L’emergenza potrebbe dunque aiutarci a riscrivere la funzione del carcere nel nostro sistema. A pronunciare un “basta” che non è ispirato a utopie, ma a un profondissimo umanesimo. Trattenuto nella terra dalle radici della concretezza «come l’umanesimo integrale di Jacques Maritain insegna», chiarisce il presidente emerito della Corte costituzionale.
Presidente Flick, di fronte all’incubo di un coronavirus che dilaga in carcere ci rifugiamo nella negazione: non accadrà, sono più al sicuro lì dentro. È il riflesso di una cultura che trasforma ogni condannato in nemico del popolo? Abbiamo trasformato l’eccezione in regola, innanzitutto, rendendo normale la deroga. È l’eccezione delle leggi speciali, ad esempio, a essere diventata normalità. Si spiega con una nostra storica vocazione a trascurare le sorti del diverso. La Costituzione prima di tutto, e la nostra Corte costituzionale, si battono in una contesa impari per contrastare una simile indole. I successi sono pochi: l’ordinamento penitenziario del 1975, la definizione delle misure alternative al carcere introdotta undici anni dopo. Poi però la nostra Corte compie un doveroso e opportuno viaggio nelle carceri, per testimoniare a chi è recluso la realtà del mondo di fuori e aprire nello stesso tempo la realtà esterna al carcere, alla comprensione dei detenuti. Solo che mentre la Corte entra dalla porta, la Costituzione esce dalla finestra. Anziché assicurare gli spazi residui di libertà a chi è condannato, la politica criminale travisa le pene alternative in meri strumenti di deflazione. Senza risolvere davvero il sovraffollamento.
E il sovraffollamento rende impossibile assicurare di fatto dignità ai reclusi. Abbiamo sprecato l’occasione della riforma elaborata dagli Stati generali dell’esecuzione penale: ora è roba buona solo per le librerie. Ma l’emergenza coronavirus ci offre, seppur nella sua tragedia, un’ulteriore occasione.
Anche rispetto all’umanità della pena? E perché mai? Il sovraffollamento è una delle contraddizioni messe a nudo dall’epidemia, al pari del contrasto fra eroismi e inefficienze del sistema sanitario.
Presidente, neppure l’incubo di un’epidemia dietro le sbarre riesce a scalfire il riflesso vendicativo che percuote la maggioranza dei cittadini rispetto alla detenzione?
C’è analogia fra la dignità che si nega al detenuto e altre forme di discriminazione: dall’odio immotivato e razziale verso gli ebrei alla violenza contro la donna, che si arriva a uccidere se solo sfugge; dal migrante che è liquidato solo in base a logiche di sicurezza fino al dramma delle ultime ore, ossia l’anziano positivo al coronavirus dirottato nelle case di riposo, trasformate in lazzaretto.
Perché c’è analogia fra l’anziano lasciato morire di Covid e il detenuto?
Si ritiene che una graduale attenuazione del distanziamento sociale imporrà un trattamento differenziato per gli anziani. Poi però usiamo le case di riposo per anziani come deposito per persone contagiate dal virus: paradossale, no? Ecco, è un paradosso del tutto simmetrico a quello per cui prima si pensa di limitare il contagio con lo spauracchio dell’arresto di chi infrange i divieti e poi, proprio in carcere, si tengono le persone esposte al contagio, lì favorito innanzitutto dalla promiscuità. Ecco, qui arriviamo al punto essenziale della riflessione: l’emergenza coronavirus svela impietosamente diverse contraddizioni nel nostro modo di vivere.
Si riferisce alla negazione del diverso, con l’anziano e il detenuto trattati allo stesso modo di chi cinquant’anni fa era abbandonato nei manicomi?
La risposta è sì. Ma una simile crudeltà merita una spiegazione. E il senso ultimo delle discriminazioni è in un modo di vita in cui il profitto ha conquistato la precedenza rispetto alla persona, anche se alla fine delle fini ciascuno muore solo e non si porta niente dietro. Una idea disumanizzante, che però la tragedia dell’epidemia mette a nudo al punto da offrire l’occasione per liberarsene. Il virus viaggia veloce proprio come la globalizzazione, nuova religione del profitto. In un attimo si dematerializza e si sposta tutto, ogni ricchezza, ma in un attimo anche il coronavirus si propaga. Siamo costretti a cambiare, evidentemente.
