Partiamo da qua. Dal linguaggio e dalle parole che hanno delimitato e abbigliato questo virus, perché le affermazioni possono mentire ma il linguaggio, il suo stile e il lessico che lo accompagna solitamente non sono in grado di farlo.
Sono molti gli osservatori che hanno sottolineato come, fin dalle prime battute, la descrizione della pandemia si sia ritorta tutta intorno alla metafora della “guerra al virus”.
Come un colore o una patina cromatica, la lingua infrastruttura e caratterizza la realtà instaurando con essa un rapporto quasi indissolubile. Una cosa esiste, o meglio, possiamo concepirla solo se siamo in grado di nominarla mentre, viceversa, sarà difficile afferrarla se non riusciamo in alcun modo a trovare i mezzi per esprimerla. Nei rivoli delle parole, dunque, del linguaggio, si possono trovare, a nostro avviso, sintomi ben più eloquenti di tante spiegazioni. Il frame della guerra, vale a dire l’incorniciatura del virus in una sfera semantica prettamente bellica, si è insinuata fin dall’inizio nel racconto della pandemia attraverso parole, la forma delle frasi e con dosi omeopatiche di locuzioni ripetute milioni di volte e metabolizzate tanto meccanicamente quanto inconsciamente dalla popolazione. Questo ha dato vita ad una specie di “sgocciolamento” di significato il quale suggeriva anche il primo sintomo evidente di quest’emergenza, vale a dire il fatto che, pur trovandoci in balia a di una pandemia, le autorità sembravano volerla affrontare come fosse una guerra. Così hanno detto e così hanno fatto. Non a caso è stato schierato l’esercito, i droni, gli elicotteri, i posti di blocco, è stato imposto una sorta di show del coprifuoco che spingeva il cittadino verso un indottrinamento patriottico volto a colpire di volta in volta il traditore, il disertore, talvolta identificato con il runner, lo scettico o con chiunque non rinunciasse a una boccata all’aria aperta, all’ossigeno.
In sostanza, ciò che abbiamo provato a spiegare molto sommariamente nella prima parte di questo pezzo, cioè che un problema sanitario stava venendo affrontato con tecniche quasi esclusivamente securitarie (№ controlli di polizia vs № di tamponi, per sintetizzare al massimo) presenta già oggi un grosso carico di interrogativi circa il nostro prossimo immediato futuro. L’operazione di framing, infatti, non descrive soltanto la risposta muscolare e molto militare dello Stato alla pandemia ma è un paradigma che verosimilmente verrà utilizzato anche nell’immediato futuro sia esso semantico che materiale.
Non è un caso se, contemporaneamente, mentre le città cominciavano ad essere blindate e lo stato d’eccezione delle cosiddette “zone rosse” andava abbracciando l’intero Paese, l’emergenza Covid-19 veniva trattata quasi esclusivamente attraverso un linguaggio bellico fatto di “trincee negli ospedali”, di “fronte del virus”, i morti si trasformavano in “caduti” e tornava in auge una parola ormai desueta come “eroi”.
Nel dicembre del 1941, un giorno Paul K. tornò dal lavoro raggiante: per la strada aveva letto il bollettino di guerra.
“Gli sta andando malissimo, in Africa” disse.
“Come lo ammettono?” chiesi. “Di solito parlano sempre e solo di vittorie”.
“Hanno scritto: ‘Le nostre truppe che combattono eroicamente’. Eroicamente suona come un necrologio, dia retta a me.”
Da allora, nei bollettini, “eroicamente” è apparso più e più volte come un necrologio, ed è sempre stato vero.
LTI. La lingua del Terzo Reich. Victor Klemperer
Certo, come ci ricorda Susan Sontang: “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate” ma c’è anche dell’altro.
Se nell’immaginario collettivo si è diffusa così facilmente una razionalità di ordine bellico e il paradigma della “guerra contro il coronavirus” ha fatto breccia nella mente degli italiani è perché già da tempo abitavamo un contesto ed un’organizzazione sociale che aveva fatto della catastrofe la propria propulsione principale e che era in guerra contro il vivente, contro il bíos, già da molto tempo. Solo qualche giorno fa, su Avvenire, si poteva trovare un eloquente articolo dal titolo: “Nel 2019 il mondo ha speso per le armi 1.917 mld di dollari, solo 2 per l’Oms.” Lo choc creato dal coronavirus non ha fatto che seguire coordinate già imposte, capitoli di spesa pubblica già promessi a determinati settori piuttosto che ad altri. Come scriveva Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»
Credere che un’economia totalitaria fondata sullo sfruttamento dell’uomo e della natura si fermerà di colpo solo perché un virus ha riconfigurato improvvisamente le nostre priorità esistenziali è un errore d’analisi estremamente pericoloso a nostro avviso.
