia del suo avvocato Carlo Fiorio, un professore straordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Perugia che fu anche relatore della tesi di laurea di Musumeci proprio sull’ergastolo ostativo che non a caso era intitolata “la pena di morte viva”.

La scarcerazione è stata una notizia inaspettata?

Il passo successivo alla semilibertà, ottenuta due anni fa, è l’ottenimento della libertà condizionale. Ho provato a fare l’istanza già due volte, e tutte e due è stata rinviata soprattutto per un ostacolo.

Quale?

Il risarcimento. È uno dei requisiti per ottenere la liberazione anticipata. Per rimuovere quell’ostacolo ho dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che avevo ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ho subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Sì, lo so, è paradossale che da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ho fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento con- creto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che mi spettavano.

Ora lei vivrà in libertà, ma per cinque anni a determinate condizioni. Come si vede proiettato nel futuro?

Sì, ovviamente in questi cinque anni dovrò firmare un giorno a settimana alla caserma dei carabinieri di Bevagna ( comune della provincia di Perugia ndr.), non mi posso ovviamente allontanare dalla provincia, posso uscire al mattino alle 6 e rientrare alle 10. Non è una libertà piena, ma finalmente vivo fuori dal carcere e dimoro presso la comunità Papa Giovanni XIII di don Benzi. In questi cinque anni continuerò a fare il volontariato presso la comunità e lo faccio ben volentieri perché è un modo anche per rimediare al male causato facendo del bene. Finiti i cinque anni, l’ergastolo sarà estinto e in quel momento chiederò la riabilitazione per poi – è il mio sogno – aprire uno studio legale che si occupi dell’esecuzione penale. Il mio scopo è quello di continuare ad aiutare – questa volta fuori dalle mura – soprattutto gli ergastolani che sono dentro fin da quando erano giovanissimi.

Facciamo un enorme passo indietro. Lei è entrato in carcere nel ‘ 91. Come ha acquisito la coscienza che l’ha portata a intraprendere la battaglia contro l’ergastolo?

Deve sapere che ero un delinquente anomalo. Fin da giovane ero un ribelle, simpatizzavo per la sinistra ed ero molto vicino agli ideali anarchici. Ma a causa di certe condizioni ambientali ero finito per fare il delinquente. Dal momento che mi hanno dato l’ergastolo è scattato un meccanismo mentale paradossale. “Finalmente posso essere me stesso perché non ho nulla da perdere visto che la società mi ha condannato ad essere colpevole per sempre”, mi dicevo. Da lì che è cominciata una mia crescita interiore. Ma essere se stessi, in carcere la paghi cara.

Perché?

Se studi, ti arricchisci, cominci ad acquisire strumenti che ti permettono di riconoscere i propri diritti, ti scontri inevitabilmente con l’istituzione carceraria. Anche per questo motivo, per me, furono anni duri, difficili, venivo spesso punito perché facevo istanze, reclami, chiedevo ai parlamentari di entrare in carcere per fargli comprendere quello che accadeva, soprattutto all’Asinara. Ma mi sono dovuto scontrare anche con i miei compagni.

Quindi lei si scontrava anche con i detenuti?

Sì. Molti di loro entravano in carcere già “istituzionalizzati”. Non dallo Stato, ma dalla cultura mafiosa che è volta all’ubbidienza e all’ordine. Mi ritrovai a scontrarmi con alcuni boss mafiosi, perché io pretendevo che ci ribellassimo tutti insieme alle torture che subivamo all’Asinara. Loro invece no, rispondevano che avrebbero subito le umiliazioni e torture a testa alta. Io pur essendo stato un delinquente, avevo acquisito una coscienza ribelle durante le sommosse degli anni 70 che avvenivano anche negli istituti penali minorili. Deve sapere che a 15 anni mi sono fatto il primo carcere: il minorile di Marassi per una rapina in un ufficio postale. Noi stavamo al piano terra, i maggiorenni al primo piano. Uscii peggio di prima. A 16 anni rapinai una bisca clandestina con due amici. Poi ne sono diventato socio. E da lì è iniziata la mia carriera criminale. Ritornando al discorso del mio scontro contro tutti all’interno del carcere, erano momenti che mi ritrovai solo: sia contro la ferocia di quel tipo di Stato, sia contro quelli che rappresentavano “l’antistato”. L’atteg-giamento dei boss mafiosi, paradossalmente, convenivano alla direzione del carcere. Quando venivano i parlamentari a far visita ispettiva, le uniche denunce arrivavano da me e pochi altri.

