Stefano Cucchi stava bene, prima di essere arrestato la sera del 15 ottobre del 2009. Ed è morto per le conseguenze delle gravi lesioni riportate in seguito al pestaggio subito. La violenza dei due carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo è stata un’azione «palesemente dolosa e illecita che ha costituito la causa prima di un’evoluzione patologica alla fine letale». Non poteva essere più chiara, la Prima corte d’Assise di Roma presieduta da Vincenzo Capozza, nel motivare la sentenza del 14 novembre scorso con la quale sono stati condannati a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale i due militari che quella sera pestarono il giovane geometra romano fino a spezzargli la schiena. E insieme a loro – poiché i documenti ufficiali stilati in caserma, a cominciare dal verbale di arresto di Stefano Cucchi, appaiono, scrivono i giudici, come «una sagra degli errori» – vennero condannati per falso anche Francesco Tedesco (30 mesi di reclusione), il carabiniere coimputato che nel corso del processo bis è diventato il testimone chiave delle torture, e il maresciallo Roberto Mandolini che allora era comandante della stazione Appia, condannato a 3 anni e 8 mesi e interdetto dai pubblici uffici per 5 anni.
Appurata l’«inconsistenza della tesi della morte per Sudep (epilessia improvvisa, ndr), mera ipotesi non suffragata, anzi smentita, da alcuna evidenza clinica», e confermata la «condizione di sostanziale benessere» di Stefano fino al momento dell’arresto, la corte ritiene evidente come l’«azione lesiva inferta da taluno» abbia generato «molteplici e gravi lesioni, con l’instaurarsi di accertate patologie che hanno portato al suo ricovero e da lì a quel progressivo aggravarsi delle sue condizioni che lo hanno condotto alla morte».
Contrariamente a quanto sostenuto nella linea difensiva scelta dagli avvocati difensori degli imputati, questo schema «corrisponde perfettamente alla previsione normativa in tema di nesso di casualità tra condotta illecita ed evento». E, «d’altra parte, rende chiara la differenza tra la mera causalità biologica, secondo la quale nessuna delle singole lesioni subite da Cucchi sarebbe stata idonea a cagionare la morte, e la causalità giuridico penale, nel rispetto della quale il nesso di causalità sussiste se quelle lesioni, conseguenza di condotta delittuosa, siano state tali da innescare una serie di eventi terminati con la morte, così come si è verificato nel caso in esame».
Dunque, oltre ad essere state letale, la reazione di D’Alessandro e Di Bernardo è stata «indiscutibilmente» «illecita e assolutamente ingiustificabile» perché conseguenza di un «uso distorto dei poteri di coercizione inerenti il loro servizio», e una violazione del «dovere di tutelare l’incolumità fisica della persona sottoposta al loro controllo». Ricorda infatti la Corte composta anche di giudici popolari che «il fatto si è svolto in un locale della caserma ove nessuno estraneo poteva avvedersi di quanto stava accadendo, in piena notte, ai danni di una persona decisamente minuta e di fisico molto meno prestante rispetto a quella dei due militari».
D’altronde la testimonizianza di Tedesco è, secondo i giudici, «credibile» e sostanziata da prove. Poco importa che sia stato in silenzio per nove anni perché, come ha spiegato egli stesso in modo «comprensibile e ragionevole», «aveva avuto la certezza gli si fosse parato dinnanzi» un muro «costituito dalle iniziative dei suoi superiori dirette a non far emergere l’azione perpetrata ai danni di Cucchi, e a non perseguire la volontà di verificare che cosa fosse realmente accaduto». A riprova di questa narrazione c’è, d’altra parte, addirittura un processo ter che si è aperto da qualche settimana contro otto ufficiali accusati di aver depistato le indagini e insabbiato per anni la verità. Infatti la corte presieduta da Capozza rileva che già il verbale di arresto di Stefano appariva «un concentrato di anomalie, errori ed inesattezze. Il soggetto sottoposto alla misura precautelare viene indicato nell’incipit con luogo e data di nascita a lui non pertinenti».
«Questa sagra degli errori rafforza la sensazione che l’attestazione dell’identificazione di Cucchi sia stata una (macroscopica, madornale) svista. L’omissione dei nomi – si legge nelle motivazioni – di Di Bernardo e D’Alessandro tra gli autori dell’arrestato è stata casuale? La corte ritiene di dovere dare risposta negativa alla domanda. L’assenza dei due è funzionale alla cancellazione di qualsiasi traccia della drammatica vicenda avvenuta all’interno della caserma».
Per la famiglia di Stefano si tratta di «parole semplici per una verità semplice che qualcuno ha voluto complicare e qualcun altro non vedere». Ilaria è emozionata: «È esattamente tutta la verità così come l’abbiamo sostenuta e urlata invano per tanti anni». |