Non a caso, nonostante una pandemia che sicuramente avrà effetti a lungo termine, il settore della Difesa è stato dichiarato immediatamente un “servizio essenziale” e le commesse per l’export bellico sono state equiparate alla produzione di ventilatori polmonari. Il folle programma d’acquisto degli F-35 rimane invariato, è in arrivo una legge da 6 miliardi di euro in armamenti, senza contare le commesse miliardarie di Fincantieri per la Marina del Qatar, o dei cacciabombardieri e degli elicotteri per l’Egitto del generale al-Sissi, mentre da quest’analisi dell’Osservatorio Mil€x la spesa militare italiana prevista per il 2020 sarebbe in aumento del 6,4%, 1,5 miliardi in più rispetto al 2019. “Fuori, intanto – dai cantieri navali di Monfalcone, come si legge in un pezzo titolato “La ripartenza di Fincantieri, tra sfruttamento e subappalti” de il Manifesto di questi giorni – si moltiplicano i divieti: vietato entrare negli esercizi pubblici con addosso il terlis (così si chiama nella Venezia Giulia quella tela blu tipica delle tute degli operai), vietato mangiare fuori dai cancelli durante la pausa-pranzo, vietato usare i mezzi pubblici per recarsi in cantiere. Non ci sono mai stati spogliatoi per tutti? Qui la sindaca leghista di Monfalcone si attribuisce la vittoria e la scorsa settimana annuncia: «dopo una riunione difficile, abbiamo ottenuto che ci saranno spogliatoi per tutti». Sì, vero, Fincantieri ha promesso 2.700 spogliatoi nuovi di zecca. Nel 2021 però.”
Volendo imparare qualche lezione dal nostro immediato passato si potrebbe dire che le misure d’emergenza, instaurate per la pandemia, si normalizzeranno da oggi nella sfera quotidiana nella misura in cui, la loro fine, così come quella delle misure adottate dalla precedente “guerra al terrore”, si cristallizza in un’eventualità semplicemente impensabile.
Dopo il discorso del Presidente del consiglio Giuseppe Conte della settimana scorsa la normalizzazione dell’eccezione è diventata ancora più evidente.
Dopo 57 giorni di lockdown non-lockdown, con una mano il governo ha eliminato in un sol colpo dalla propria agenda infanzia, salute, amore, istruzione e cura mentre con l’altra ha calcato ancora verso una profonda infantilizzazione della collettività con la solita scienza bellica farcita di “tricolori”, di concordia nazionale e di “siamo tutti sulla stessa barca”.
Come ci spiega perfettamente Alberto Prunetti: “Il governo sembra non avere un disegno, sta improvvisando in maniera catastrofica, mettendo a luce tic reazionari («assembramenti», «congiunti» e tutto il lessico del codice Rocco). La classe dirigente del paese non sarebbe in grado di amministrare un condominio. È l’amara verità. Però quelli da colpire col sarcasmo sono i poveri, che di certe politiche sono le prime vittime. Quando ci chiedono di sventolare il tricolore e di voler bene all’Italia, è perché non sanno come fare per coordinare la solidarietà sociale, per garantire il punto di incontro tra il diritto alla salute e quello al reddito e alla socialità. Soffiano sul fuoco per dividere i lavoratori, non trovando misure per accontentare tutti. Come col bonus da 600 euro, bisogna arrancare per mordere lo scarno osso.” Senza nessun piano per il contenimento del contagio, senza ridiscutere in alcun modo il sistema sanitario, la prevenzione, le forme di reddito il governo ha reso esplicito, una volta ancora, la formalizzazione della divergenza tra il controllo imposto sui comportamenti e sulle relazioni individuali e il funzionamento produttivo.
Ed è qua che risiede, a nostro avviso, il cuore del dispositivo semantico della “guerra al virus”, una retorica di “mobilitazione militare” della popolazione tesa a far ripartire un’economia sempre più bellica.
Proviamo a spiegarci. La “fase 2” è iniziata finalmente, lo è per le strade e lo è nella cosiddetta percezione “popolare” ma non lo è ancora nelle norme che regolano i comportamenti individuali. Si può uscire di casa ma è necessaria ancora un’autocertificazione sulla quale, a giustificazione dello spostamento, sono rimaste ancora 4 voci totalmente aleatorie. Puoi uscire per consumare, per lavorare, per incontrare i “congiunti” o per far visita ai propri «partner conviventi» [sigh!] puoi uscire per fare una passeggiata ma solo se si tratta di un’attività motoria altrimenti «le passeggiate sono ammesse solo se strettamente necessarie a realizzare uno spostamento giustificato da uno dei motivi appena indicati.»
