A un certo punto, è diventata insopportabile: “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”.
Gherardo Colombo si è dimesso dalla magistratura nel marzo del 2007, dopo trentatré anni di servizio, prima come giudice, poi come pubblico ministero di inchieste celebri (la Loggia P2, il delitto Ambrosoli, i fondi neri dell’Iri, Mani Pulite), infine come giudice della corte di Cassazione. La sua conversione è cominciata molti anni fa, presentandosi sotto la forma di una ritrosia: “Ho chiesto l’ergastolo una sola volta nella mia vita. E quando ho saputo che il giudice l’aveva rifiutato, ho tirato un sospiro di sollievo. Ero felice che non mi avesse ascoltato”. Oggi, dopo numerose letture e altrettante riflessioni, è arrivato a una conclusione radicale: “Ritengo il carcere, così com’è, non in coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ’le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente”.
Il pensiero di Colombo sull’argomento è racchiuso in un libro da poco aggiornato e ripubblicato, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla (Ponte alle Grazie). Nel quale ricostruisce il concetto di pena che si è affermato nelle società occidentali. Racconta la possibilità dischiusa e non esplorata di un’altra idea di giustizia, presente già nell’Antico Testamento e, ancora di più, nel Nuovo. E che poi è simile a quella che risuona nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e nella nostra Carta costituzionale, ed è un invito alla trasformazione: “Il carcere così com’è oggi, in Italia, è da abolire. Non faccio nessuna fatica a dirlo. Conosco l’obiezione e perciò aggiungo: abolire il carcere non significa lasciare chi è pericoloso libero di fare del male agli altri”.
Com’è possibile conciliare le due cose?
È possibile mettendo le persone pericolose nella condizione di non esercitare la propria pericolosità. Adottando misure che limitino la loro libertà, ma garantendo il loro diritto allo spazio vitale, alla salute, alla dignità, all’affettività. Andando il più possibile verso misure alternative al carcere.
È realistico?
Nemmeno io riuscivo a concepire una società senza la pena del carcere, quando ho iniziato a fare il magistrato. Credevo che la pena, inflitta rispettando tutte le garanzie del condannato, avesse una forza educativa. Non sbagliavo. Semplicemente, non mi ero mai chiesto a cosa educasse.
E a cosa educa?
In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anziché mostrare che la regola risponde a un principio di ragione.
Lei quando ha cominciato a dubitare?
All’inizio facevo il giudice di dibattimento. Mi occupavo di sequestri di persona, reati puniti con pene molto alte. L’idea di doverle infliggere mi metteva a disagio. Dopo tre anni, infatti, chiesi di essere trasferito all’ufficio istruzione. Quantomeno, per allontanare da me l’obbligo di mandare in carcere un’altra persona.
Come andò?
Credevo che fare le inchieste, rivelare cosa c’era dietro il delitto Ambrosoli, le trame della P2, i fondi neri per l’Iri, nonché le tangenti di Mani Pulite, sarebbe servito ai cittadini per esercitare meglio la democrazia, per aiutarli a scegliere con più consapevolezza. Non fu così. Nemmeno dopo aver scoperto le malefatte peggiori successe niente.
Ma come? Tangentopoli fu un terremoto politico.
Ma finì perché lo decisero i cittadini. La maggior parte di essi preferì continuare a vivere dentro un humus impregnato dalla corruzione, che in uno incentrato sul rispetto delle regole.
Che conclusioni ne trasse?
Che le inchieste non assolvevano al compito che gli attribuivo, così come l’idea della pena non corrispondeva a quella che avevo studiato all’università.
Perché rimase nella magistratura?
Perché il mio percorso – la mia “conversione” – non era ancora completato. In quegli anni, cominciai a leggere Eugen Wienset, un gesuita tedesco che aveva reinterpretato l’idea della pena nelle Sacre scritture. Sosteneva che nei testi biblici esiste un’idea della giustizia non retributiva. Ossia, una concezione della giustizia che non ripaga il male del delitto con il male della punizione, ma punta alla riconciliazione di chi ha sbagliato con la comunità, attraverso il perdono.
La conquistò?
Mi guidò a sciogliere un nodo che era rimasto irrisolto nella mia vita. Il problema di come relazionarmi con le persone che avevano ucciso miei colleghi, alcuni di essi molto cari.
Chi?
Il giudice Guido Galli, in particolare. Prima Linea lo uccise nel 1980. Lo avevo incontrato la mattina. Nel pomeriggio, lo assassinarono nel corridoio dell’Università Statale, sparandogli tre colpi di pistola. Furono anni molto dolorosi. Molti magistrati morirono ammazzati. I loro panni erano i miei. Eppure, nonostante l’immenso dolore faticavo a considerare la pena per chi li aveva uccisi utile e giusta.
Non è quello che dice la Costituzione?
Sono convinto che oggi, dopo l’esperienza dei gulag, i padri costituenti non userebbero più la parola rieducazione per definire il fine della pena. Lo spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione.
Su cosa si baserebbe una società senza carcere?
Sull’idea del recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restando, lo ripeto, che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo.
Si può imporre il perdono per legge?
Non si tratta di cambiare una legge: si tratta di cambiare una cultura, un’educazione, di introdurre trasformazioni politiche, sociali, economiche.
Non è troppo augurarsi la palingenesi?
Cos’altro propone la Costituzione, se non questo? È la Costituzione che prevede, per esempio, che tutti possano accedere all’istruzione, aver garantita la propria salute, ricevere una retribuzione dignitosa. Tutto sta nel modo in cui la si concepisce. Un monumento da celebrare o un programma da attuare? Per me è la seconda.
Lei è cristiano?
Sono cristiano filosoficamente, mentre teologicamente ho un problema che qui è superfluo considerare: credere o non credere a Dio.
Che significa?
Che mi riconosco completamente in molti passi del Vangelo. In particolare nel discorso della Montagna, così come lo riporta il testo di Matteo: là dove Gesù rifiuta la legge dell’occhio per occhio dente per dente e parla di una giustizia completamente diversa.
E però si conclude dicendo: “Siate perfetti”.
E allora?
Lei che ha scritto un libro sul Grande Inquisitore di Dostoevskij sa che a Cristo rimprovera proprio questo: non si può chiedere agli uomini di essere perfetti.
È vero che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è necessario abolirlo |