Didier Fassin ha recentemente pubblicato un saggio intitolato “Punire. Una passione contemporanea”, nel quale si offre un’interessantissima riflessione: “Nell’ultimo decennio il mondo è entrato in un’era del castigo. […] In linea di principio, di fronte ai disordini vissuti da una società, alla violazione delle sue norme e all’infrazione delle sue leggi, i suoi membri si affidano a una risposta fatta di sanzioni che alla maggior parte degli individui appaiono utili e necessarie. Il crimine è il problema, e il castigo è la sua soluzione. Con il momento punitivo, è il castigo a diventare il problema. lo diventa a causa del numero di persone rinchiuse o poste sotto sorveglianza, dello scotto pagato dalle loro famiglie e comunità, del costo economico e umano che ciò determina per la collettività, della produzione e riproduzione di disuguaglianze che favorisce, della crescita della criminalità e dell’insicurezza che genera e, infine, della perdita di legittimità derivante dalla sua applicazione discriminatoria e arbitraria. Ritenuto ciò che dovrebbe proteggere la società dal crimine, il castigo appare sempre di più ciò che invece la minaccia. Il momento punitivo incarna questo paradosso”. La bontà di tale argomentazione, molto probabilmente, può essere apprezzata – anche ed a fortiori -allorquando ci si interroghi sulla compatibilità della detenzione con lo stato di salute precario di alcuni detenuti: il momento punitivo, infatti, in tali circostanze appare del tutto paradossale. È recentissima, d’altronde, la triste notizia di Ezio Prinno, un detenuto del carcere di Opera costretto ad indossare ventiquattro ore su ventiquattro un casco per evitare di procurarsi lesioni derivanti dai suoi frequenti attacchi di epilessia. La madre, intervistata da “Il Dubbio”, ha riferito parole che gettano in non poco imbarazzo gli operatori del diritto: “non mi interessano gli sconti di pena, chiedo solo che mio figlio abbia una carcerazione dignitosa”. Lo studio dell’applicazione del diritto alla salute all’interno delle carceri, infatti, spesse volte pare condurre al disvelamento di una tristissima realtà: si potrebbe dire provocatoriamente (ma non troppo) che si assiste più ad un differimento della rieducazione che della pena. Gli artt. 146 e 147 c.p., d’altronde, sembrano essere lenti dislessiche nel momento in cui consentono di osservare il detenuto perseguendo ratio tanto distinte quanto distanti: l’obbligo dell’ordinamento di eseguire le pene da un lato ed il diritto alla salute del detenuto dall’altro. Tale circostanza induce una riflessione di non poco momento: è il diritto alla salute del detenuto a dover cedere il passo a vantaggio dell’obbligo, posto in capo allo Stato, di eseguire le pene o è il contrario? L’art. 27 della Costituzione è chiaro nel rispondere a tale quesito: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Se è vero, come è vero, che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, allora, non si comprende come si possa sostenere che il detenuto debba “adattarsi” al carcere piuttosto che il carcere al detenuto. La stessa espressione “incompatibilità con il regime carcerario” tradisce, a ben vedere, una visione di tale complesso fenomeno scaturente da una prospettiva del tutto erronea: non spetta, infatti, al detenuto essere “compatibile” con il carcere ma, casomai, è il carcere a dover essere compatibile con il detenuto. In numerose ipotesi, infatti, è il regime carcerario a palesarsi come incompatibile con il detenuto. Osservare la problematica del diritto alla salute nelle carceri attraverso una prospettiva secondo la quale è il detenuto a doversi adattare al regime carcerario conduce a conclusioni che, alla fin fine, ri(con)ducono la questione alla pericolosità sociale e “secondo [le quali] per il differimento della pena detentiva è necessario che la patologia da cui è affetto il condannato sia tale da porlo in pericolo la vita o da provocare conseguenze dannose rilevanti, esigendo un trattamento terapeutico che – anche tenuto conto della pericolosità sociale del detenuto valutata comparativamente – non si possa attuare nello stato di detenzione”. La pericolosità sociale diviene, fuori dai denti, il discrimine in grado di determinare la compatibilità o meno del detenuto con il regime carcerario: troppa, infatti, la discrezionalità che un concetto sì vago getta nelle mani del magistrato di sorveglianza di turno. Al di fuori dei confini nazionali, d’altronde, le prospettive di osservazione non sembrano mutare. Si pensi, ad esempio, ad una recente pronuncia della Corte Europea secondo la quale “Il regime speciale del 41-bis, previsto dall’ordinamento italiano per fini preventivi e di sicurezza, non è contrario alla Convenzione europea. Tuttavia, le autorità nazionali devono prevedere un continuo monitoraggio e fornire un’adeguata motivazione nel caso in cui il detenuto per il quale è stato disposto tale regime si trovi in gravi condizioni di salute e abbia subito una perdita cognitiva grave”. La presenza della pericolosità sociale, in sintesi, garantisce