È questione di come ti vesti, dell’aria che hai ecc. Le mani in tasca, ad esempio, non vanno bene. Se hai con te una borsa, va bene. Se sei vestito “tecnico”, ok. Se invece hai una camicia frivola e un fare svagato, allora non hai rispetto per le traversie che la Nazione sta passando, e la tua non è «attività motoria» ma «passeggiata», e ti stango.
Anche la questione dei «congiunti» e «affetti stabili» rientra in questo: non puoi vederti con gli amici perché sarebbe qualcosa di piacevole, gratuito, fine a se stesso, sarebbe vita. Invece la visita ai parenti ha sempre un che di “dovere”, di incombenza, di commissione da fare. Quantomeno nella mentalità familista italica. Da qua.
Insomma per il controllo imposto sui comportamenti e sulle relazioni individuali sono state mobilitate parecchie forze (e parecchie risorse ⇒), sono state stabilite sanzioni durissime ed estremamente salate mentre la sclerosi burocratica sfornava (non si sa quanto consapevolmente e scientificamente) norme il cui margine di discrezionalità operativo era ampissimo. Margine consegnato quasi come fosse un regalo ad uso e consumo di quelle stesse forze dell’ordine che, in questi mesi, avevano già dimostrato ampiamente di saper trasformare la discrezionalità in discriminazione trasformando di fatto il personale in divisa nella figura che “concede” o meno (sanzionando) diritti considerati fino all’altro ieri fondamentali.
Se sul fronte del controllo sui comportamenti individuali la situazione è questa, tutt’altro clima si respira invece nel campo del funzionamento produttivo. Come dice perfettamente Anubi D’Avossa Lussurgiu nella discussione qua in alto: «Quale paradigma sanitario funziona all’opposto sul luogo di lavoro e sull’attività individuale indipendente dal lavoro? Lo vediamo anche rovesciando dal lato del sorvegliante, cioè dello Stato. Noi abbiamo un regime di sanzioni amministrative piuttosto pesanti, inflitte piuttosto arbitrariamente da questa delega totale all’agente di pubblica sicurezza rispetto alle persone e abbiamo tre decreti della presidenza del consiglio dei ministri, di cui uno convertito in legge fin’ora, e adesso un quarto, che va in conversione di legge, che non hanno stabilito la minima sanzione sulle aziende che siano riscontrate non applicare i criteri di protezione e di sicurezza dettati dall’emergenza sanitaria. Addirittura, al tavolo che ha preceduto l’ultimo decreto della presidenza del consiglio dei ministri, il maggior sindacato italiano, la Cgil ha rivendicato come vittoria, dopo sessanta giorni di confinamento generale, che adesso, per i prossimi due mesi, potrebbero essere sospese le produzioni di quelle aziende che fossero riscontrate non rispettose delle misure di sicurezza sanitaria sul luogo di lavoro. Cioè ci stanno dicendo che per due mesi le oltre 192.000 aziende che hanno lavorato in deroga non hanno rischiato nemmeno questo, cioè non hanno rischiato nemmeno l’interruzione della produzione.»
Non solo, al protocollo d’intesa per la sicurezza negli ambienti di lavoro, firmato il 14 marzo, si arriva solamente grazie alle forzature degli operai nelle fabbriche, che scavalcano in molti casi addirittura i sindacati confederali con scioperi spontanei al grido: “Non siamo carne da macello”.
E di questo “doppio regime di diritto”, cioè da un lato le restrizioni stringenti per i comportamenti individuali, «per la piena libertà bisognerà aspettare» parole pronunciate da Giuseppe Conte nell’ultimo discorso, dall’altro la totale libertà concessa alle imprese danno nota in maniera molto efficace anche su Giap:
“Il sito del ministero dell’Interno precisa che «le verifiche da parte di task force appositamente costituite in prefettura hanno riguardato 116.237 comunicazioni (su 192.443) ed hanno portato all’adozione di 2.631 (2,3%) provvedimenti di sospensione». È grottesco doverlo precisare, ma si tratta appunto di verifiche burocratiche, fatte «in prefettura», mentre il dato sui controlli eseguiti nelle aziende non viene fornito. Questo a dispetto invece della pubblicazione, sullo stesso sito, giorno per giorno e settimana per settimana, dei dati sui controlli effettuati dalle forze dell’ordine sui privati cittadini e sugli esercizi commerciali.