Impareremo che la globalizzazione può nascondere un retroscena da incubo. Ma perché dovremmo imparare che la pena in carcere è di per sé disumana?
Dinanzi allo spettro di un contagio in carcere, credo sia impossibile non accorgersi che la detenzione inframuraria nega quei residui di libertà personale difesi strenuamente dalla Consulta. Credo sia impossibile non accorgersi che la seconda parte dell’articolo 27, secondo cui la pena non può consistere in trattamenti inumani e deve tendere alla rieducazione, è inattuabile dietro le mura di un penitenziario. L’ergastolo è illegittimo nella sua proclamazione ma legittimo nel suo esercizio, tranne che per i casi ostativi: seppur dopo molti anni prevede una almeno parziale restituzione della libertà. Però ora dobbiamo compiere un ulteriore passaggio dialettico, e comprendere che in realtà la pena inframuraria in sé può essere sì legittima nella sua proclamazione ma è evidentemente illegittima nella sua esecuzione di fatto. Lo si può dire con parole diverse: la privazione assoluta della libertà personale, attraverso la convivenza coatta imposta dal carcere, è di fatto contraria ai principi di tutela della dignità personale scolpiti ai primi articoli della nostra Costituzione.
Se ora a intervistarla ci fosse qualcuno dei rigoristi le chiederebbe come si concilia la sua affermazione con il principio per cui la pena deve essere certa.
Semplice: la Costituzione parla di “pene”, non prevede affatto che il carcere sia l’unica pena. Bisogna fare i conti con una realtà e con modi di pensare diversi, certo. Ma l’emergenza coronavirus potrebbe anche costringerci a fare i conti con una sottovalutazione dell’emergenza carcere analoga ad alcuni errori commessi nella fase iniziale dell’epidemia. Prima i ritardi rispetto alla valutazione di pericolosità del virus in generale; ora si assiste al conflitto fra istituzioni sulla responsabilità della mancata dichiarazione dello stato di emergenza per alcune città lombarde… Vogliamo almeno evitarci il rischio di un terzo, tragico errore proprio sul carcere?
Anche perché non si capisce dove isoleremo i detenuti contagiati.
Incognita che polverizza la tesi di chi considera i detenuti più al sicuro dentro che fuori. Appunto: dove isoleremo i contagiati? Mi perdoni il paragone, ma non possiamo mica ripetere la farsa del Ventennio, quando si spostavano i capi di bestiame in modo da portarli nelle campagne visitate da Mussolini mezz’ora prima che quest’ultimo arrivasse? Spostare non cambia i numeri.
E non c’è il rischio che il panico nelle carceri renda ancora più difficile gestirle?
Se n’è già avuta dimostrazione con le rivolte di inizio marzo. Seppure con diverse variabili, a innescarle sono state soprattutto la paura di perdere i contatti con i familiari, la generale ansia dei reclusi e dello stesso personale di custodia, l’oggettivo carattere di porosità degli istituti di pena. Nei penitenziari c’è un continuo andirivieni di persone che entrano ed escono per lavoro, nonostante la loro pretesa impermeabilità.
Contagio esponenzialmente amplificato dall’impossibilità di far rispettare il cosiddetto distanziamento. E non me la sento di condividere le argomentazioni tecniche di chi sostiene che il metro di distanza valga solo per i luoghi pubblici. Mi pare che la contraddizione con quanto previsto per chi è libero sia enorme, tanto è vero che quasi tutti hanno comunque sentito il bisogno di esprimersi rispetto a un simile paradosso.
Ma non tutti pensano che la risposta sia eliminare il sovraffollamento.
C’è chi infatti è convinto che il carcere sia un posto più sicuro di ogni altro ambiente esterno, in tempo di epidemia. Chi, agli antipodi, chiede un’amnistia o un indulto, che però non troverebbero mai una pubblica opinione disponibile ad accettarli, e che sono impedite dall’attuale norma costituzionale. E poi ci sono posizioni mediane: una in apparenza pragmatica che ritiene prioritario, rispetto al carcere, l’allarme nelle case di riposo o nei conventi, e un’altra, molto ma molto condivisibile, che coincide di fatto con il documento inviato alcuni giorni fa dal procuratore generale Giovanni Salvi ai pg di tutte le Corti d’appello, in cui si prefigura una riduzione sia della carcerazione preventiva sia dell’esecuzione penale in carcere pur senza nuovi strumenti giuridici. E ciò vuol dire che tanta gente sta in carcere anche se potrebbe non starci, se i magistrati usassero in senso positivo quella discrezionalità interpretativa che spesso usano in un senso contrario.