sempre e comunque la compatibilità del detenuto con il regime carcerario ma, a contrario, non garantisce quasi mai la compatibilità del regime carcerario con le condizioni psico-fisiche del carcerato. È per tale motivo che si potrebbe dire che all’interno delle carceri italiane si assiste assai più facilmente ad un differimento della rieducazione piuttosto che della pena. La rieducazione, ai sensi della l. 354 del 19756 , dovrebbe attuarsi secondo un trattamento che “tende, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale e [dovrebbe essere] attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati”. Tale affermazione, ictu oculi, sembra ipotizzare una pena del tutto dissimile dal carcere e, purtuttavia, è noto che “l’interesse per i contenuti della rieducazione storicamente si accompagna, almeno nell’epoca moderna, al progressivo affermarsi della pena detentiva come modello dominante di sanzione penale”. La riprova del fatto che sia questo “lo stato dell’arte” si ha nella lettura di un’opera di autorevolissima dottrina che, nel momento in cui predica che la pena detentiva debba “proporsi la finalità di ricostruire, attraverso tutti i tentativi utili di rieducazione” e che sia necessario “superare sia la concezione pan-carceraria sia quella carcerocentrica” conclude chiosando: “il carcere rappresenta l’anello di chiusura necessario a reggere la catena sanzionatoria, ma altre sanzioni vanno previste sin dalla fase della sentenza” tradendo, in buona sostanza, un formale sacrificio all’altare della pena carceraria. È come leggere, a modestissimo parere di chi scrive, le celeberrime parole di Foucault: “conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non vediamo con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione di cui non si saprebbe fare a meno”. Tale weltanschauung del diritto penale, al di là delle apparenze, influenza anche la problematica del differimento dell’esecuzione della pena per motivi di salute. Se il carcere, infatti, viene visto come lo strumento principe per contenere la pericolosità sociale e quest’ultima determina, sempre e comunque, una “compatibilità de facto con il regime penitenziario”, allora, risulterà, sempre e comunque, assai arduo ottenere il differimento della pena perché il carcere non diviene solo un’extrema ratio ma, casomai, esso stesso si palesa come una ratio. L’(ab)uso del concetto “pericolosità sociale” è, in sintesi, figlio d’una più estesa visione del diritto penale connotata da un radicato carcerocentrismo ed esasperata, oggi più che mai, da una politica che vede nel diritto unicamente uno strumento per attirare consensi. Fino a che continuerà ad esistere il “credo del carcere”, “un’istituzione al tempo stesso illiberale, disuguale, atipica, almeno in parte extra-legale ed extra-giudiziale, lesiva della dignità della persona, penosamente e inutilmente afflittiva”, molto probabilmente, continueranno a fare “notizia” detenuti privati della loro dignità, anche nel momento in cui, a causa di una malattia, sono più fragili. Si potrebbe dire, con le parole del Ferrajoli, che “di questa istituzione sempre più povera di senso, di questa macchina disumanizzante, che produce un costo di sofferenze non compensato da apprezzabili vantaggi per nessuno, risulta per ciò giustificato, in una prospettiva di lungo termine, il superamento”, precisando, che ciò “non vuol dire […] superamento della pena, che equivarrebbe di fatto, al di là delle illusioni dei suoi fautori, a un sistema di diritto penale massimo, selvaggio e/o disciplinare” ma, casomai, significa introdurre un “diritto penale minimo”, inteso come “tecnica di minimizzazione della violenza nella società: della violenza dei delitti ma anche di quella delle reazioni ai delitti”. Una buona parte della dottrina, non a caso, sostiene la necessità di procedere ad una “forte” depenalizzazione al fine di raggiungere tale obiettivo e, purtuttavia, prima di ogni altra cosa, sarebbe opportuno “spodestare la reclusione carceraria dal suo ruolo di pena principale e paradigmatica e, se non abolirla, quanto meno ridurne drasticamente la durata e trasformarla in sanzione eccezionale, limitata alle offese più gravi a diritti fondamentali […], i quali solo giustificano la privazione della libertà personale che è pur essa un diritto fondamentale costituzionalmente garantito”. Il diritto penale, in caso contrario, un bel giorno potrebbe destarsi dai sogni e reincarnare il Gregor Samsa di Kafka: potrebbe, cioè, trovarsi “tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto. Se ne st[sarebbe] disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che [provasse] ad alzare la testa [potrebbe] vedersi il ventre abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si [reggerebbe] a stento la coperta, ormai prossima a scivolare completamente a terra. Sotto i suoi occhi [annasperebbero] impotenti le sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale” e non gli resterebbe più alcunché da fare se non chiedersi “che cosa mi è accaduto?” e sperare di riaddormentarsi. |