Ulteriori tagli e modifiche sostanziali nella riforma dell’ordinamento penitenziario che entrerà in vigore il prossimo 10 novembre. Emerge tra l’altro un “conflitto” tra l’esecuzione penale minorile e il decreto sicurezza recentemente approvato. Sancita l’esclusione della riforma relativa alle misure alternative alla pena e la modifica dell’articolo 4 bis che raccoglie diversi reati ( quindi non solo relativa a quelli mafiosi) dove il detenuto rimane automaticamente escluso dai benefici della pena.
Archiviata definitivamente la riforma sulla giustizia riparativa e l’affettività. Inoltre emerge un ulteriore taglio rispetto al decreto originale, ora cristallizzata sulla Gazzetta Ufficiale, che toglie l’obbligo, da parte del medico, di fotografare un detenuto che risulta pieno di lividi. Per quanto riguarda la vita lavorativa, anche in questo caso esiste una preclusione. Parliamo dei lavori di pubblica utilità dove, nero su bianco, viene indicata l’esclusione di coloro che hanno commesso il reato di associazione di stampo mafioso. “I detenuti e gli internati – così viene riportato nella Gazzetta Ufficiale – per il delitto di cui all’articolo 416- bis del codice penale e per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste non possono essere assegnati a prestare la propria attività all’esterno dell’istituto”. Quindi non solo i detenuti, ma anche gli “internati”. Ricordiamo che quest’ultimi sono coloro che hanno finito di scontare la pena, ma vengono raggiunti da una misura di sicurezza da parte del magistrato di sorveglian- Esclusi, quindi, anche loro dai lavori di pubblica utilità.
Altro taglio a sorpresa, sempre per quanto riguarda il lavoro penitenziario, è quello relativo all’aumento degli anni di liberazione anticipata a seguito del buon andamento per i lavori di pubblica utilità. Per quanto riguarda la vita detentiva, rimane esclusa anche quella parte che avrebbe garantito la tutela delle professioni di fede diverse da quella cattolica.
Parliamo della pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale n. 250 del 26 ottobre 2018, dei tre decreti relativi alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Il primo riguarda l’ordinamento penitenziario minorile, quindi l’esecuzione penale. Il secondo decreto, invece, è diviso in tre capitoli: l’assistenza sanitaria, la semplificazione dei procedimenti e la modifica in tema di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna ( Uepe) e della polizia penitenziaria. Il terzo decreto, invece, riguarda la vita detentiva e il lavoro penitenziario. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, rimane sostanzialmente invariato lo schema approvato dalle commissioni giustizia che hanno escluso, rispetto alla riforma originaria, tutto ciò che concerne la salute mentale: quindi nessuna equiparazione con quella fisica e nessuna previsione di sezioni specifiche per i detenuti che durante la detenzione si sono ammalati di patologie psichiche.
A tal proposito occorre ricordare, per quanto riguarda i problemi sanitari – e non solo – che affliggono il sistema penitenziario, c’è Rita Bernardini del Partito Radicale che è giunta al quindicesimo giorno dello sciopero della fame per aprire un dialogo con il governo, in particolare con il guardasigilli Alfonso Bonafede, affinché faccia qualcosa di concreto e, soprattutto realizzabile, per risolvere le drammatiche condizioni carcerarie. Basti pensare che siamo giunti a 51 suicidi dall’inizio dell’anno. Un trend che rischia di superare l’anno precedente che si era amaramente concluso con 52 sucidi.
Sempre per quanto riguarda il decreto sull’assistenza sanitaria, si aggiunge anche un ulteriore taglio, rispetto allo schema originale. Riguarda le detenute transessuali in fase di transizione e quindi bisognose di una continuità terapeutica. Rimane solo un richiamo generico, ovvero “Ai detenuti e agli internati è garantita la necessaria continuità con gli eventuali trattamenti in corso all’esterno o all’interno dell’istituto da cui siano stati trasferiti”. Per il resto, l’assistenza sanitaria mantiene tutto ciò che era stato elaborato originariamente, come il fatto che il medico non farà parte della commissione di disciplina e avrà quindi la libertà di chiedere l’interruzione di un eventuale situazione di isolamento che non sia compatibile con lo stato psichico fisico della persona. Oppure che i detenuti siano informati in modo completo sul proprio stato di salute.
Per quanto riguarda il lavoro penitenziario, la riforma che entrerà in vigore sicuramente evidenzia la sua importanza per la riabilitazione, promuovendo il suo carattere non afflittivo e soprattutto evidenziando il fatto che debba essere remunerato. I detenuti, in considerazione delle loro attitudini, possono essere ammessi a esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche, nell’ambito del programma di trattamento, nonché attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, anche in alternativa alla normale attività lavorativa. Di vitale interesse è il decreto per quanto riguarda i condannati minorenni e i cosiddetti “giovani adulti”, ovvero quelli al di sotto dei venticinque anni. Permane l’esclusione delle misure premiali di comunità, per coloro che rientrano nei reati contemplato dal 4 bis. Ma emerge anche un altro particolare.
Nella riforma viene criza. stallizzato che se nel corso dell’esecuzione di una condanna per reati commessi da minorenne sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva per reati commessi da maggiorenne, il pm emette l’ordine di esecuzione, lo sospende secondo quanto previsto dall’art. 656 c. p. p. e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per i minorenni. È quindi lasciata al magistrato di sorveglianza la possibilità di far proseguire l’esecuzione secondo le modalità previste per i minorenni. A tal fine l’autorità giudiziaria dovrà tener conto della gravità dei fatti oggetto di cumulo e del percorso in atto e, se il condannato ha compiuto ventuno anni, anche delle ragioni di sicurezza di cui all’art. 24 d. lgs. n. 272/ 1989.
Quindi solo alla soglia dei 21 anni il magistrato competente può decidere se applicare la legge ordinaria ( quindi l’esecuzione penale per adulti) nei casi di «particolari ragioni di sicurezza e considerando le finalità rieducative”.
Con il decreto sicurezza approvato a fine settembre, il limite dei 21 anni però passa ai 18: età in cui il giudice può decidere di privare un “giovane adulto”, come era stato definito secondo lo spirito di quella che doveva essere la riforma dell’ordinamento penitenziario, della libertà, applicando la legge ordinaria e con essa dunque escludendo dal novero le misure più prettamente rieducative, che caratterizzano la giustizia minorile in favore di quelle certamente più repressive della legge ordinaria.
C’è quindi un conflitto che genera una lacuna di certezza: ha valore il nuovo ordinamento minorile dove viene ribadito che il magistrato di sorveglianza deve tenere conto della soglia dei ventuno anni, oppure il decreto sicurezza che l’abbassa ai 18? |