Per tutta la vita Gaetano Santangelo si è dovuto difendere dallo Stato. La sua storia ha a che fare con uno dei grandi misteri italiani irrisolti: la strage di Alcamo Marina del 1976 in cui rimasero uccisi due carabinieri trivellati da colpi di arma da fuoco all’interno della casermetta della provincia di Trapani.
Dopo oltre quarant’anni, i colpevoli sono ancora ignoti, mentre una lunga vicenda processuale ha restituito alle cronache le vite spezzate di quattro innocenti condannati ingiustamente: Giuseppe Gulotta, Giovanni Mandalà, Vincenzo Ferrantelli e, appunto, Gaetano Santangelo. Vittime di un clamoroso errore giudiziario, gli allora giovanissimi alcamesi sono stati assolti con formula piena in sede di revisione del processo dopo trent’anni dall’arresto.
Nel caso di Mandalà, morto nel 1998, la riabilitazione è arrivata troppo tardi: la sua vita è finita dentro una cella. Per raccontare l’incubo di Santangelo, invece, bisogna partire dal 12 febbraio 1976. Nel cuore della notte i carabinieri di Alcamo bussano alla sua porta per trascinarlo in caserma senza fornire alcuna spiegazione. All’epoca Santangelo ha solo 16 anni, con lui in casa ci sono la madre e i fratellini terrorizzati. Nessun mandato di cattura, nessuna accusa formale: il ragazzino viene chiuso in una stanza, semi immobilizzato, mentre quattro carabinieri lo pestano violentemente.
Non ha idea di che cosa stia succedendo, l’anima gli viene strappata a forza di pugni. «Sono stato sequestrato dallo Stato», racconta oggi. Dopo ore di interrogatorio la pelle del volto è martoriata, ha una pistola puntata alla testa: «sì, sì, ho partecipato alla strage della casermetta», sospira esausto.
Il verbale della presunta confessione viene stilato l’indomani alla presenza di un avvocato d’ufficio. Santangelo non sa chi sia. Nel registro matricole del carcere, compilato al momento dell’arresto ufficiale, c’è ancora traccia di tutta la vergogna di quella notte: «Gaetano Santangelo riporta delle ferite sul corpo perché è scivolato su una buccia di banana». Seguono 58 giorni di isolamento e 27 mesi di reclusione fino alla data del primo processo.
Per comprendere quegli anni e la follia che travolse irrimediabilmente l’esistenza di un adolescente di provincia bisogna calarsi nel clima di terrore e sospetto che attraversò l’Italia all’epoca delle stragi e dei delitti eccellenti.
Santangelo non apparteneva alla mafia, non venne mai ricondotto ad alcuna organizzazione politica. Al momento dell’arresto la sua vita si svolgeva tra la scuola serale e la campagna di famiglia dove lavorava come contadino.
Per stabilire la sua colpevolezza bastarono le parole di Giuseppe Vesco, suo vicino di casa: arrestato per furto d’auto, l’altro giovane alcamese venne trovato in possesso della stessa arma utilizzata nell’agguato alla casermetta. Fu lui a confessare per primo facendo i nomi degli altri quattro indagati: passarono anni prima di scoprire che anche quella dichiarazione era stata estorta sotto tortura.
Dalle lettere di Vesco scritte dal carcere San Giuliano di Trapani si legge: «Fui spogliato fino a raggiungere il costume adamitico. Non opposi alcuna resistenza, non sarebbe servito a niente. Appena denudato vengo sollevato di peso e portato come un oggetto sui bauli alti da terra tra gli 80 e i 90 cm. Per la prima volta nella mia vita mi sento come un animale da squartare. Un agente avvolge uno straccio alle mie caviglie. Qualcuno tiene i miei piedi uniti… poi è la volta delle braccia. Il mio corpo si piega come un arco e un dolore acutissimo ma sopportabile si avverte alle gambe all’altezza dei polpacci, alle braccia, alle scapole e agli anelli della colonna vertebrale all’altezza dei fianchi. Uno mi tira i piedi, l’altro le braccia, un terzo è a cavalcioni, un quarto mi tiene la testa per í capelli con una mano mentre con l’altra tappa il naso in modo da non farmi prendere aria».
Di quella sequenza di violenze è Santangelo a parlarci. La sua voce rotta dal pianto non nasconde la rabbia, l’umiliazione: vuole spiegarci quale immenso equivoco ha distrutto la sua vita.
Un atto deliberato, un malinteso non casuale, nato probabilmente da una montatura pianificata dagli uomini guidati dall’allora comandante dei carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso dalla mafia. Mentre percorre le tappe della sua storia Santangelo tiene tra le mani dei fogli con delle date annotate. 1981, sentenza di assoluzione in primo grado per insufficienza di prove. Non hanno mai trovato nulla che lo collegasse al delitto. 1982, sentenza di condanna in appello a 22 anni di carcere. Il processo si era spostato intanto da Trapani a Palermo: le pressioni sulla Corte sono enormi, ma nel 1984 la Cassazione annulla la condanna e rinvia il giudizio presso la corte d’appello dei minori: il processo si scinde in due tronconi, Ferrantelli e Santangelo vengono giudicati separatamente dagli altri due imputati. A volersi districare nella vicenda giudiziaria durata oltre trent’anni si prova un senso di vertigine. Di tribunale il tribunale, dalla Sicilia a Roma, il destino di quattro uomini resta in attesa di giudizio.
Intanto la vita di Santangelo corre parallelamente: l’incontro con sua moglie, il primo figlio, fino al giorno maledetto del 1992. La Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna emessa un anno prima, che a sua volta riprendeva quella dell’ 82. Santangelo ormai ha 30 anni, la notizia arriva come una doccia fredda: «Non potevo aspettare che mi venissero a prendere, costringendo la mia famiglia a fare avanti e dietro dal carcere», racconta spiegando la scelta dell’esilio in Brasile.
Comincia la sua vita da latitante. Trovato dall’Interpol, il paese Sudamericano nega l’estradizione in Italia perché in base alla normativa brasiliana il reato è caduto in prescrizione. Passano altri 27 anni: la sentenza di assoluzione definitiva arriva nel 2012 con il processo di revisione, ma Santangelo torna in Italia solo lo scorso anno. Nessuno gli ha mai domandato scusa, ha dovuto affrontare una battaglia legale anche per ottenere il risarcimento dello Stato: ingiusta detenzione, danni psicologici, danni patrimoniali. Non un solo centesimo che possa riparare al dolore: «Quando pronuncia il mio nome, lo Stato italiano deve vergognarsi. Mi hanno perseguitato per 36 anni, e una volta riconosciuto l’errore, non si sono neanche interessati a come stessi, come vivessi in un paese straniero». |