«Non sapevamo del pestaggio di Stefano e non abbiamo potuto rifiutarci di modificare le relazioni sul suo stato di salute. Erano ordini superiori. Vogliamo costituirci parte civile». Colpo di scena al processo sui presunti depistaggi seguiti alla tragica fine di Stefano Cucchi, il 31enne romano arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sei giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Ieri due degli imputati – Francesco Di Sano e Massimiliano Colombo Labriola – hanno chiesto al giudice Giulia Cavallone di costituirsi parte civile contro i due superiori co- imputati, i tenenti colonnello Luciano Soligo e Francesco Cavallo. «C’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo, ma oggi sappiamo tutto. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini», hanno spiegato i due attraverso il loro legale, Giorgio Carta. Secondo cui il reato di falso, per i suoi assistiti, non si sarebbe verificato.
Alla sbarra ci sono otto carabinieri, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma, e altre sette carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo, Francesco Cavallo, capo ufficio del comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, comandante della compagnia Roma Montesacro, Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, in servizio alla stessa stazione, Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni. Tutto sarebbe accaduto il 27 ottobre 2009, cinque giorni dopo la morte di Cucchi, nella stazione di Tor Sapienza, dove il geometra era stato condotto dopo l’arresto, dopo aver già subito il pestaggio ad opera, secondo la sentenza emessa a novembre scorso, dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 12 anni. Il giorno successivo all’arresto, Di Sano, allora piantone alla stazione di Tor Sapienza, dopo aver dato il cambio al collega, vide Cucchi in camera di sicurezza attraverso lo spioncino. Ed è proprio per questo motivo che venne coinvolto nella redazione della relazione di servizio richiesta dopo la sua morte. Il 27 ottobre, dunque, Soligo chiese a Labriola di inviare via mail il file con la relazione a Cavallo, che lo stesso rispedì via mail con delle modifiche specifiche sulla salute di Cucchi e l’annotazione «meglio così». Labriola stampò dunque il file consegnandolo a Soligo. L’atto necessitava, però, della firma di Di Sano, quel giorno fuori servizio e in procinto di partire per la Sicilia. Soligo lo avrebbe dunque fermato: «Prima di partire – gli avrebbe detto – devi firmare l’annotazione». E dopo essersi intrattenuto a lungo con Soligo, Di Sano avrebbe firmato il documento, attardandosi tanto da perdere l’aereo. «Quel biglietto aereo l’ho perso, tanto che ricordo di essere dovuto poi scendere in Sicilia in macchina», ha spiegato. Insomma, i due «non avevano nessun potere decisionale – ha sottolineato Carta -. Dovevano ubbidire». «Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi», hanno sostenuto i due. Per il legale, dunque, «non c’è alcun falso», anche perché «Labriola non hai mai incrociato Cucchi, non fu neppure informato quando fu portato nella sua stazione». E se i due non avessero eseguito quell’ordine, «sarebbero incorsi in un reato militare». Avendo subito «un danno di immagine – ha aggiunto – sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari». Che ieri hanno chiesto di poter citare come responsabile civile il ministero della Difesa. |