Silenzio da parte del ministro Bonafede e del Dap sui presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri, dove – come risposta alle rivolte –,se confermato, si sarebbe verificata una grave violazione dei diritti umani.
Nell’ombra, ad esempio, è rimasta la vicenda di Foggia. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare.
Le testimonianze dei familiari dei detenuti
Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima del trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze, compreso la violenza che si sarebbe perpetuata nei confronti di un detenuto in carrozzina, ma finora silenzio tombale.Riportiamo nuovamente alcune testimonianze citate nell’esposto: «In data 8/ 03/ 2020 mio figlio, detenuto fino al 12/ 03 presso la Casa circondariale di Foggia durante la chiamata, mi ha riferito quanto segue: a seguito delle manifestazioni di protesta messe in atto da parte di numerosi detenuti impauriti a causa dell’allarme Coronavirus, il giorno della rivolta sono entrati in 5 o 6, incappucciati e con manganelli. I detenuti sono stati massacrati di botte, trasferiti solo con ciabatte e pigiama e tenuti in isolamento per i successivi 6/ 7 giorni. Solo dopo una settimana i detenuti hanno ricevuto i loro oggetti personali», riferisce la madre del detenuto, trasferito al carcere di Viterbo.Testimonianza della sorella di un altro detenuto: «In data 9 marzo mio fratello, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: in piena notte è stato picchiato a manganellate e portato via in pigiama e ciabatte per essere trasferito in un’altra struttura, dopo la rivolta fatta alcuni giorni prima».
Mio figlio preso a manganellate
Nell’esposto in Procura si aggiunge anche la testimonianza di un’altra madre di un detenuto, poi trasferito nel carcere di Catanzaro: «In data 9 marzo mio figlio, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: di essere stato picchiato a manganellate su tutto il corpo, specialmente sulle gambe e portato al carcere di Catanzaro senza avere la possibilità di prendere il vestiario o il minimo indispensabile». C’è poi un’altra testimonianza, questa volta della moglie di un detenuto invalido. «ll 20/ 03/ 2020 durante la telefonata con mio marito – testimonia la donna – ho avvertito la sua sofferenza, accusava dolori alle costole e mi ha riferito di aver sbattuto da qualche parte. Lui è invalido al 100% e non potrebbe mai muoversi con violenza dal momento che è in carrozzina. Sono certa che lui non può parlare liberamente. Infatti, successivamente mi ha riferito che la prima lettera che avrebbe voluto inviarmi dopo il massacro successo a Foggia gli è stata strappata. Gli ho detto di farsi portare al pronto soccorso ma non lo fanno perché altrimenti andrebbe in quarantena. Io voglio vederci chiaro!». Sono tutte testimonianze drammatiche. Sono passati però mesi e tutto tace. Come detto, non solo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma si sarebbe verificata una sistematica ritorsione avvenuta in diversi penitenziari come risposta alle rivolte di marzo scorso.
Silenzio tombale anche sull’ennesimo presunto pestaggio che sarebbe avvenuto al carcere Mammagialla di Viterbo. Un silenzio da parte delle autorità che espone il detenuto – ancora recluso lì – ad eventuali ripercussioni. La compagna, Alessia, raggiunta ieri da Il Dubbio, è preoccupata. Nonostante l’esposto, il detenuto ancora non è stato sentito dalla procura. Lui stesso denuncia di ricevere minacce verbali e ha paura di rifinire nella cella d’isolamento. Vale la pena ricordare cosa è accaduto. Parliamo di Valerio Mazzarella, 41 anni, che è stato trasferito a Mammagialla da Rebibbia lo scorso 2 marzo. «I primi episodi mi vengono comunicati a partire dal 25 marzo – si legge nell’esposto che Alessia ha presentato ai carabinieri– quel giorno, poco prima del cambio di guardia, quattro agenti prelevavano Mazzarella Valerio dalla propria cella per portarlo in una stanza dove iniziavano a picchiarlo».
Il racconto durante le videochiamate
Il tutto, sarebbe avvenuto – secondo quanto ha riferito alla compagna tramite videochiamata e lettere – senza alcun reale motivo se non le legittime richieste riguardanti la vita penitenziaria che il detenuto avrebbe rivolto agli agenti.«Richieste – continua il racconto di Alessia nell’esposto– peraltro, puntualmente disattese. In quella occasione, due agenti lo tenevano e due lo picchiavano lasciando segni evidenti sulla testa, in particolare, un taglio profondo ad oggi tramutatosi in evidente cicatrice. Pur essendo stato medicato è da verificare se sia stato refertato e se ciò risulti nella cartella clinica». Alessia sarebbe venuta a conoscenza dei fatti denunciati sia tramite la corrispondenza intrattenuta col compagno, sia tramite le conversazioni Skype autorizzate durante le quali ha potuto vedere i postumi del pestaggio. Non sarebbe stato l’unico. «Il 12 agosto 2020 – si legge sempre nell’esposto – lo hanno messo in isolamento in una cella vicina all’infermeria, una stanza piccola e sporca, maleodorante con escrementi sulle mura». Lì gli avrebbero consentito di fare solo mezz’ora d’aria al giorno.Il 13 agosto il detenuto avrebbe ricevuto l’ennesima irruzione notturna, da parte dei soliti 3-4 agenti. «Lo hanno colpito alla testa per cui, ad oggi, sono quattro le cicatrici evidenti», si legge sempre nell’esposto. «Lui chiede – continua il racconto verbalizzato dai carabinieri – di poter parlare con gli psicologi e di essere sottoposto a visita medica, ma gli viene negato. Mi fa sapere di sentirsi sepolto vivo e che ogni giorno gli fanno rapporti disciplinari per fatti non accaduti per provocare la sua reazione».
La compagna Alessia ha chiesto aiuto
Alessia riferisce al Dubbio che il suo compagno avrebbe cercato di denunciare tutto ciò ma non sarebbe stato preso in considerazione. Anzi, i pestaggi si sarebbero infittiti. «Violenze sempre più raccapriccianti come quando gli hanno ustionato le mani con piccoli pezzi di plastica incandescente. Il giorno dopo sono comparse sulle sue mani vesciche – racconta la donna – che io ho potuto vedere personalmente il 22 agosto tramite colloquio visivo via Skype».Il detenuto ha chiesto ad Alessia, nelle loro rapide chiamate telefoniche, di denunciare questi fatti e di esporre che «oltre alla violenza fisica c’è anche quella psicologica perché gli agenti lo istigano per indurlo a reagire magari compiendo gesti irreparabili come già accaduto con un altro detenuto il quale si è tolto la vita». Da ricordare che, quando ha saputo dal compagno che sarebbe stato pestato dagli agenti a più riprese, Alessia si è messa subito in moto e tramite una ricerca su internet ha contattato l’attivista dei diritti umani Pietro Ioia, ex detenuto e ora garante dei detenuti del comune di Napoli. Si è attivato subito e le ha consigliato di mettersi in contatto con l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, la quale già nel passato si è mossa per un caso analogo accaduto proprio nell’oramai famigerato penitenziario di Viterbo, conosciuto non a caso per essere un “carcere punitivo”. Un istituto penitenziario finito al centro della cronaca per casi di strani sucidi e diversi presunti pestaggi di recente attenzionati dall’autorità giudiziaria. Però, nonostante la denuncia, il detenuto ancora non è stato sentito dall’autorità. Nessuna interrogazione parlamentare. Ma soprattutto nessuna risposta da parte del Dap che dovrebbe attivarsi, anche con una indagine interna e magari tutelare il detenuto che è ancora lì, in una condizione di oggettiva vulnerabilità. |