È la via maestra?
È al momento la via migliore nel senso che davvero un’interpretazione analogica delle norme in vigore consentirebbe di ridurre le misure e le pene inframurarie. Si tratta della via d’uscita, non a caso condivisa dal procuratore di Milano Francesco Greco, anche se ovviamente non è vincolante; ma implica inevitabili discriminazioni legate alle diversità di interpretazione tra i magistrati. Differenze che potrebbero generare comunque tensioni.
E come se ne esce, è il caso di chiedersi?
Forse ne usciremo solo con la “fase tre”, quando usciremo a rivedere le stelle ma a condizione di accettare un diverso modo di vivere e relazionarsi con gli altri. A quel punto dovremo comprendere che è impossibile scaricare l’emergenza del sovraffollamento in carcere sull’ennesima azione di supplenza compiuta dai magistrati.
Senza lasciarci intrappolare da un braccialetto elettronico.
Non c’erano neppure quando ero ministro della Giustizia, e non è che il tempo da allora sia trascorso utilmente. Premesso che lascio ai colleghi più giovani l’analisi tecnica delle misure, mi limito a osservare che il braccialetto non impedisce l’evasione dai domiciliari, al massimo ci avverte che l’evasione è avvenuta. Alla precedente domanda, come se ne esce, posso offrire una risposta in apparenza provocatoria.
Perché provocatoria?
Tutti dicono che dovremo cambiare modo di vivere. Io dico che dovremmo anche scegliere altre forme di pena diverse dalla privazione della libertà personale. A quelle inframurarie bisognerebbe far ricorso solo quando giustificate dalla violenza e dall’aggressività della persona. Ad esempio per i reati inclusi nel cosiddetto codice rosso.
Riecco il rigorista che subentra e le ribatte: ne verrebbe un messaggio devastante, in termini di mancata deterrenza.
Diffondiamo messaggi sbagliati, che incoraggiano la violazione delle norme, di continuo. Il modo di formulare certe leggi è quasi un invito a violarle. Ripeto: la detenzione in carcere dovrà essere l’estrema ratio.
Forse ora ce la faremo, ma la questione si riproporrà dopo l’emergenza.
Sì, forse è come dice lei. Ora la sfanghiamo, grazie alla supplenza svolta dai magistrati. Ci dovremo pensare dopo, quando non si tratterà solo di rinunciare ai concerti negli stadi. Dovremo pensare anche alla sorte dei detenuti. E anche se farlo comporterà dei rischi. Ma c’è un rischio in qualsiasi cosa.
Il suo è un messaggio in fondo di ottimismo.
Ma sa, dei segnali ci sono. Penso a un accordo firmato di recente da Regione Lazio, Tribunale di Roma, Ufficio esecuzione penale esterna e Università La Sapienza che valorizza i non molti strumenti resi disponibili dal legislatore per agevolare il recupero dei condannati, anche con l’assegnazione di un domicilio a chi non ne ha uno e che solo per questo finisce per scontare la pena in cella.
Sì, presidente: si può essere profondamente in sintonia con la sua fiduciosa previsione. Ma come la mettiamo con quella irriducibile paura del diverso che avvolge i detenuti?
Non a caso ho citato ebrei, donne, migranti, anziani: possiamo farcela a superare tutte le discriminazioni inclusa la paura e il rifiuto di comprendere la condizione del recluso. Possiamo farcela con la cultura. Con l’umanesimo integrale di Maritain. Con la Costituzione che mette in simbiosi l’uguaglianza e la diversità grazie al rispetto della dignità di ciascuno, alla tutela memoria del passato e al progetto del futuro. Possiamo farcela grazie alla consapevolezza che l’umanesimo parziale del profitto e della globalizzazione ci sradica. Nega la solidarietà. E il senso di solidarietà, invece, è la chiave di tutto. |