Tra l’11 marzo e il 27 aprile ci sono stati oltre dieci milioni di controlli sulle singole persone in strada, quasi seimila denunce e 386.872 (3,5%) sanzioni a privati cittadini. La percentuale di multe irrogate in strada (spesso per motivi assurdi) è superiore di un terzo a quella dei provvedimenti di sospensione nei confronti delle aziende che hanno continuato a lavorare e non avrebbero dovuto (e in questo caso, visto che si tratta di un controllo d’ufficio, è molto probabile che il dato reale degli abusi sia ben superiore). Sempre il sito del Ministero dell’Interno precisa che
«per permettere la rapida ripresa delle attività economico-produttive, è stata prevista una procedura semplificata, che fa affidamento sul senso di responsabilità dei singoli imprenditori e che consente l’immediato avvio dell’attività con la preventiva comunicazione al prefetto che è chiamato a verificarne i presupposti».
Chiaro, no? Mentre le forze dell’ordine vengono sguinzagliate a pattugliare piazze, strade, stradelli e spiagge… il governo si affida al «senso di responsabilità» degli imprenditori, che a quanto pare sono gli unici cittadini italiani considerati in grado di esercitarlo.
Sarà per questo che il DPCM del 26 aprile, quello che apre la fantomatica Fase 2, riprendendo e integrando il Protocollo del 14 marzo, non fa riferimento a sanzioni? Si legge soltanto che «la mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza» (art. 2, comma 8 e allegato 6).”
Senza contare che se qualcuno osa soltanto ipotizzarli questi controlli sui luoghi di lavoro più che un muro di scudi si alza un fuoco incrociato dei più feroci, come capitato ad esempio in provincia di Cuneo. Vuoi fare controlli nelle aziende? “Allora non ti fidi di noi” rispondono in coro gli imprenditori e chissà cosa dovrebbero dire allora i normali cittadini che in questi mesi si sono visti appioppare le sanzioni più assurde e vessatorie!
«Bisogna avere ben presente che quella che sta iniziando è la stagione dei doveri e dei sacrifici, per tutti.» Carlo Bonomi, neopresidente di Confindustria
Già, “è la stagione dei doveri e dei sacrifici, per tutti” e pare quasi di vederlo il sorriso sornione sotto i baffi di questo novello padrone del vapore. Se si dovesse trovare un aspetto positivo di questo coronavirus indubbiamente ci sarebbe quello non già di aver fatto indossare a tutti le mascherine quanto piuttosto di aver fatto abbassare a molti la maschera.
La borghesia stracciona italiana parla chiaro e non vuole portare a casa soltanto una vittoria ma vuole tutto il tavolo da gioco. La lista della spesa recapitata al governo dallo stesso Bonomi indica già una “sospensione dei contratti collettivi nazionali di lavoro”, un “sostegno” alle aziende attraverso finanziamenti a fondo perduto, una revisione della sospensione dei licenziamenti, ma anche una sostanziale garanzia d’impunità per quel che riguarda i possibili contagi fra i lavoratori e, infine, un certo fastidio per le misere misure di sostegno alle fasce più deboli della popolazione (che in questo caso si trasformano in “sussidi” perché l’assistenzialismo statale deva essere riservato solo alle imprese), compreso quel reddito di emergenza tanto annunciato dal governo quanto fantascientifico nella realtà.
Insomma ciò che chiede sfacciatamente la borghesia italiana e che si possa continuare a sfruttare, inquinare, depredare, consumare, delinquere e cementificare ancora più e ancor meglio di prima, senza più limiti sui livelli salariali, sulla produttività e sull’organizzazione del lavoro.
Il 21 aprile, durante un’audizione alla Camera, la ministra Lamorgese rilasciava questa dichiarazione: «Nessuna sanatoria. Stiamo pensando a una previsione normativa con il ministero del Lavoro, si pone urgentemente il problema della raccolta dei campi, dobbiamo far emergere quelli che lavorano in nero in agricoltura ma stiamo verificando anche altri settori da considerare. Non è la regolarizzazione di tutti i presenti ma di quelli CHE SERVONO, con regole precise. E non sono 600.000.»
Solo quelli “che servono”, ammettendo di fatto che un settore strategico dell’economia (ma anche della più prosaica riproduzione sociale) italiana è stato retto fin’ora su un dispositivo di inclusione differenziale per la massimizzazione dei profitti della grande distribuzione. Nella stessa giornata, sulle pagine di Avvenire, il capo Direzione nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho avvertiva che «regolarizzare i lavoratori immigrati aiuta a colpire le mafie», chiarendo così, una volta per tutte, che il comportamento di Stato, padroni e mafie, di concerto, è stato unisono, sottolineando inoltre la loro totale complicità nel rendere “irregolari” 600.000 persone per meglio sfruttarle.
Insomma, ce lo stanno dicendo in tutti i modi che «siamo in guerra» e la guerra è esattamente «la stagione dei doveri e dei sacrifici». La sensazione dunque è quella che di mobilitazione generale in mobilitazione generale, da uno stato d’emergenza all’altro, si sia giunti infine a toccare i limiti estremi del sistema, il suo margine sistemico.
