È stato incostituzionale aver allargato, attraverso la riforma dell’ordinamento penitenziario, il 4bis anche nei confronti dei detenuti minorenni e giovani adulti. La Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, relativa all’applicazione nei confronti dei condannati minorenni e giovani adulti del meccanismo “ostativo” previsto dall’articolo 4bis, commi 1 e 1bis dell’Ordinamento penitenziario, secondo cui i condannati per uno dei reati in esso indicati, che non collaborano con la giustizia, non possono accedere ai benefici penitenziari previsti per la generalità dei detenuti.
Bisogna ricordare che la riforma originaria era stata prevista attraverso la legge delega dell’art 85. È al punto 5 lettera p) che si indicava, in tema di esecuzione della pena nel processo minorile, come principio di riferimento, “l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative”, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori al l’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà.
Invece nel 2018 è stato approvato il decreto relativo alle misure alternative alla detenzione per i condannati minorenni e i giovani adulti, dove si legge, invece che “ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno trova applicazione l’articolo 4bis, commi 1 e 1bis O. P.”, che fissa le condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari per “certe tipologie criminali dalla spiccata pericolosità”.
Pertanto, i benefici e le misure alternative sono vincolati alla collaborazione con la giustizia, anche da parte dei minori. A suo tempo, lo stesso Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, sentito in commissione, aveva appunto osservato che quel decreto poteva essere facilmente letta come contraria alla delega.
Ma ora la Consulta ne ha dichiarato l’incostituzionalità, ricordando proprio il fatto che questo meccanismo preclusivo è stato ritenuto in contrasto anzitutto con i principi della legge delega n. 103 del 2017, di riforma dell’ordinamento penitenziario, che imponeva di ampliare i criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e di eliminare qualsiasi automatismo nella concessione dei benefici penitenziari ai detenuti minorenni. In secondo luogo, la Corte – richiamando la propria costante giurisprudenza sulla finalità rieducativa della pena e sulle sue implicazioni nei confronti dei minori – ha ritenuto che la disposizione censurata contrasta con gli articoli 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, perché l’automatismo legislativo si basa su una presunzione assoluta di pericolosità che si fonda soltanto sul titolo di reato commesso e impedisce perciò alla magistratura di sorveglianza una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione, che devono presiedere all’esecuzione penale minorile.
Nella sentenza la Corte ha spiegato che “Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extra-murarie non deriva in ogni caso una generale fruibilità dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all’art. 4- bis ordin. penit. Al tribunale di sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extra-murarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo.
Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale è possibile tenere conto, ai fini dell’applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell’ambito del percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.” Quindi, con la sentenza n. 263 (relatore Giuliano Amato), I detenuti minorenni e i giovani adulti, condannati per uno dei cosiddetti reati ostativi, possono accedere ai benefici penitenziari (misure penali di comunità, permessi premio e lavoro esterno) anche se, dopo la condanna, non hanno collaborato con la giustizia. |