A proposito di solitudine, quando è nato il primo ponte con l’esterno, soprattutto per rendere visibili le sue battaglie contro l’ergastolo ostativo?

I primi furono gli anarchici che dimostravano solidarietà fuori dal carcere di Spoleto o di Nuoro. Attraverso volantini e comunicati pubblicati tramite internet davano voce agli scioperi della fame degli ergastolani che organizzavo. Ero isolato da tutti e da tutto. Quindi gli devo molto. E poi pian piano sono riuscito a crearmi delle relazioni con altre personalità del mondo libero.

La svolta è stata il suo contatto con un’associazione cattolica.

Sì, la comunità Papa Giovanni XIII di don Oreste Benzi. Parliamo del 2007 e tutto nacque con un incontro. Pensi che io ero – e lo sono tuttora – un ateo convinto e avevo dei pregiudizi nei confronti dei cattolici. Li consideravo dei “buoni” che andavano a messa e prendevano la comunione. Tutto lì. Era il periodo che provocatoriamente avevamo raccolto petizioni per chiedere di tramutare l’ergastolo ostativo in pena di morte. Quel giorno, al carcere di Spoleto, organizzammo un convegno e si presentò don Oreste Benzi. Lo sfidai ad appoggiare lo sciopero della fame promosso da ergastolani mafiosi. Io, che dei preti non mi fidavo, pensavo che avrebbe risposto di no, invece mi spiazzò perché, sorridendo, accettò immediatamente. Assieme a lui c’erano altri membri della comunità come Nadia Bizzotto, e don Benzi disse loro di appoggiarci e seguirci. Fu lì che si realizzò un grande ponte verso la società esterna e nello stesso tempo, per la prima volta, mi sentii davvero un “colpevole”. Questo accade quando una parte della società ti prende in considerazione e vuole aiutarti nonostante il danno che hai causato.

Lei dice che l’ergastolo è inutile perché è “pena di morte viva”, però lei alla fine ce l’ha fatta a liberarsi.

L’ergastolo non serve a nulla. Se non hai la speranza di uscire prima o poi, ti dimentichi di essere colpevole e ti ritieni una vittima. Il carcere all’inizio dovrebbe essere una medicina ma a lungo andare diventa una malattia. Io sono un caso eccezionale, ma che conferma la regola. Voglio dire agli ergastolani che sono entrati a 19 anni e sono invecchiati dentro quelle mura che devono lottare, non devono delegare, ma combattere in prima persona partendo dall’istruzione, la lettura dei libri, acquisire una coscienza e liberarsi anche da quell’idea che loro si sentono meno colpevoli di tanti altri detenuti che magari hanno commesso altre atrocità. Ci vuole un cambiamento culturale anche tra i detenuti, non solo dall’alto.

Durante tutti questi anni di prigione, ha mai pensato al suicidio?

È inevitabile pensarci, soprattutto in quei momenti di sconforto, oppure quando sei in isolamento e ti tolgono tutto. Quando non vedi nessuna via di uscita, pensi di farla finita. Questa sofferenza aumenta ancora di più quando acquisisci una coscienza, ti istruisci, ti alimenti di cultura. In quel momento ti senti diverso dagli altri. Farsi la galera dopo aver acquisito una certa sensibilità, non solo soffri per te stesso, ma anche per gli altri. A volte reagivo io per loro e questo mi portava scontri con le direzioni delle carceri. Io ci ho pensato al suicidio e ricordo di averlo fatto capire alla mia compagna. Lei me lo vietò, perché mi fece capire che avrei fatto del male a lei e ai miei figli. Non sarebbe stato giusto.

 

Damiano Aliprandi