L’ultima volta che ‘Italia scese in guerra ufficialmente lo fece con queste parole: «Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative» e, più o meno, sappiamo tutti come andò a finire. Oggi, con una crisi economica di proporzioni spaventose all’orizzonte, senza contare quella climatico-ambientale, forse non siamo già troppo distanti da allora.
Paragoni troppo “stringenti”? Forse, certo è che questi due mesi, letti attraverso la lente di un piccolo osservatorio come quello di Modena, di campanelli d’allarme in questo senso ne presentavano già usciti parecchi, perché se è vero che l’irruzione della pandemia nelle nostre vite ha certamente prodotto una rottura nella nostra quotidianità, è anche vero che essa ha disvelato molte delle logiche che la sorreggevano, le quali, portate alle estreme conseguenze, diventavano ora lampanti per chiunque, sempre a patto che le si volesse vedere.
Il centro è cieco, la verità si vede dai margini.
Quasi due mesi fa, domenica 8 marzo, verso le due del pomeriggio, dal carcere di Sant’Anna di Modena si alzava un’inquietante nube nera. “Pareva l’eco angosciante di epoche lontane – e vicinissime; il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre – la memoria dannata d’Europa. Le nostre anime, passeranno tutte dal camino.” Così descriveva la nube che vedeva da casa sua Giovanni Iozzoli, a più di due chilometri dal carcere, in un suo bellissimo pezzo su Carmilla.
Il carcere di Modena è in rivolta, è una tragedia annunciata (prendiamo da Senzaquartiere):
In pochi minuti familiari dei detenuti e solidali si ritrovano davanti la struttura carceraria per capire cosa stia succedendo. È in corso una rivolta, una dura rivolta da parte della popolazione carceraria. Le motivazioni alla base di questa sommossa appaiono sin da subito chiare : il divieto dei colloqui con i familiari in seguito al nuovo decreto sul Covid-19. Si tratta in realtà della famosa goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sono gli stessi familiari presenti nello piazzale di fronte al carcere a raccontare le condizioni dei propri cari rinchiusi all’interno del penitenziario di Modena. In seguito alle misure adottate dal governo per il contenimento e la diffusione del Covid-19, infatti, non sono solo stati sospesi i colloqui con i familiari, ma sono state interrotte anche le attività con gli educatori e gli psicologi. “Nessuno, in questa situazione di emergenza, si è reso conto di quanto questi provvedimenti abbiano pesato sulla condizione già difficilissima vissuta dai detenuti” ci racconta la compagna di un detenuto. Le prime ore del pomeriggio scorrono in un clima surreale. Tantissime le ambulanze e le macchine del 118. Nessuno risponde alle legittime domande dei familiari che chiedono, soprattutto, lo stato di salute dei loro cari, se sono presenti casi di contagio o se qualcuno è rimasto ferito durante la rivolta. Verso le 17 un’agente della polizia penitenziaria prova a rassicurare le famiglie: “La situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non dalle celle che non sono state intaccato durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura”. La legittima rabbia dei familiari, tuttavia, non si placa. Non si placa di fronte alle decine dei pullman della polizia penitenziaria che entrano all’interno del carcere sfrecciando a tutta velocità fra la folla (una donna ha accusato anche un malore rischiando di essere investita). Non si placa di fronte al pestaggio di alcuni detenuti ammanettati durante il loro trasferimento sui dei pullman che li trasferiranno in altre carceri (in seguito abilmente posizionati di fronte la porta in modo tale da impedire la visione alle persone esterne). Non si placa di fronte ai silenzi della dirigenza del carcere e del personale penitenziario.
Il giorno successivo, su quel perfetto esempio di pappagallo di regime che è la stampa cittadina, si poteva sfogliare tutto il repertorio della miseria informativa modenese. C’era la “fobia” del virus, c’erano gli “eroi”, gli “agenti feriti” e, soprattutto, c’era già la causa della morte, “overdose”, che si ripeterà, tipo le bugie di Goebbels, come un disco rotto nei giorni successivi, trasformandosi in verità già acquisita e percepita.
Il tragico bilancio effettivo di quella domenica, invece, lo si scoprirà soltanto quattro giorni dopo. Nove morti, Hafedh Choukane, 36 anni; Slim Agrebi, 40 anni; Ali Bakili, 52 anni; Lofti Ben Masmia, 40 anni; Erial Ahmadi, 37 anni; Arthur Isuzu, 32 anni morto il 10 marzo durante il trasporto a Parma da Modena, era in attesa del primo grado di giudizio; Abdellah Rouan, 34 anni, morto durante il trasporto da Modena ad Alessandria; Ghazi Hadidi, 36 anni, morto durante il trasporto da Modena a Trento, anche lui in attesa del primo grado di giudizio e Salvatore Cuono Piscitelli, 40 anni, morto durante il trasporto ad Ascoli da Modena, sarebbe stato scarcerato in agosto.
