Ieri mattina (17 settembre), alle 6.00, Dana Lauriola, esponente del Movimento No TAV e dell’antagonismo torinese, è stata prelevata dalla sua abitazione di Bussoleno e condotta in carcere in esecuzione di una condanna a due anni di carcere per una manifestazione di protesta risalente a otto anni fa. Il Tribunale di sorveglianza di Torino ha, infatti, respinto la sua richiesta di scontare la pena in misura alternativa (affidamento in prova o detenzione domiciliare).
Non c’è limite al peggio, vien da dire. Per Dana, naturalmente, e per il Movimento No TAV. Ma anche per le sorti del sistema giustizia nel nostro Paese, sottoposto a torsioni sempre più pericolose e inquietanti.
1. Cominciamo dai fatti facendo parlare, per quanto possibile, proprio i documenti giudiziari.
Era il 3 marzo 2012. Cinque giorni prima Luca Abbà era precipitato, folgorato, da un traliccio dell’alta tensione su cui si stava arrampicando, inseguito da un agente di polizia, per protestare contro gli espropri in atto per la realizzazione, alla Maddalena di Chiomonte, del cantiere propedeutico alla linea ferroviaria Torino-Lione. L’emozione in Val Susa era altissima e mentre Luca, in ospedale, lottava tra la vita e la morte, si susseguivano le manifestazioni di solidarietà e di protesta. Una di queste si svolse ad Avigliana dove 300 manifestanti si diressero all’autostrada del Frejus «occupando l’area del casello, rendendo inefficienti gli impianti di videosorveglianza e bloccando con nastro adesivo le sbarre di pedaggio in modo da consentire il passaggio continuo dei veicoli in transito». Tra i partecipanti c’era Dana Lauriola «che, ponendosi alla testa dei manifestanti, con l’utilizzo di un megafono intimava agli automobilisti di transitare ai caselli senza pagare il pedaggio indicando le ragioni della protesta» (così la sentenza 28 marzo 2017 del Tribunale di Torino che ha quantificato in 777 euro il danno patrimoniale riportato dalla società concessionaria dell’autostrada per mancata riscossione dei pedaggi). Per tale fatto – qualificato come violenza privata con l’aggiunta di alcuni reati “satellite” – Dana e altri dieci manifestanti sono stati condannati, il 28 marzo 2017, a due anni di reclusione (ridotti in appello per alcuni, ma non per Dana, a un anno). I ricorsi degli imputati sono stati respinti dalla Cassazione.
Un solo commento. Il reato più grave, la violenza privata, prevede una pena minima, considerate le concesse attenuanti generiche, di 15 giorni. Il tribunale non spreca una parola per spiegare l’entità della pena inflitta e la mancata concessione dalla sospensione condizionale della pena: si limita a dire che «pena equa appare» quella di due anni di carcere (circa un giorno per ogni euro di mancato introito della società autostrade: sic!) senza neppur citare il contesto del fatto, lo stato d’animo dei protagonisti, l’incensuratezza di Dana. Né maggiori spiegazioni dà la Corte d’appello che conferma la pena inflitta «considerata la complessiva gravità oggettiva e soggettiva dei reati» e ritiene non concedibile la sospensione condizionale per l’esistenza di altri procedimenti pendenti per fatti analoghi a carico di Dana. Eppure la sproporzione tra la sanzione inflitta e il fatto è di rara evidenza e chiunque frequenti le aule giudiziarie sa che una condanna a due anni di carcere per una violenza privata con quelle caratteristiche è davvero un unicum.
2. Ma veniamo a oggi. Diventata definitiva la sentenza Dana ha chiesto di scontare la pena in misura alternativa al carcere (affidamento in prova al servizio sociale o detenzione domiciliare) come previsto dagli articoli 47 e 47 ter dell’ordinamento penitenziario per le pene non superiori a tre o a due anni. Ma il Tribunale di sorveglianza di Torino, con ordinanza 9-11 settembre 2020 ha respinto entrambe le richieste nonostante la perdurante incensuratezza di Dana (pur gravata da alcuni procedimenti pendenti), l’esistenza di un lavoro stabile e di notevole responsabilità (coordinatrice dell’unità operativa e referente educativa di un centro polifunzionale comprensivo di dormitorio per senza fissa dimora ed emporio sociale), le valutazioni ampiamente favorevoli alla misura alternativa dei servizi sociali della amministrazione penitenziaria.