Solo verso la serata di lunedì, quando il conto delle vittime era già salito a sei, il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, si degnerà di commentare l’accaduto, esprimendo chiaramente una immediata solidarietà alle Forze dell’ordine e avvertendo che, in quel determinato momento, “chi fa polemiche non dimostra senso dello Stato”.
Solo tre giorni prima della rivolta, il 5 marzo, il Ministero della Giustizia proibiva le visite ai detenuti da parte dei familiari causa coronavirus, come se le carceri fossero luoghi totalmente asettici e isolati, senza alcun contatto con il mondo esterno. Il giorno dopo, il 6 marzo, veniva trovato il primo positivo tra le fila della polizia penitenziaria.
Quel filo di fumo non costituiva un richiamo quasi per nessuno. Tutti voltavano la testa imbarazzati. La città sapeva, che stava succedendo qualcosa, là, a Modena, dalle parti di Sant’Anna, al carcere. Le voci cominciavano a girare, nei notiziari locali on line. Davanti ai cancelli solo qualche attivista solitario e impotente – e i parenti, disperati, e torme di divise che entravano e uscivano. Eppure lo vedevamo tutti, dai quattro angoli della città, il fumo di guerra.
In città regna un silenzio che assume su di se tutte le tonalità più cupe dell’inquietudine. Dai giornali si apprende che cinque detenuti sono morti a Modena, mentre per altri quattro l’agonia si sarebbe protratta per ore, durante il loro trasferimento nelle carceri di Parma, Alessandria, Trento ed Ascoli. Di questi ultimi si occuperanno dunque le Procure delle rispettive città. Sempre sui giornali escono i primi nomi delle vittime, si parla di “overdose da stupefacenti” per due detenuti, di cause ancora da chiarire per un terzo detenuto ritrovato cianotico, di un generico “attacco cardiaco” per un quarto mentre il quinto non viene nemmeno menzionato. Sempre dalle pagine dei giornali, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, annuncia che“l’intenzione della Procura è di fare immediatamente luce sui decessi; successivamente si indagherà anche sulla rivolta e i danni che ha provocato.” Si indaga per omicidio colposo «contro ignoti» al fine di avviare le prime autopsie sui cadaveri. Nel mentre il Dap, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, diffonde una noto ufficiale che parla di “overdose”.
n città prosegue il silenzio più eloquente. Non parla nessuno come se il carcere fosse un corpo estraneo catapultato per caso sulla città e la sua popolazione fossa composta sostanzialmente da alieni di cui è bene non occuparsi, non sapere nulla, nemmeno dopo una strage. Ha ragione Iozzoli, si tratta di un eco della memoria, è il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre.
Se qualcuno apre bocca, lo fa solo per scagliarsi contro dei volantini e delle scritte contro il carcere apparsi sui muri della città, come fa il sindaco Muzzarelli affermando di aver mobilitato per cancellarle al più presto i tecnici comunali del settore lavori pubblici dato che, con le nuove direttive di limitazione agli spostamenti, sarebbe stato impossibile farlo fare alle squadre di volontari. Ma c’è da “restituire decoro e dignità alla città”, e, Covid-19 o no, bisogna levare ogni ombra di dubbio, spazzare via ogni domanda e detergere qualsiasi pensiero non omologato dai muri della città. È urgente, così come è urgente “il ripristino del carcere (semidistrutto dalle proteste) per una questione di sicurezza per la città e per il territorio.”
A rompere la cappa di silenzio, compatta come un fascio littorio, sarà la Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux la quale, in un comunicato che denunciava la grave assenza della politica, denuncerà: “Le uniche informazioni che abbiamo ottenuto su quei fatti sono quelle fornite dalla Polizia Penitenziaria, giacché l’Autorità Giudiziaria (requirente e di Sorveglianza) non ha inteso divulgare notizie di dettaglio sullo svolgersi degli accertamenti. I morti nelle rivolte del carcere di Modena sono saliti a 9, un numero enorme che lascia sgomenti, ancor di più per il fatto che risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione.”
In città dunque chi si espone sulla drammatica vicenda non è qualche partito della sedicente sinistra, l’Arci, la Cgil o chissà chi, ma la Camera Penale e solo questo dovrebbe già dirla lunga sulle coordinate politiche reali su cui si muove la città.
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Anche il Gruppo Carcere-Città, prende parola con un comunicato stampa ad hoc che conferma l’assalto alla farmacia da parte dei detenuti ma mette in chiaro anche quali fossero le condizioni della struttura alla vigilia dell’arrivo del coronavirus: “I dati sono allarmanti: con una capienza regolamentare di 369 posti, al 29 febbraio 2020 erano presenti a Modena 562 detenuti e, al 6 febbraio, quattro funzionari della professionalità giuridico-pedagogica e una sola esperta ex art. 80 O.P. per 38 ore mensili. A questo si sommano le responsabilità di chi ostacola la fruizione di misure alternative al carcere per chi ne ha i requisiti.”
A domandare spiegazioni circa il probabile contagio, a chiedere conto cioè della decisione dell’amministrazione penitenziaria di trasferire centinaia di detenuti da Modena ad altre carceri della penisola, aggravando così presumibilmente la dimensione dell’epidemia, ci pensa invece la segreteria del SAPPE (il Sindacato Autonomo di Polizia Penintenziaria) in un articolo abbastanza esplicito sul Resto del Carlino.
A volerle osservare, le logiche che sorreggevano la nostra quotidianità, si sarebbe visto il un carcere come un’immensa discarica sociale, senza più nessuna funzione se non quella di allontanare dalla vista dei cittadini perbene una vasta fetta di popolazione esclusa dalla grande abbuffata del consumo e del prodotto interno lordo. Si sarebbe visto come il matrimonio tra populismo penale e le retoriche securitarie sposate in questi anni con leggi abominevoli (sempre discusse e mai abrogate) come la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi avessero prodotto a Modena un sovraffollamento carcerario di più del 50% (562 detenuti su 369 posti). Tuttavia nel dibattito pubblico (inesistente in realtà) tutto ciò non filtrava e le uniche dinamiche che percolavano dal liquame giornalistico erano le stesse che valevano per qualsiasi altro problema sociale riscontrabile in città, la “mancanza di telecamere” o di dispositivi di sorveglianza ulteriori, persino in uno dei luoghi più sorvegliati che possano esserci, il carcere. Così, mentre gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolavano già quotidianamente la città in funzione antipandemica, ti veniva spiegato che ai fallimenti del securitarismo si poteva rispondere soltanto con un dispositivo securitario ulteriore.
Passano i giorni e della strage nel carcere di Modena si parla sempre meno. La tecnica della menzogna di Goebbels ha funzionato ancora una volta e per il cittadino comune la verità è già chiara: sono tutti morti di “overdose”.
A due giorni di distanza dalla strage nel carcere, il 10 marzo, in fabbrica, all’Opas di Carpi, ex Italcarni, muore stritolato da un nastro trasportatore un lavoratore iscritto al S.i.Cobas. “Era talmente isolato che nessuno lo ha visto né sentito ed è stato ritrovato solo dopo molto tempo.”
Davanti all’Opas, il giorno seguente, chi si presenta con delle bandiere del sindacato per rivendicare la sicurezza sul lavoro dopo la morte del collega viene identificato e fatto sgoberare dalla Digos. Funziona così a Modena, con la Questura che agisce come fosse l’Agenzia Pinkerton.
L’indomani invece, il 13 marzo, dal S.i.Cobas viene lanciato lo stato d’agitazione nazionale “per la tutela della salute degli operai, costretti a lavorare come se nulla fosse, accalcati a centinaia nei magazzini e nelle fabbriche di tutta Italia, spesso senza alcun dispositivo di protezione.”
Badare bene, il protocollo d’intesa per la sicurezza negli ambienti di lavoro, quello che non fa riferimento ad alcuna sanzione per le aziende, verrà firmato, da governo e sindacati confederali, giusto il giorno seguente, il 14 marzo.
Anche in questo caso, è la Digos a intervenire assieme alla polizia in tenuta antisommossa. In un clima surreale, con la complicità delle recentissime disposizioni per l’emergenza coronavirus che offrono all’agente di pubblica sicurezza un potere quasi illimitato, nel più totale sfregio dell’articolo 40 della Costituzione, otto operai più il coordinatore provinciale del S.i.Cobas Enrico Semprini vengono arrestati, portati in questura (il carcere di Modena era inagibile a causa della rivolta) e denunciati per violazione del decreto emergenziale, violenza privata e manifestazione non autorizzata. Non solo, come se non bastasse anche chi, il giorno precedente, aveva manifestato per la morte del collega stritolato da un nastro trasportatore viene denunciato dalla Digos per violazione delle norme di contenimento del Covid-19.
Le profilassi sanitarie in questo caso non centravano nulla centrava solo il fascismo intrinseco che la politica italiana aveva partorito sapientemente negli ultimi anni.
La settimana dopo, il 17 marzo, in piena emergenza coronavirus arrivava invece un ulteriore conferma delle priorità dello Stato italiano che, per bocca del Tribunale di Torino, condannava a due anni di sorveglianza speciale (misura identica al confino fascista) Maria Edgarda Marcucci (detta Eddi) rea di aver combattuto contro il terrorismo Isis. In pratica contro un sedicente nemico dello Stato italiano ma che forse, in realtà, tanto nemico non è. Dopotutto, nella breve storia della Repubblica italiana i rapporti incestuosi fra Stato e terrorismo non mancano di certo.