Sorprendenti le motivazioni, articolate su due profili principali: la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No TAV (pur in un quadro di revisione critica «delle modalità con le quali porre in essere la lotta per le finalità indicate») e il luogo della sua abitazione, prossimo all’epicentro dell’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). Proprio così, letteralmente. Questi i passaggi principali dell’ordinanza:
– quanto al primo profilo: «Le risultanze in atti sottolineano una devianza sociale nata da ideologie di natura politica, propugnate fino a epoca recentissima. […] La lunga carriera militante della Lauriola è perdurata fino a epoca recentissima, dando prova della sua incrollabile fede negli ideali politici per i quali non ha mai esitato di porre in essere azioni contrarie alle norme penali»;
– quanto al secondo profilo: «La Lauriola risiede a Bussoleno, comune dell’Alta Val di Susa: la collocazione geografica del domicilio del soggetto coincide con il territorio scelto come teatro di azione dal movimento No TAV, il quale ha individuato il cantiere di Chiomonte per la realizzazione della futura linea dell’Alta Velocità come scenario per frequenti manifestazioni e scontri con le Forze dell’Ordine. La vicinanza di tale luogo al luogo di dimora della condannata, la espone al concreto rischio di frequentazione di soggetti coinvolti in tale ideologia e di partecipazione alle conseguenti iniziative di protesta e dimostrative che, dopo le stringenti limitazioni imposte dal lockdown, potrebbero in futuro diventare più frequenti in misura proporzionale alle decisioni programmatiche del Governo Centrale in merito alla prosecuzione dei lavori sulla linea ferroviaria (l’incremento delle infrastrutture costituisce uno dei fulcri del programma di governo per ottenere i fondi destinati all’Italia dal Recovery Fund europeo)».
Si noti: a Dana è contestato non già di avere mantenuto rapporti con una (inesistente) associazione delittuosa ma di avere tenuto fermi i propri «ideali politici» e la propria opposizione al TAV; non solo ma quel che le è richiesto come condizione per evitare il carcere è l’abbandono del suo ambiente di vita, dei suoi affetti, magari dello stesso lavoro (cioè esattamente l’opposto dell’obiettivo dell’affidamento in prova che è, appunto, quello di favorire o mantenere l’inserimento sociale).
Motivazioni inquietanti, anche se non nuove (anzi, in parte letteralmente fotocopiate da un’analoga decisione assunta un anno fa nei confronti di Luca Abbà: https://volerelaluna.it/tav/2019/09/15/la-vicenda-esemplare-di-luca-e-la-giustizia-nel-paese-del-tav/), sintetizzabili in una massima da valere ora e in futuro: se sei No TAV, abiti in Alta Val Susa e non fai pubblica abiura delle tue convinzioni e dell’adesione al movimento di opposizione alla Torino-Lione non puoi avere misure alternative al carcere, indipendentemente dal tuo buon inserimento sociale, dall’esistenza di un’attività lavorativa stabile, dalla tua stessa incensuratezza. Quel che conta – come è stato scritto nel commento all’ordinanza appena citata – è “sorvegliare e punire”. E, poi, dare un esempio. Il movimento No TAV è avvisato.
3. Con questa ordinanza il cerchio si chiude, a conferma di un’analisi risalente sul segno e il senso dell’intervento giudiziario dell’ultimo decennio in Val Susa: «L’emissione della misura cautelare nei confronti di alcune decine di esponenti No TAV per fatti avvenuti sette mesi fa (all’atto dello sgombero del cantiere della Maddalena, ndr) non è una forzatura soggettiva (e, anche per questo, sono sbagliate le polemiche e gli attacchi personali). È qualcosa di assai più grave: una tappa della trasformazione dell’intervento giudiziario da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali (per definizione diversificate) a strumento per garantire l’ordine pubblico» (L. Pepino, Gli arresti non tornano, il manifesto, 29 gennaio 2012). Allora si gridò allo scandalo. Magistrati ed editorialisti di ogni estrazione si affannarono nel dire che non era così e che ad essere perseguito non era un movimento, per quel che significava, ma solo singoli suoi esponenti per fatti specifici e illeciti. Gli eventi successivi hanno dimostrato il contrario: con la predisposizione di un pool presso la Procura di Torino per indagare sui reati connessi con il TAV prima ancora della loro commissione (sic!), con la dilatazione del concorso di persone nel reato, con l’emissione di misure cautelari a dismisura, con la contestazione di reati tanto gravi quanto inesistenti, con l’entità delle pene inflitte, con il circuito preferenziale riconosciuto ai processi contro esponenti No TAV anche per fatti bagatellari e via seguitando. Oggi l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che ha negato l’affidamento in prova a Dana dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio (per usare una espressione del gergo giudiziario) che quella che si sta scrivendo in Val Susa è una pagina di diritto penale “del nemico”, sempre più lontana dal diritto penale classico e sempre più vicina ai desiderata dei poteri forti.
Così funziona la giustizia nel Paese del TAV. Resta da chiedersi il perché: ma è un punto ineludibile su cui bisognerà tornare. |