Passano altri giorni e anche a Modena si cominciano a multare i senzatetto in violazione delle norme di contenimento del coronavirus. Della strage in carcere non si parla più, girano voci di contagi in fabbrica, ad Italpizza e ad AlcarUno (questi qua), luoghi in cui è presente il S.i.Cobas e nei quali si lavora gomito a gomito ma “i nostri ambienti di lavoro sono oggi molto più sicuri di tante abitazioni dei lavoratori stessi” ci tengono a precisare “eroici” imprenditori.
Si comincia a parlare di droni per i controlli nei parchi, di fantomatici “assembramenti”, si dà la caccia al runner in diretta televisiva, si intensifica la presenza militare per le strade per far rispettare il “coprifuoco”, si fanno volare gli elicotteri delle forze dell’ordine a seimila euro l’ora, ma degli “assembramenti” nelle fabbriche e del sistema produttivo non parla quasi nessuno. E i lavoratori spariscono così dai radar della narrazione pubblica, da quella stessa macchina mediatica che li aveva definiti “eroi”, sfruttando il paradigma antichissimo della distinzione fra «classi laboriose» e «classi pericolose», un diaframma tanto differenziale quanto sovrapponibile all’occorrenza.
I lavoratori spariscono così come spariscono i detenuti morti durante le rivolta nelle carceri (14 vittime, 9 a Modena, 4 a Rieti e uno a Bologna). E se i lavoratori spariscono per i detenuti diventa incerto addirittura il numero dei morti e lo diventa persino negli appelli per chiedere verità e giustizia.
Verso fine marzo si ha notizia dei primi “assalti” ai supermercati, succede a Palermo ma anche a Bari e chissà in quante altre città. Il fenomeno preoccupa, la coperta degli ammortizzatori sociali è corta e il lockdown imposto dal coronavirus è a un amplificatore enorme di marginalità. Le risposte della politica italiana a qualsiasi tipo di problema social sono ridotte ormai a un unico riflesso reazionario, il cercare di risolverle per mano militare. Niente di strano. Ciò che però fa riflettere è il tic narrativo che sgorga subito dalla macchina della propaganda mediatica e che inquina immediatamente ogni possibile dibattito. È un frame che conosciamo perché l’abbiamo già visto all’opera durante la rivolta nelle carceri sulle quali è proiettata l’ombra di una “regia occulta”, del “sottobosco mafioso” o dei soliti “gruppi organizzati”. Il pensiero che si possa protestare per la semplice paura di morire o di essere contagiati dentro una cella o perché non si hanno soldi nemmeno per una spesa alimentare, non deve sfiorare le sinapsi. La cornice di ogni protesta sociale, l’operazione di framing, deve ricondurre sempre a una “regia occulta”, deve produrre un nemico facilmente individuabile e isolabile.
Così si fa la guerra.
Il fatto che, praticamente in contemporanea, il governo decidesse di fornire ai Comuni 400 milioni (337 quelli invece spesi per l’acquisto di 15 nuovi elicotteri da guerra) destinati espressamente ad aiutare i cittadini senza i mezzi per fare la spesa è un dettaglio non proprio irrilevante.
Sempre verso la fine di marzo escono i nomi delle vittime del carcere di Modena. Non li fornisce né il Ministro della giustizia Alfonso Bonafede, né il Dap che continuano a mantenere il massimo silenzio sulla vicenda, ma le associazioni che si occupano di detenuti e siti di controinformazione e controcultura. Come in guerra, quando si ascoltava Radio Londra. Dalla procura di Modena, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio fa sapere che per le cinque persone trovate morte nel carcere di Modena il decesso è attribuibile all’overdose di metadone e psicofarmaci. Gli esami tossicologici però sarebbero ancora in corso e, sebbene siano passati quasi due mesi da quella strage, di questi non si sa ancora nulla e nessun’altra notizia è mai stata pubblicata in merito.
Il silenzio prosegue. La guerra anche.
La “fase due” segna il ritorno alla “normalità”. Una “normalità” fatta di morti sul lavoro (5 solo nella giornata di ieri), dove i lavoratori della Tnt di Peschiera Borromeo protestano perché lasciati a casa all’improvviso, in 60, in un periodo nel quale per decreto le aziende non potrebbero nemmeno licenziare. Una “normalità” nella quale la polizia viene sguinzagliata unicamente su di loro violando, ancora una volta, ciò che costituzionalmente veniva chiamato diritto di sciopero.
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Non andrà tutto bene… |